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Mercoledì delle Ceneri, 28 febbraio 1968
Lo svolgimento della cerimonia suole esser concluso - rileva il Santo
Padre - con un pensiero, un atto di riflessione. Noi inauguriamo
questa sera un periodo di penitenza: e tutto lascia ritenere che quanti
qui sono convenuti abbiano il desiderio di fare bene e sul serio,
entrando realmente nello spirito di questi riti, del sacro tempo
quaresimale; di cogliere i grandi insegnamenti che la Chiesa ci dà;
e partecipare, per quanto è possibile, ai Misteri che vengono
ricordati e riofferti alle anime.
PRIMARIO E INSOPPRIMIBILE DOVERE
Nuovamente, come già l’anno scorso, ci si presenta il tema
fondamentale: la penitenza. Essa - conferma il Papa. - è
necessaria. Ce lo ha detto Nostro Signore: «Si poenitentiam non
egeritis, omnes simul peribitis»: Se non farete penitenza, tutti
perirete. Parole - categoriche, esigenti, di singolare gravità.
Il Signore Gesù ci chiede la penitenza; l’invito è ripetuto dalla
Chiesa. Di recente essa ha rinnovato, con la Costituzione
Apostolica «Paenitemini», la disciplina sull’alto argomento e pur
alleviando alcune prescrizioni, ha avuto cura di lasciare intatto lo
spirito e valida sempre la necessità di opere penitenziali. Ciò è
indispensabile; è legge della vita cristiana.
Occorrerà, quindi, adattare il nostro spirito a tale disciplina; ma
non potremo esimerci dal confessare a noi stessi, per dovere di
sincerità, che quella legge e regola non ci trova ben disposti e
simpatizzanti. Ciò sia perché la penitenza è di natura sua
molesta, costituendo un castigo: un qualche cosa che piega la nostra
fronte, il nostro animo e tormenta un po’ anche le nostre forze; sia
perché, - mentre ad alcuni manca la possibilità fisica e per questi
la Chiesa è larga della sua liberalità - fa in genere difetto la
persuasione, la stessa logica. Si succedono anzi in noi gli
interrogativi: Perché si deve far penitenza ? Per qual motivo
dobbiamo rendere amara e triste la vita quando è così piena di malanni
e difficoltà? Perché, dunque ci dovremmo infliggere volontariamente
qualche sofferenza, aggiungendola alle molte già esistenti?
Piuttosto, se guardiamo proprio l’onda dello spirito moderno,
noteremo la ricerca del benessere, degli agi; la cura di eliminare
ogni inconveniente, ogni malattia, ogni ostacolo. Si è come
dominati dall’aspirazione verso una prosperità che finisce per
introdursi anche nella nostra vita spirituale, religiosa. Magari
inconsapevolmente, si assorbe un naturalismo, una simpatia con la vita
materiale, al punto che il fare penitenza appare incomprensibile oltre
che molesto.
Tutto ciò ci sospinge ad una breve analisi; a chiederci, infatti,
quale è il fondamento della grande esigenza ricordataci dalla Chiesa:
in una parola, che cosa è la penitenza.
IL SENSO E LA COSCIENZA DEL PECCATO
I religiosi Domenicani penseranno subito alla sintetica frase del loro
grande S. Tommaso: «Dolor voluntatis»: un dolore della
volontà. Per far penitenza bisogna entrare in questa forma di vita
spirituale, d’un dolore nella volontà, e quindi libero ed
accettato, quasi imposto da chi compie l’atto di penitenza.
Ciò suppone un male, di cui oggi abbiamo minore coscienza, da
deplorare, da rimuovere espiando e riparando. Come si chiama questo
atto riflesso della nostra psicologia che avverte tale necessità
dolorosa? Si chiama il concetto, il «senso del peccato». È
l’avvertire la propria coscienza non tranquilla; l’ansia di rimediare
a qualche cosa che dà un profondo disagio all’anima. Ora, questo
senso d l e peccato è venuto quasi meno, anche in non poche coscienze
cristiane. La sensibilità, in esse, si è attenuata e quasi
rassegnata a subire come un’abitudine quanto una volta era
intollerabile: il sapersi in peccato: una tristezza che occorreva
sollecitamente rimuovere.
