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Domenica, 12 marzo 1966
Eccoci di nuovo a Sant’Ivo. Sono passati quarant’anni, da quel
21 marzo; c’era allora Mons. Palica e fu lui, come
Vicegerente, che riaprì al culto questa chiesa; e c’era il
Ministro Pietro Fedele, e con lui tante altre autorità del Comune
e dell’Università; ed anche molti studenti. E c’eravamo noi, là
in fondo, a guardare e a partecipare, e così, finite le cerimonie,
i giorni successivi restammo soli, e il Cappellano di allora - che
salutiamo qui, adesso, con grande riconoscenza e compiacenza -
cominciò a spiegare i suoi famosi Vangeli, e a dirci la Messa con
tanta bontà, e con quella assiduità così regolare, così zelante e
così cordiale.
Questo ci rese tutti una comunità di amici; e c’era il nostro
Alessandrini che leggeva le preghiere e i brani dell’Epistola e del
Vangelo, e c’era chi vi parla che faceva da introduttore, diciamo da
vice Cappellano.
E poiché allora, - non so se sia così anche adesso, - gli
studenti non erano puntuali, per coprire il ritardo decentemente si
spiegava agli zelanti, che invece erano venuti con puntualità,
qualche cosa del rito che stava per incominciare.
Questi furono gli inizi. Ma questa cappella cosa divenne? È la
domanda che ciascuno di noi porta nel cuore in questo momento; vorremmo
interrogare la storia, e il Card. Cicognani ce l’ha descritta
adesso così bene, facendo vedere il collegamento tra la fase della
presenza universitaria in questa chiesa con quella successiva dei
Laureati.
E resta, in fondo all’anima, il desiderio di comprendere meglio;
resta anche in Noi stessi, che pur abbiamo avuto tanto modo di
riflettere sulle nostre anime e sui destini del mondo e delle nostre
rispettive esistenze.
Saremmo tentati di lasciarci invadere dai ricordi, dagli episodi, e
avremmo anche tanti sentimenti da esprimere, il Nostro specialmente,
in questo momento di ringraziamento e di gratitudine, per questa vostra
accoglienza, per questa presenza che Ci dice tante altre cose.
Ma non vogliamo cedere, durante la celebrazione dei misteri divini, a
cosa che non sia l’attenzione alla parola del Signore, che abbiamo
adesso ascoltata leggere da un altro insigne frequentatore e benefattore
di questa cappella, il nostro Don Giovanni de Menasce. E allora,
come abbiamo sempre fatto, in quei tempi e anche successivamente,
concentriamo un momento la nostra attenzione sopra la parola del
Signore: che cosa ci dice? E siamo sicuri che così facendo non solo
- è uno dei giuochi della Provvidenza - comprenderemo le parole
divine, ma comprenderemo noi stessi, poiché la parola del Vangelo,
se la meditiamo, accende una luce sopra la nostra vita, che ci fa
comprendere ciò che è Lui e ciò che siamo noi.
E Ci pare che sia così anche questa mattina, perché la parola del
Vangelo che abbiamo letto è una parola che offre spunti
caratteristici, precisamente all’ambiente che qui s’è formato e che
abbiamo coltivato.
Meriterebbe un’esegesi molto accurata e prudente; le parole
drammatiche e misteriose del Santo Vangelo ci dicono subito che si
tratta di una controversia, dell’interpretazione capziosa,
cavillosa, sofistica e falsa che alcuni di coloro che avevano visto
Gesù operare un miracolo davano a questo suo prodigio, qualificandolo
di finzione, di sortilegio diabolico, perfino di intesa con il
demonio.
E il Redentore si difende con grande calma, con grande precisione:
troviamo raramente nel Vangelo duelli dialettici di questo genere, ma
ci sono: il Signore difende la ragione del suo operato e ne dà
l’interpretazione esatta.
Vediamo qui una difesa di pensiero e di parola; vediamo come Gesù
cerca di raddrizzare l’arte del pensiero, di educare coloro che lo
ascoltano a quella elementarissima ma fondamentalissima cosa che è il
pensare bene: il «travailler à bien penser», come diceva Pascal:
lavorare e faticare a ben pensare, ecco l’insegnamento del Vangelo di
questa mattina.
Ora, che cosa è stata per noi questa cappella? È stata forse
un’accademia, un rifugio di iniziati? Ma è stata qualche cosa di
molto più importante!
È stata una scuola di pensiero; un laboratorio di idee; un banco di
prova della nostra fede: qui si veniva a professarla; qui si veniva a
confermarsi e a fortificarsi nella sua stupenda ragionevolezza e a
goderla, a viverla, a esprimerla, a darle il tributo di omaggio
cordiale che essa merita.
Tutto questo aveva certamente - e lo avrà sempre - un carattere di
sforzo, qualche volta anche una certa fatica, quasi varcando la siepe
di tanti intralci, di tutte le obiezioni, per riuscire a dare una
espressione intatta, felice e genuina al sentimento più profondo che
il Battesimo ha messo nell’anima: «Io credo!».
