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II Domenica di Quaresima, 14 marzo 1965
La sosta d’obbligo durante la Santa Messa per ascoltare la
spiegazione della parola di Dio ci invita a meditare il brano del
Vangelo di San Matteo, ora letto: quello sulla Trasfigurazione del
Signore. . .
Figli del nostro tempo, con i suoi ausilii di progresso visivo e
tecnico, possiamo quasi ricostruire, davanti a noi, l’impressionante
scena. Il Vangelo è sobrio; ma, soffermandoci sulle circostanze,
notiamo subito che si tratta di un avvenimento pieno di interesse e di
stupore.
San Marco, il quale, come- San Matteo, ci narra la
Trasfigurazione, precisa che essa avvenne a soli sei giorni dopo la
professione di fede compiuta da Pietro, quando, nella regione di
Cesarea di Filippo, alla richiesta del Divino Maestro di
manifestare che pensassero di Lui gli Apostoli, rispose, come
folgorato da improvvisa illuminazione: Tu sei il Cristo, il Figlio
di Dio vivo!
Ed ora Gesù chiama in disparte i tre Discepoli preferiti: Pietro,
Giacomo e Giovanni, e con loro sale su di un alto monte. Qualche
esegeta pensa che si tratti del monte Hermon, ma la tradizione più
diffusa indica il monte Tabor, ove esiste una grande basilica, e dove
il Santo Padre si è recato con viva emozione, a lungo contemplando
il sacro Luogo e il paesaggio, in una stupenda sera invernale dello
scorso anno.
Andarono, dunque, per rimanere soli e pregare. Giunti sulla vetta,
gli Apostoli, stanchi, si distesero sull’erba. Probabilmente -
benché qualcuno lo contesti - era sopravvenuta la notte, e i
discepoli presero sonno. Gesù pregava - ciò Egli soleva fare
durante le ore di riposo e a lungo - sempre dimostrando di quale
personale vita interiore vibrasse il suo Divin Cuore.
Ad un certo momento i tre si svegliano; levano gli occhi e vedono
Gesù straordinariamente luminoso come se un fuoco di portento si fosse
acceso nella sua Persona; e qui l’Evangelista ha due pennellate
mirabili. Il volto di Gesù - scrive - diventa splendente come
sole, dai fulgori diretti; e le vesti appaiono candide siccome neve;
e San Marco tiene a spiegare: nessuno sulla terra saprà mai renderle
così bianche.
Lo sguardo dei veggenti si fissa attonito, estatico. Gesù così
trasfigurato domina sul monte; ed ecco che ai suoi lati si delineano
due figure che intraprendono con il Maestro una misteriosa
conversazione. Si tratta - i discepoli non esitano a riconoscerli per
segni esterni o parole ascoltate - di Mosè e di Elia.
Per gli ebrei dire Mosè era come accennare a tutta la propria
storia, al popolo eletto, alla Legge; scorgere Elia era come
ripercorrere tristissimi anni, durante i quali il grande Profeta aveva
cercato di rianimare il senso religioso e la tradizione in chi si era
lasciato influire dalle dottrine pagane e aveva perduto la nota
dominante del proprio costume.
Mosè ed Elia: l’Antico Testamento che converge intorno a Gesù,
il Salvatore del mondo!
Pietro - come in altre circostanze il più entusiasta ed esuberante
(San Marco lo sottolinea) - prorompe in un grido: Come è bello
rimanere qui, per sempre! E, tutto preso dalla ebbrezza
abbagliante, aggiunge: Se vuoi, o Signore, facciamo qua tre
capanne: una per Te, una per Mosè, l’altra per Elia: per
rimanervi in permanente beatitudine.
Ed ecco che l’intero panorama è avvolto da una nube, pur essa
candida. Non è nebbia opaca, ma nimbo di gloria che accresce e pone
in risalto la visione. Si avverte una presenza ancora più
impressionante: infatti una voce profonda, in cui palpita tutto il
Cielo, esclama: Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo.
I Discepoli, a sentire che l’intero creato esalta quella voce
tonante e dolce insieme, si prostrano per terra ed ascendono la faccia
senza osare più nemmeno soffermare gli occhi sulla visione. Ad un
tratto si sentono toccare: è Gesù, solo, tornato al suo consueto
aspetto di sempre. Forse stava albeggiando. La voce del Maestro
ordina: Scendiamo, ormai: e nulla direte di quanto avete visto,
fino al giorno in cui il Figlio dell’Uomo - l’espressione usata da
Gesù per indicare Se stesso - non sarà risuscitato dai morti.
