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Giovedì, 1° marzo 1973
Segue la meditazione dettata dal Santo Padre, il quale ricorda,
anzitutto, che la consuetudine di questo incontro alla vigilia della
Quaresima è nata come un’esortazione ai predicatori quaresimalisti,
ai quali si è poi aggiunto anche il gruppo dei parroci e del clero
romano per dare all’udienza una maggiore completezza. Aggiunge che il
colloquio odierno avrebbe avuto una configurazione più affettiva che
meditativa e dispositiva, dovendo rinviare ad ulteriori occasioni un
maggiore approfondimento della visione generale dell’azione pastorale
della Chiesa.
Il Papa, subito, saluta calorosamente il nuovo Vicario, Cardinale
eletto Poletti, al quale è affidato il tesoro più grande e più
prezioso del suo ministero, cioè il clero di Roma. Il travasare
nelle mani del Vicario la sua responsabilità è per il Santo Padre
motivo di sollievo e di conforto. Ma ciò non lascia vuoto il suo
cuore dall’immenso amore che lo lega ai sacerdoti romani.
Paolo VI ha, poi, parole di affettuoso ricordo per il compianto
Cardinale Dell’Acqua, nei confronti del quale egli nutre sentimenti
di infinita stima e gratitudine. Inoltre saluta il nuovo vice gerente
Monsignore Rovigatti, che fu già parroco di Roma e che perciò è
accanto agli altri membri del clero come un fratello, i vescovi
ausiliari e tutti i presenti, assicurando il suo aiuto e la sua
solidarietà per il loro ministero affinché diventi davvero di conforto
alle anime. Un particolare pensiero è per i predicatori, la cui
funzione si augura che sia tanto più feconda quanto più, purtroppo,
oggi è diminuita l’affluenza dei fedeli e la risonanza nell’opinione
pubblica.
Riallacciandosi alla meditazione esposta l’anno scorso nell’udienza
ai parroci e ai quaresimalisti di Roma, Paolo VI insiste ancora
sulla necessità per i sacerdoti di approfondire il problema della loro
identità in un momento di rielaborazione, di risveglio, di
ristrutturazione vivace se non addirittura di crisi. Chi siamo?
Perché siamo chiamati preti? Che cosa vuol dire? A che siamo
deputati? Non siamo forse superati dalla società che ci circonda? si
chiede il Papa. Credevamo di lavorare - aggiunge - su un terreno
solido, mentre ci siamo accorti che il terreno si muove, scompare, si
scioglie sotto di noi. Abbiamo talora l’impressione di lavorare a
vuoto. I sacerdoti che si sono posti con maggior chiarezza e con più
incalzante severità il problema della loro identità sono quelli che
più si sono trovati in mezzo al vuoto, al disinteresse, a un ambiente
che li considerava superati, inutili, superflui. Accade che il
sacerdote si scoraggi vedendo che i suoi tentativi di contatto con il
mondo raggiungono soltanto alcuni superstiti rappresentanti di vecchie
generazioni.
Purtroppo quest’anno, osserva il Santo Padre, dobbiamo notare un
passo in avanti, che è poi nella realtà un passo indietro nel
processo analitico che il clero fa sopra se stesso. Non solo il
sacerdote sarebbe un ministro del nulla e senza efficacia, ma si
costaterebbe che è tutto sbagliato. E questo non soltanto da parte
dei soliti irrequieti, ma anche da voci solitamente attente e
autorevoli. È necessario - dicono - ristrutturare tutta la Chiesa
perché così come è attualmente non è coordinata con il mondo che la
circonda. Il rapporto Chiesa-mondo è il problema centrale, ma -
si fa notare - questo rapporto oggi non è efficace, non è quello che
dovrebbe essere, o almeno quello che critici e studiosi si immaginano
di aver individuato. Dal dubbio sull’identità, cioè, abbiamo
fatto un passo indietro verso l’affermazione dell’inutilità,
sconfessando ancora più radicalmente la Chiesa costituita com’è,
lasciando al libero sbandamento tutti gli istinti spirituali, anche
quelli buoni. Siamo in un momento in cui è necessario riprendere la
riflessione su noi stessi per rimettere in piedi qualcosa dentro di
noi. Anche se voi non avete bisogno di così cruda meditazione -
dichiara il Papa riferendosi ai presenti - dobbiamo ugualmente
affrontarla. È questa, come suol dirsi, l’ora della verità.