Ma questo è il particolare carattere militante del pensiero professato
a Sant’Ivo: ha due aspetti, due momenti, uno dei quali potremmo
dire pedagogico, perché allena a raggiungere questo livello di
pienezza e di certezza.
Infatti quante menti giovanili vegetano in una penombra, in un
crepuscolo, in una incertezza penosa: credono di essere liberi perché
sono sbandati; di essere intelligenti perché mettono tutto in
discussione; di essere aristocratici perché hanno la malattia del
dubbio che li rende svincolati da qualsiasi solidarietà con l’altrui
conversazione e con l’altrui certezza; sono debolezze dell’anima che
si erigono a sistema e che invece a Sant’Ivo non potevano e non
volevano avere cittadinanza. Qui si voleva essere sicuri, si credeva
nella verità, la si cercava e la si professava e, questo, dicevamo,
con uno sforzo che educava lo spirito a bene agire e a bene esprimersi.
E anche sotto un altro aspetto, che potremmo dire comparativo, - non
era soltanto espressione individuale e segreta dell’anima - la
preghiera e la professione di fede di Sant’Ivo erano un fatto
visibile, esterno, cioè istituivano un confronto con l’ambiente
accademico prima, e poi con quello di fuori, sociale, politico,
professionale.
Era una certezza acquisita e manifestata.
Ora, se consideriamo che il problema fondamentale della nostra vita è
proprio quello di trovare qualche idea per cui vivere, per cui
battersi, a cui consacrarsi per realizzarla, noi vediamo quale grado
di altezza e bellezza acquistava Sant’Ivo, che appunto questa vetta
raggiungeva ogni domenica, tranquillamente, senza pose esteriori, ma
con la certezza tranquilla e sovrana di chi è discepolo del Vangelo.
E anche per un altro verso Ci sembra che Sant’Ivo abbia
esercitato, e speriamo eserciterà sempre, una missione: poiché
pensare bene non era e non è soltanto un fatto unicamente individuale.
Sant’Ivo non è un romitorio, non è la famosa stufa di Descartes.
Non era solo un richiamo a concentrarsi per trovare i propri pensieri
nella chiarezza e nella distinzione, che formano la base del sistema
citato, ma era una conversazione e una comunione, uno scambio di
idee, una coincidenza di pensieri, una circolazione di armonie
spirituali, una collettività, una comunità di anime.
Cosa ci dice l’esperienza più elementare del mondo in cui viviamo?
Tante volte ci pare di essere proprio ai piedi della torre di Babele:
tutti sembrano capaci di esprimere, incapaci di ascoltare. Non c’è
un colloquio armonioso e non c’è la gioia della verità che circola e
che fa tutti uniti e felici. Qui, sì, qui c’è, qui c’era, ed
era un miracolo silenzioso e bello quello di sentirsi un Cuor solo ed
un’anima sola; di sentirsi uniti in questa misteriosa, ma così
reale, comunità di anime, quella societas spiritus (Phil. 2,
1) di cui parla San Paolo, in quella comunione delle anime che è
pegno dolcissimo della presenza di Cristo.
Un atto di fede, un atto di carità, ha tante volte dato il
presupposto migliore, la preparazione, la cornice, la confluenza
spirituale per la celebrazione della Santa Messa, che appunto è la
presenza, e non solo ricordata ma rinnovata, reale, di Cristo fra
noi.
Questo era Sant’Ivo, e vorremmo che questo tesoro fosse custodito,
e se ne facesse una segreta sorgente interiore di conforto, di luce,
di fiducia e di orientamento anche nei momenti di stanchezza e di
debolezza.
Quarant’anni sono molti. Ma quando si ricordano e si vedono
tradizioni superstiti, così felicemente vittoriose, ci si conforta a
dire che si cammina bene e si può quindi andare avanti
tranquillamente.
Gli anziani lo sanno; i giovani vorrebbero pertanto essere i
principali destinatari di questa raccomandazione. I giovani presenti
in così gran numero ci dicono che la Sapienza, è ancora piena di
gioventù. Abbiate fiducia e abbiate il buon gusto e la saggezza di
rinnovare queste esperienze così autentiche e così semplici, ma anche
così vere e così vive. Cercate davvero che in mezzo alla grande
palestra del pensiero ci sia Gesù Maestro che vi viene incontro e vi
dice soavemente e solennemente le parole della sua verità. E cercate
di ascoltarle e di rispondere, di riaffermare il vostro consenso con
quella umiltà e con quella fierezza, che rendono gioioso e pieno
l’atto di fede.
Cantatelo insieme questo atto di fede: ditelo con l’armonia dei cuori
e delle labbra, e sentirete che cosa è l’esperienza della carità,
del volersi bene, dell’essere uniti in Cristo. Così si potrà
avvertire che qualcosa si sta creando proprio nelle nostre umili
esistenze, una specie di palingenesi di cui siamo e protagonisti e
beneficiari, formando il Corpo Mistico di Cristo appunto, nella
fede e nella carità.
Abbiate fiducia in queste umili formule. che le cappelle universitarie
vi offrono, che questi cenacoli di pensiero e di preghiera vi aprono,
e troverete davvero che la vita cristiana è facile, è bella, è
piena, è vera. Ed è vostra. E così sia.
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