Parole allora incomprensibili per i tre Discepoli: i quali, però,
giammai avrebbero dimenticato quel prodigio. San Pietro, molto più
tardi, forse trent’anni dopo, lo rievoca quale uno «degli spettacoli
della grandezza di Lui», in quella sua seconda Lettera, che sembra
proprio scritta da Roma. Ed aggiunge: «Egli (Gesù) infatti
ricevette onore e gloria da Dio Padre, essendo discesa a Lui dalla
maestosa gloria quella voce: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel
quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo. E questa voce procedente dal
Cielo noi la udimmo, mentre eravamo con Lui sul monte santo».
La testimonianza per Gesù in questo racconto rimane quasi un
testamento e un saluto dell’Apostolo dalla comunità romana.
Ci domandiamo: perché la Chiesa ripropone, oggi, in questa seconda
Domenica di Quaresima, un quadro così sfavillante della gloria del
Signore? Occorre spiegare in che modo quell’evento si innesta nella
storia evangelica.
Gesù intende dare un saggio di ciò che Egli è; vuole impressionare
i suoi Discepoli perché poco prima ha parlato della sua Passione e ne
riparlerà anche in seguito. Sono gli ultimi giorni della sua missione
in Galilea. Gesù sta per trasferirsi nella Giudea, ove accadrà il
grande dramma della fine del Vangelo, della vita temporale del
Signore. Gesù sarà crocifisso. E perché i Discepoli, questi
tre specialmente, non siano scandalizzati, stupiti, anzi esterrefatti
dalla fine tristissima del Maestro, ma conservino la fede, Gesù
decide di imprimere nelle loro anime la meraviglia testé rievocata.
Ora la Chiesa la ripresenta anche a noi, nel corso della Quaresima,
come per dire: Vedrete il Redentore crocifisso, avrete indicibile
sgomento per il suo Sangue sparso, per la sua sofferenza, nel
contemplarlo come schiacciato dai suoi nemici; e affinché non vi
scandalizziate, e non abbiate a tradirlo o lasciarlo, in quell’ora
grande ed amara, considerate, ora, chi Egli è e quanto può.
In altri termini: questa scena del Vangelo pone dinanzi a noi, .-
che la rievochiamo dopo tanti anni, qui, oggi, celebrando la Santa
Messa -, una questione di grandissima attualità, si direbbe fatta
sulla misura delle nostre condizioni spirituali. La domanda è la
medesima rivolta da Gesù, sei giorni prima dell’evento sul Tabor,
agli Apostoli: Chi dite che sia il Figlio dell’Uomo?
La stessa richiesta io ripeto a voi. Ecco che il Vangelo diventa
incalzante e urgente sulle nostre anime... Voi, Romani di oggi, e
figli di questa parrocchia, chi dite che sia Gesù? Chi è Gesù in
se stesso? La mente corre al Catechismo. Sì, ricordo che Gesù
è il Figlio di Dio fatto Uomo. Ma sappiamo noi bene che cosa ciò
vuol significare?
E inoltre: se Gesù è Dio fatto Uomo, la meraviglia delle
meraviglie, chi Egli è per me ? che rapporto c’è tra me e Lui?
devo occuparmi di Lui? Lo incontro nel cammino della mia vita? è
legato al mio destino?
Non basta.
Se io domandassi appunto agli uomini del tempo nostro: chi. ritenete
che sia Cristo Gesù? come lo pensate? ditemi: chi è il Signore?
chi è questo Gesù che noi andiamo predicando da tanti secoli e che
riteniamo sia ancor più necessario della nostra stessa vita
l’annunciarlo alle anime? Chi è Gesù?
Alla domanda alcuni, molti, non rispondono, non sanno che dire.
Esiste come una nube - e questa sì è opaca e pesante - di ignoranza
che preme su tanti intelletti. Si ha una cognizione vaga del Cristo,
non lo si conosce bene; si cerca, anzi, di respingerlo. Al punto
che all’offerta del Signore di voler essere, per tutti, guida e
maestro, si risponde di non averne bisogno, e si preferisce tenerlo
lontano.
Quante volte gli uomini respingono Gesù e non lo vogliono sui loro
passi, perché o non lo conoscono o, al massimo, lo temono più che
identificarlo ed amarlo. Non vogliono che il Signore regni su di
loro; cercano in ogni modo di allontanarlo. C’è persino chi urla
contro Cristo: Via! - è il grido blasfemo -, alla Croce! Lo
vogliono come annullare e togliere dalla faccia della civiltà moderna;
non c’è posto per Iddio, né per la religione: si affannano a
cancellare il suo nome e la sua presenza. Tale il contenuto di tutto
questo laicismo sfrenato che, talvolta, incalza sino alle porte delle
nostre chiese e che in tanti Paesi, ancor oggi, infierisce. Non si
vuole più nemmeno l’immagine di Cristo.
