|
Mercoledì, 16 febbraio 1972
Le Ceneri: questa parola concentra per noi cattolici una grande
ricchezza di elementi dottrinali, i quali sono, più o meno, a tutti
noti. Il rito dell’imposizione delle ceneri è un rito di penitenza,
che nella liturgia odierna conduce il pensiero dei fedeli ad una duplice
considerazione:
1. La fragilità estremamente effimera della vita presente, con la
conseguente classificazione dei veri valori a cui deve tendere
l’impiego delle nostre forze nel fugace e prezioso lasso di tempo a noi
concesso per bene operare: prima del dissolvimento nelle ceneri della
morte la nostra esistenza deve ricordarsi di conquistare quei titoli non
vani e non caduchi, cioè i meriti davanti a Dio, che le assicurino
una condizione felice nella sopravvivenza futura, disingannandola dal
mettere il suo cuore nell’affannosa e peccaminosa ricerca, come fosse
unica e suprema, di quei beni, che il tempo seduttore offre e divora.
È una meditazione molto severa e realista sul nichilismo della vita
temporale, a cui la morte tutti ci condanna. È una scossa psicologica
e morale di grande efficacia; non ci dispiaccia di farne la sincera,
umiliante, ma benefica esperienza. Assorbiti e incantati come siamo
dall’attualismo, dall’attivismo, dall’edonismo della vita moderna
dobbiamo apprezzare l’antico ed austero richiamo che la liturgia della
Chiesa oggi ci rivolge, come a gente da svegliare da un assopimento
funesto ad una chiarezza di giudizio sulla vera concezione della nostra
esistenza, su cui incombe inesorabile l’insidia della fine temporale e
il mistero della sorte futura.
ESPIAZIONE E RIFORMA
2. L’altra considerazione, sulla quale la pedagogia liturgica
insisterà più a lungo è quella della penitenza. La quale esigerebbe
anche più diffusa meditazione; e sappiamo perché. Penitenza vuol
dire riforma, vuol dire espiazione; riforma ed espiazione che
suppongono turbati i nostri rapporti con Dio; suppongono un disordine
fatale fra noi e Dio; suppongono quella frattura dell’anello di
congiunzione della nostra vita e del suo destino alla sorgente della
vera Vita, che è Dio, la quale frattura si chiama peccato, la
disgrazia più grave che possa capitare all’uomo, perché genera la
sua morte eterna, ora differita, ma per sé già decretata; e anche
perché l’uomo da sé non avrebbe rimedio a tanta rovina. L’uomo da
sé è capace di perdersi, non di salvarsi. La penitenza si riferisce
al peccato; e il peccato al distacco dal Dio vivente. Anche questo
è un tema assai grave, che deve tenere sempre in sospeso i nostri
spiriti, specialmente durante il prossimo periodo quaresimale, il
quale è appunto rivolto alla ricerca della riparazione di questa
sventura, ch’è il peccato; e la ricerca ci conduce alla sublime e
straordinaria fortuna, operata da Cristo, della nostra salvezza,
cioè al mistero pasquale.
La Pasqua è la redenzione compiuta da Cristo, ed è per noi la
vita.
Sì, Cristo ci salva; Egli è la unica causa meritoria della nostra
giustificazione. Raggiunto Lui, è raggiunta la salvezza. Teniamo
bene presente questa fondamentale dottrina: solo Cristo ci salva.
Come risulta dalla teologia, che l’apostolo S. Paolo specialmente
illustrò e propugnò, in termini più chiari nella lettera ai Romani
ed in quella ai Galati: Cristo è necessario, Cristo è
sufficiente.
L'AZIONE SALVATRICE DEL SIGNORE
Ma detto questo sorge una complessa questione: come arrivare a
Cristo? Basta la fede? Sì, basta per sé all’efficienza
dell’operante sua misericordia; ma la fede a sua volta comporta delle
disposizioni; e queste dipendono anche dalla nostra libera volontà,
dalla nostra cooperazione sotto l’influsso della grazia. Cristo è la
causa; la fede è la prima disposizione, la quale tuttavia ne comporta
un’altra, che ora, con un termine solo, chiamiamo penitenza.
Che cosa ci insegna in proposito la prima predicazione del Vangelo?
Disse il Battista: «Fate penitenza, e si avvicinerà a voi il
regno dei cieli» (Matth. 3, 2). Esortazione che Cristo ripete
(Cfr. Matth. 4, 17), e che l’evangelista S. Marco riporta
così: «Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è vicino; fate
penitenza e credete al Vangelo» (Marc. 1, 15). Questo ci
indica l’importanza propedeutica, preparatoria della penitenza; la
sua relativa necessità nel piano logico e pratico della salvezza, nel
quale la libertà umana e una certa collaborazione da parte nostra non
possono mancare. Non possono mancare, come disposizione, perché
l’azione salvatrice del Signore possa essere in noi operante; non
dopo la ottenuta giustificazione, come frutto coerente e fecondo della
grazia vivente nell’anima. Abbiamo bisogno sempre di questa
esercitazione penitenziale. Anche per un’altra ragione più
profonda, ben nota alle anime penitenti; che è quella della
solidarietà nell’economia della salvezza: vi è chi può espiare per
altri, in modo infimo, ma analogo a quello di Gesù, che non per
Sé, ma per noi soffrì la morte di croce; e come c’insegna ancora
S. Paolo, scrivendo ai Colossesi: «Io compio nella mia carne
ciò che manca alle sofferenze di Cristo» (Col. 1, 24).
Eccoci dunque noi pure trascinati nel grande disegno della salvezza!
La Chiesa non solo c’invita, ma ci spinge verso questa salutare
disciplina della penitenza, destinandovi specialmente questo faticoso e
gioioso cammino dei quaranta giorni, che ci conduce alla Pasqua. Una
volta il digiuno, la sospensione dei futili divertimenti e qualche
altro esercizio ascetico marcavano fortemente, anche all’esterno,
questo periodo dell’agone cristiano. Oggi la disciplina canonica è
mutata e addolcita; ma non è abolito il bisogno e il dovere della
penitenza: l’umiltà, la coscienza del peccato, la preghiera,
l’ascolto della parola di Dio, la carità e ogni opera buona vi
possono dare espressione a tutti possibile. Non lasciamo passare
questo «tempo propizio» (2 Cor. 6, 2). Comincia con la
tristezza delle ceneri, prosegue per il sentiero stretto della
penitenza, termina nella celebrazione della Pasqua di risurrezione.
|
|