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Giovedì, 22 agosto 1963
«Pax huic domui et omnibus habitantibus in ea». Con questo saluto
del S. Vangelo e della Liturgia il Santo Padre inizia la sua
conversazione. La pace sia a questa Casa e a quanti vi sono
ospitati.
Nessuno contesterà l’odierna preferenza, così ragionevole e
legittima, fra le varie visite che vorrebbero essere fatte, nel
presente periodo di tempo, poiché questa dimora si distingue sulle
altre dalla sofferenza che essa accoglie, e dalle cure quivi
prodigate. Perciò il Sommo Pontefice saluta con speciale paterno
affetto l’istituzione in questa sede, tanto adeguata; e rivolge,
dapprima, il suo pensiero a chi ha il merito d’averla ideata: Don
Alberione; quindi alla Superiora delle Figlie di S. Paolo e alla
Comunità addetta alla Casa di cura: religiose, senza dubbio,
provvide, zelanti e capaci, ben preparate a fronteggiare le molte
necessità vere, urgenti, invocanti, del nostro mondo moderno.
DUPLICE OFFERTA
Altro particolare saluto Sua Santità vuol dare a coloro che, nella
Casa di cura, esercitano la carità con l’arte medica, e prestano le
loro attenzioni, unendo alla scienza la bontà. Visitando ospedali ed
ospizi, anche nel periodo della vita pastorale in Milano, è capitato
al Papa di incontrare corpi medici e sanitari molto cospicui ed
organizzati, e sempre ha provato un sentimento di piena riverenza,
stima, rispetto per quelli che appunto nella sollecitudine a vantaggio
dei fratelli esplicano la propria attività: si direbbe, anzi,
missione. Iddio conceda ogni sostegno per il cristiano ufficio di
aiutare chi soffre e di curarlo, sicuramente, con affetto, diligenza
e premura, sì da rendere il dolore, su cui il medico si curva,
sollevato e benedetto. Il Signore ricompensi con effuse grazie tale
generosità.
Ed ecco il saluto alle ospiti, alle religiose che qui vengono ad
offrire a Dio una duplice consacrazione: quella permanente, della
vita di perfezione; e quella, occasionale, della sofferenza.
Circa la prima è consolante rilevare come un apposito centro sanitario
accoglie le religiose inferme, con aperto riconoscimento della loro
qualifica. Di solito, allorché le religiose sono costrette al
ricovero in altri ambienti, si cerca di celare, o quasi di far
dimenticare la loro sublime e spirituale condizione: qui, al
contrario, essa viene onorata e tenuta in evidenza. Chi deve
soggiornare in questo edificio, trova un’accoglienza, sotto ogni
riguardo, affettuosa, perfetta. È chiaro perciò come, in modo
singolare, vi siano agevoli le due offerte: della vocazione e del
dolore. Entrambi i doni salgono dal cuore delle degenti. Eppure, a
prima vista, umanamente parlando, essi sembrerebbero in contrasto.
La vocazione, infatti, vuol significare il rendere utile la propria
vita, l’impiegarla alle opere di carità, alla preghiera, al
servizio dei fratelli, ad un’attività, insomma, intensa, feconda
di egregie iniziative. D’altro canto, la seconda offerta, quella
della sofferenza, parrebbe ostacolare la prima, richiedendo una
forzata e lunga sosta, una penosa inattività.
UTILITÀ DEL DOLORE
La sofferenza adunque, anche in una casa come questa, si rivela nel
suo temibile aspetto, sempre dal punto di vista umano, mostrando la
sua inutilità, la opposizione da essa posta ai migliori programmi di
vita; i limiti a cui astringe desideri, piani, speranze,
aspettative. È la mortificazione, è il dolore, che realmente
colpisce e vulnera una esistenza che vorrebbe espandersi, affermarsi,
esprimersi. Eppure tanta è la saggezza e così profonda la formazione
cristiana in chi è soggetto alla grande prova, da comprendere egli
appieno questa nuova consacrazione, questa eccezionale offerta, non
già inutile, bensì immensamente preziosa.
E qui veniamo - prosegue il Santo Padre - al conforto
caratteristico, recato dal linguaggio cristiano a chi soffre: quello,
cioè, di svelare che il dolore è tutt’altro che vano. C’è una
frase di S. Agostino, tra le più luminose lasciateci dal grande
genio: quando esprime commiserazione verso coloro che sono ignari di
questa sapienza del Vangelo, della sublimazione, del riscatto del
dolore: «Amisistis utilitatem calamitatis; miserrimi facti estis»:
avete perduto il senso della utilità del dolore, siete diventati i
più miserabili. Se gli uomini perdono davvero la nozione di che cosa
valgono la fatica, il dolore, le lacrime, l’angoscia e la morte
umana, subiscono grave sconfitta. Questa, in tal modo, può
presentare giustificato il pessimismo, col favorire l’onda della
disperazione che si proietta nella psicologia dall’interrogativo: a
che serve la vita se va a finire così?, a che giova, se è
avvelenata da un’insidia, non eliminabile, di patimento e di
infermità, nella dissoluzione degli aurei progetti della nostra
sognante esistenza? Si sarebbe, dunque, degli sconfitti.
IL MISTERO DELLA REDENZIONE
Non è questo, per fortuna, il cammino delle anime di Dio. Proprio
con la luce del Vangelo, la sofferenza riveste un vero e consistente
significato: un pensiero, cioè, un disegno, il coordinamento ad un
fine, per cui ogni angustia può sempre acquisire un valore: non vi
sono, quindi, energie sciupate, non lacrime disperse, non vani
sacrifici.