Che cosa dobbiamo pensare di noi, che concetto dobbiamo avere del
prete, del pastore, dell’incarico che ci ha investito, del nostro
destino, della nostra professione, del nostro dovere, del mondo in
cui veniamo a vivere come ministri del Vangelo, coordinati a Cristo
come suoi rappresentanti, suoi ministri, come canali della sua
parola, della sua grazia, dei suoi esempi, della realizzazione del
suo Vangelo? Chiesa-mondo: contatto, compenetrazione,
assimilazione, secolarizzazione. Fin dove è arrivata questa idea di
secolarizzazione nel nostro ambiente? Si sente dire che il prete è un
uomo e deve essere un uomo come gli altri. Deve essere un uomo
completo. E si introduce nella pianificazione spirituale tutta una
serie di problemi sul modo di vivere, di concepire la nostra esistenza
che davvero sconvolge, altera e sfigura, quando addirittura non
tradisce, l’impronta che Cristo ha impresso sopra la nostra anima.
L’espressione «Tu sarai un altro Cristo» viene sbiadita e
stravolta. Se il prete è un uomo, la sua cultura deve essere quella
profana. Ed ecco l’invasione di giornali, riviste, libri,
pubblicazioni di cui si nutre la cultura media profana. Si dice che,
se il prete è un uomo, allora deve avere tutte le esperienze che ha un
uomo. E per esperienze di solito, purtroppo, si intendono quelle
negative. Si dice che se il prete non conosce queste cose resta un
ignaro, si fa un’immagine falsa, artefatta, ingenua, infantile
della vita. Bisogna che conosca. Ma che cosa? il male, le
tentazioni, le cadute, le esperienze cattive. Bisogna - si dice -
che abbia qualche cognizione diretta e vissuta della vita, altrimenti
resta un diminuito. E ciò, quasi che un uomo ferito, deformato
nella sua figura morale, nella sua intangibilità spirituale come uomo
battezzato figlio di Dio, abbia di che guadagnare ad aver subito di
queste sciabolate, di queste ferite. Nel quadro di questa
concezione, per esempio, che resta dell’abito ecclesiastico? Senza
soffermarsi a lungo su questo aspetto, comunque marginale, il Papa ha
definito come una ipocrisia l’atteggiamento del prete che si assimila
tanto al profano da non farsi più distinguere. L’assimilazione al
profano è una tesi che va diffondendosi e va secolarizzando colui che
ha l’investitura dell’Ordine Sacro e la missione di rappresentare e
di vivere Cristo in sé.
Paolo VI tiene a ribadire che il sacerdote è anzitutto ministro di
Cristo, prima ancora di essere un uomo. Se così non fosse, anche
il celibato non avrebbe più i titoli sufficienti per essere conservato
nella sua pienezza, nella sua integrità, nel suo splendore angelico e
trasfigurante che lo rende tale da essere ancora oggi rivendicato dal
clero latino. Essere ministro di Cristo è essere seguace di
Cristo. Il seguire Cristo comporta un distacco. Gli apostoli
lasciarono le reti, le loro cose, le loro occupazioni, il loro
paese, le loro famiglie. Così il sacerdote è come un derubato, uno
spogliato da Cristo stesso, il quale non ha chiesto soltanto la
rinunzia alle cose che danno una configurazione sensibile alla persona,
ma alla persona stessa. Ha detto: colui che ama la propria vita non
è degno di me. Chi cerca la propria vita la perderà.
Siamo messi di fronte a questo bivio: per seguire Cristo dobbiamo
abbandonare una quantità di cose. Dobbiamo essere spogliati, poveri
non solo economicamente, ma anche culturalmente e socialmente. Senza
questi distacchi, non siamo servi fedeli, non siamo ministri
coerenti, né capaci, perché la capacità di essere Ministri è nel
distacco. Si parla tanto di liberazione, ha fatto notare il Papa.
ma la liberazione che Cristo ci chiede consiste proprio nel lasciare a
casa tutte le cose inutili, salvo quelle che possono servire per
l’annuncio, per la celebrazione dell’Eucaristia e per il servizio di
ministero delle anime. Dobbiamo essere dei distaccati. E questo
produce effetti spiacevoli. Di fronte al mondo si può perfino
apparire ridicoli. E nessuna cosa è più intollerabile per uomini
intelligenti e sensibili. Ebbene, noi accettiamo di essere tali, di
portare vesti e di compiere gesti speciali. Il mondo demitizza quello
che per noi è il sacrificio fondamentale della nostra vita: Ti
seguirò senza voltarmi indietro. San Paolo dice di sé «segregatus
in evangelium Dei». Oggi si userebbe la parola «emarginato».