Ma il tristo fenomeno è degli altri. Noi che siamo qui ed abbiamo
questo grandissimo e dolcissimo Nome da ripetere a noi stessi; noi che
siamo fedeli, noi che crediamo in Cristo: noi sappiamo bene chi è?
Sapremo dirgli una parola diretta ed esatta; chiamarlo veramente per
nome; chiamarlo Maestro, Pastore; invocarlo quale luce dell’anima
e ripetergli: Tu sei il Salvatore? Sentire, cioè che Egli è
necessario, e noi non possiamo fare a meno di Lui; è la nostra
fortuna, la nostra gioia e felicità, promessa e speranza; la nostra
via, verità e vita? Riusciremo a dirlo, e bene, e completamente?
Ecco il senso del Vangelo di oggi. Bisogna che gli occhi della
nostra anima siano rischiarati, abbagliati da tanta luce e che la
nostra anima prorompa nella esclamazione di Pietro: Come è bello
stare davanti a Te, o Signore, e conoscerti!
Gesù ha due aspetti: quello ordinario, che il Vangelo presenta e la
gente del tempo vedeva: un uomo vero. Ma, pur a guardarlo in questo
aspetto umano, c’è qualche cosa, in Lui, di singolare, unico,
caratteristico, dolce, misterioso, al punto che - come riferisce il
Vangelo - coloro che hanno visto Gesù hanno dovuto confessare:
nessuno è come Lui; nessuno si è espresso mai alla sua maniera. E
cioè, anche naturalmente parlando - ed è la testimonianza data da
coloro stessi che hanno studiato Gesù cercando di negare ciò che
Egli è: il Figlio di Dio fatto Uomo - tutti devono ammettere: è
unico, non c’è alcuno, nella storia di questa nostra umanità, che
possa veramente paragonarsi a Lui per candore, purità, sapienza,
carità, grandezza d’animo, eroismo; per capacità di arrivare ai
cuori, per potenza sulle cose.
Ora quanto io vedo con gli occhi, mi dà la definizione completa del
Signore? I tre Apostoli sono rimasti a fissare la visione: ed hanno
notato la trasparenza: nella persona di Gesù c’è un’altra vita,
c’è - ricordiamolo col Catechismo - un’altra natura: oltre quella
umana, la natura divina.
Gesù è un tabernacolo in moto: è l’Uomo che porta dentro di Sé
l’ampiezza del Cielo; è il Figlio di Dio fatto Uomo; è il
miracolo che passa sui sentieri della nostra terra. Gesù è davvero
l’Unico, il Buono, il Santo. Se lo avessimo ad incontrare anche
nei; se fossimo così privilegiati come Pietro, Giacomo e
Giovanni!
Orbene, questa fortuna figliuoli miei, l’avremo. Non sarà
sensibile come nella Trasfigurazione luminosa, che ha colpito la vista
e la mente degli Apostoli; ma la sua realtà sarà largita anche a
noi, oggi. Occorre saper trasfigurare, mercé lo sguardo della
fede, i segni con cui il Signore si presenta a noi; non per
alimentare la nostra fantasia profilandoci un mito, un fantasma,
l’immaginazione. No: ma per contemplare la realtà, il mistero,
ciò che veramente è.
Io sono venuto qui proprio oggi, beato di poter parlare di Gesù,
del quale indegnissimamente sono, su questa terra, il Vicario. Io
vi dico, con la parola di Pietro, che Gesù è il Figlio di Dio
fatto Uomo. Pensate a questo: lasciate che tali parole si
scolpiscano nelle vostre anime. Credete alla realtà ch’esse
intendono trasfondere in voi. E sappiate che non si tratta d’un suono
che passa e si spegne; non di cosa esteriore, che poco interessa.
Senta ognuno e ripeta: è la mia vita, è il mio destino, è la mia
definizione, giacché anch’io sono cristiano, anch’io sono figlio di
Dio. La Rivelazione di Gesù svela a me stesso ciò che io sono.
È qui l’inizio della beatitudine, il destino soprannaturale, già
ora inaugurato e attivo nel nostro essere.
Figliuoli miei - il discorso si farebbe diffuso e sempre più
attraente -, accrescete nei vostri cuori la fede in Gesù Cristo;
sappiate chi veramente Egli è; e pensate che il suo volto splendente
e il sole per le vostre anime. Dovete sempre sentirvi illuminati da
Lui, luce del mondo, nostra salvezza.
E adesso diciamo insieme, come la Chiesa ci invita a fare,
proseguendo il sacro Rito: Signore, io credo.
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