Il dolore! Quanto vasto orizzonte non soltanto di vita spirituale,
ascetica e mistica, si prospetta davanti all’uomo che lo valuta con il
discernimento cristiano e guarda al Crocifisso - la cui maestosa
effigie domina su questo altare - e ne medita l’insegnamento!
Quale? Proprio per le vie del dolore, del sacrificio spinto fino
alla morte, il mondo è stato salvato, riscattato, redento. È qui
il principio d’una fecondità, misteriosa finché si vuole, ma
immensa. Anzi il Signore ha posto precisamente in questo mistero, la
Redenzione: si tratta d’un mistero di superna salvezza e perciò di
sicura rinascita.
Le religiose inferme sono naturalmente portate anch’esse a un
prolungato interrogativo circa l’inutilità del soffrire. Quante
volte sopravviene il rammarico: essere a carico delle proprie
famiglie, di fastidio a tutti; essere inadatte al lavoro consueto,
per il quale si intendeva spendere ogni energia. Ebbene - questo
l’invito del Padre - ognuna si soffermi a meditare quanto la volontà
di Dio richiede, e si offra a Lui «hostiam placentem Deo».
Vario è il comportamento nel dolore. Si può soffrire con la
ribellione nel cuore. Chi non crede e non prega, soffre così, anche
se tace. Quante volte, passando lungo le corsie degli ospedali, si
sente, si vede questo silenzio terrificante! È gente che reprime
dentro di sé un senso di disperazione, di rivolta, di dubbio, senza
conforto alcuno.
C’è poi una seconda maniera di soffrire, che certamente le religiose
usano: è quella della pazienza. Ed anche il semplice discernimento
umano può arrivare a questo grado. Ci si adatta: che fare,
altrimenti? Meglio prendere le cose con calma. La filosofia stoica
ci ha fatto conoscere a quali altezze può arrivare questa
rassegnazione, come dire?, fatalistica, abbandonata al . . .
destino.
SOFFRIRE CON AMORE E PER AMORE
Ma c’è, infine, un altro modo di accettare il dolore: quello di
chi crede in Cristo e lo segue: soffrire con amore e per amore! Non
soltanto con pazienza, ma con amore.
È impresa elettissima, questa, che sempre può attuarsi, anche
quando non si ha la forza di articolare preghiere, di attendere ad
altri pii esercizi. Il cuore, finché vive, è capace di tale atto
sovrumano, riassuntivo dell’intera nostra spiritualità: amare! -
Signore, io piango, soffro, sto qui inerte, immobile; ma ti amo e
soffro per amore, per Te.
Si vede cioè - legge ben conosciuta dagli esperti in discipline
morali - che i nostri atti acquistano valore per il pensiero che li
accompagna, per gli intenti che li nobilitano. Si può, ad esempio,
dare una elemosina per togliersi d’attorno un importuno; come anche
per un gesto d’umanità e cortesia. Ma rifulge un motivo immensamente
superiore a qualsiasi altro; per amore di Cristo. Così in ogni
circostanza: e perciò le religiose inferme accrescono le buone,
sante, trasfiguranti, sublimanti intenzioni del loro soffrire, sì da
rendere ricco di meriti il tempo della loro tribolazione. Inoltre,
questo intervallo di umana inerzia può essere ancor più prezioso e
più redditizio di qualsivoglia attivismo. Le giornate della prova
sono infatti ricolme di pazienza amorosa e delle intenzioni con cui si
arricchisce la umana inoperosità: Signore, io ti offro questo
forzato riposo, questa degenza, questa mortificazione di farmi curare
da altri per . . .
Stupenda è la litania delle intenzioni, che possono essere proposte
ad anime cotanto elette, giacché, è risaputo, una intenzione non
esclude l’altra, né può esservi una graduatoria esatta.
MIRABILE GAMMA DI INTENZIONI
Posso soffrire - dirà la religiosa ammalata - per obbedire alla mia
regola, per dare buon esempio, per mortificarmi, per assimilarmi a
Cristo; e posso anche soffrire - oh mistero ineffabile della
Redenzione! - per trascendere la mia stessa spiritualità; posso
varcare i confini del mio destino personale e dire: soffro per i poveri
peccatori, per le Missioni, la Chiesa, la mia famiglia religiosa,
per tanti che mal sopportano il dolore e potrebbero invece comprendere
la nobiltà dell’ascesi cristiana.
Per di più le intenzioni possono dare campo - perché no? - a un
po’ di fantasia. Vi piace - spiega Sua Santità - pregare per le
vostre consorelle? Ma certo: fate benissimo. Per i bambini, le
anime innocenti, la buona stampa, per il Concilio? Ecco: il
Concilio e l’intero suo svolgimento raccomando in modo particolare.
Vi piace pregare per il Papa? Avrete la sua paterna, vivissima
gratitudine.
E in questo pensiero, il commiato. Il Santo Padre confida
veramente di essere ricordato dalle religiose inferme e da loro
aiutato: per il suo Ministero apostolico e per quante sollecitudini
gli gravano sulle spalle e interessano la Chiesa Cattolica, in
quest’ora grande e forse decisiva, sotto certi aspetti, dei destini
del mondo. Le religiose sofferenti, silenziose, oranti, animate
dall’amore per Iddio, possono arrecare incalcolabile vantaggio alla
Chiesa, con la santificazione dei loro giorni oscuri e dolorosi.
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