Dobbiamo aver coscienza di essere ridotti in questa condizione dalla
nostra fedeltà, dal nostro impegno, per rendere efficace, credibile
la nostra missione sacerdotale. Bisogna stare attenti a un fenomeno
che si ripete perché siamo pur sempre figli di Adamo. Accade cioè
che il ministero stesso ci porti a un recupero di ciò che abbiamo
lasciato, al desiderio di un ritorno in altre forme a ciò di cui il
Signore ci voleva spogliare. I privilegi, per esempio, legati ad
ogni tipo di autorità. Siamo portati a distinguerci, a riacquistare
indirettamente quel che avevamo perduto e soffocato. Per un certo
fenomeno di gravitazione morale, insensibile e fatale, torniamo quelli
di prima, e alcune volte diventiamo addirittura peggiori di quelli di
prima quanto all’adesione al mondo da cui volevamo essere liberati.
Il Signore invece ci dice: devi essere povero, umile, puro, un
uomo singolare, un uomo che si riconosce a vista che è un prete, un
uomo fuori dal giro degli interessi degli altri, delle amicizie, degli
affari: un isolato.
Abbiamo giurato fedeltà a questa condizione, umanamente oggi tanto
deprezzata se non disprezzata. E dobbiamo rimanere fedeli e coerenti
sulla Croce. Se non portiamo la nostra croce non siamo degni di
Cristo. Abbiamo perduto tutto, ma Cristo ci è rimasto. Abbiamo
scelto Lui, È il nostro maestro, il nostro amico, il nostro amore.
Per noi Cristo è Dio che ci viene regalato; Egli rimane il nostro
tutto. Abbiamo assolutizzato Cristo. Per noi è tutto: Deus meus
et omnia. Così risultano giustificati tutti gli altri sacrifici
subalterni.
Seguendo invece la psicologia della liberazione dal mondo - tosi dice
il Santo Padre - noi deformiamo, se addirittura non tradiamo, il
nostro impegno fondamentale. Noi siamo usciti dal mondo. Non siamo
come gli altri non perché abbiamo di più, ma perché abbiamo di
meno, non abbiamo quello che hanno gli altri. Ma siamo di Cristo.
La pienezza di questa persuasione ci rende meno gravi i sacrifici che
siamo chiamati a fare e che arrivano fino all’immolazione di noi
stessi. Ma se siamo fuori dal mondo come siamo capaci di
comprenderlo? Dovevamo essere suoi medici, maestri, assistenti, e
invece? Ecco il bel paradosso della vita ecclesiastica: essere da una
parte distaccati e dall’altra immersi nel mondo. Essere pastori,
essere amici della società che si è lasciata. Ciò sembra
inconciliabile. Eppure il sacerdozio si realizza proprio in questa
fusione della carità che ci immerge nel prossimo con l’altra carità
che ci porta in alto, distaccandosi dal mondo in Cristo. Quanto al
modo di realizzare questa situazione apparentemente paradossale, il
Papa si è limitato a una similitudine. Il sacerdote, osserva, è
come il medico, che vive in mezzo ai malati ma nello stesso tempo si
protegge dal male con le disinfezioni e altre forme di autodifesa.
Vi accorgerete - conclude il Papa - che siete tanto più idonei ad
avvicinare gli altri, a capirli, a convivere con loro, a servirli, a
consolarli, a diventare loro amici, compagni indispensabili, padri
spirituali, quanto più siete personalmente liberi e distaccati da quel
mondo che andate perseguendo per sanarlo e farlo fiorire nelle sue
virtù.
«Age quod agis» - aggiunge -. Bisogna far bene ciò che dobbiamo
fare, nel quadro del programma complesso del ministero pastorale del
tempo nostro. Bisogna far bene la catechesi, promuovere bene
l’azione cattolica, far bene il servizio liturgico, lasciare lo
spazio necessario alla meditazione: «Ci sia qualche momento di
assoluto silenzio nelle nostre giornate; troviamo sempre un angolo per
il nostro colloquio solitario con il Signore; facciamo sì che gli
altri, quando si prega, ci sentano in uno stato diverso».
Sua Santità termina la sua esposizione esprimendo al clero romano la
sua riconoscenza, assicurando ogni possibile cura per mettere i
sacerdoti in grado di svolgere adeguatamente la loro missione.
Sappiate che, indipendentemente dai risultati e dallo stile della
vostra azione pastorale, vi segue una grande affezione e venerazione,
una comunione di anime, di preghiere, di speranze e di benedizioni.
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