Adesso è diverso, Papa Pio XII, di v. m., ebbe a scrivere,
nel Messaggio al Congresso Catechistico degli Stati Uniti
d’America, il 26 ottobre 1946, una frase che divenne celebre:
«Il peggiore peccato dell’età moderna è quello di aver perduto la
coscienza del peccato». Si ignorano, dunque, l’importanza e la
gravità di così deleterio male; esso non fa impressione; quando
addirittura non si sente dire, intorno a noi, che la morale può
essere senza peccato.
Questo è, anzi, il titolo di un libro «Moralità senza peccato»
del dott. Hesnard, che ha fatto molto parlare di sé in questi più
recenti anni. E c’è di peggio. Si arriva ad espressioni
addirittura enormi, secondo cui il peccato viene giustificato come un
atto di forza e di liberazione da qualsiasi vincolo e prescrizione.
Occorre - si dice - affrancarsi dagli scrupoli e dai timori, e
diventare liberi. In una parola, il disagio, una volta sentito per
la mancanza che il peccato comporta, oggi viene respinto.
Noi, al contrario, docili, come siamo, alla scuola della Chiesa,
ci domanderemo ulteriormente che cosa il peccato significa e comporta,
che cosa esso pone nella nostra anima per farla soffrire e indurla alla
penitenza.
Il peccato è una nozione prettamente cristiana. Chi ha ricevuto il
Cristianesimo, la Rivelazione di Dio, possiede la coscienza esatta
del peccato. Altrove possono esservi idee approssimative, ma sempre
vaghe e incerte: da noi tutto è preciso. Noi non possiamo
.ammettere la teoria che nega la libertà (determinismo), né quella
che nega la responsabilità (esistenzialismo). Il peccato implica
due elementi veramente religiosi: il primo è quello del rapporto fra
noi e Dio: e non soltanto il Dio della legge, il Dio potente ed
esigente, il Dio della giustizia, che agli atti umani fa
corrispondere una sanzione inesorabile e infallibile, ma il Dio
dell’amore, della bontà; il Dio che per cancellare i nostri peccati
è venuto fra noi ed ha preso sopra di Sé il peso delle nostre colpe e
le ha espiate con la sua Morte. L’intera Quaresima è orientata
verso la Croce: poco fa abbiamo ricevuto la benedizione con il Sacro
Legno. Ciò indica appunto quale è l’atteggiamento benigno di Dio
verso i nostri peccati. Egli non li può ignorare; non sarebbe più
Dio se fosse indifferente, assente. Ma, ripetiamo, è il Dio
della bontà, dell’amore infinito sino ad immolarsi sul patibolo della
Croce per cancellare i nostri peccati. Adunque occorre ripristinare
nelle nostre anime il senso del peccato: e cioè la coscienza sensibile
di questo nostro rapporto con Dio.
L’altra nozione che il peccato comporta è di grandezza
straordinaria. Esso dice come sia un dramma la colpa umana, poiché
è nel giuoco della libertà. Il peccato è un abuso della nostra
libertà responsabile. È una sfida a Dio; la trasgressione della sua
legge; l’indifferenza al suo amore: è, quindi, un ritorcersi del
male sopra noi stessi. Il male nostro vero è il peccato da noi
commesso.
RIPUDIARE IL MALE È NECESSITÀ ASSOLUTA
Orbene, tutta la grande lezione che passa dalla teologia alla morale,
alla psicologia ecc. dovrebbe essere ripetuta in qualche maniera
durante la Quaresima. Siamo tenuti a rinvigorire in noi questo senso
della vera coscienza cristiana, che ci accusa di essere colpevoli; e
non ci dà pace finché non abbiamo trovato rimedio alla nostra
fallibilità.
Ecco, allora, che la penitenza diventa non soltanto un rimedio, ma
un bisogno. Dobbiamo fare penitenza per denunciare a noi stessi, al
Cielo, alla terra, che siamo gente miserabile. Ci incombe
l’obbligo d’implorare pietà e dimostrare con qualche nostro atto che
ripudiamo -il male compiuto e il male che siamo capaci di fare.
Rientriamo, in tal modo, nell’ordine della penitenza. Molto vi
sarebbe ancora da dire a questo proposito. Il Santo Padre accenna
soltanto ad una conclusione.
Egli vede intorno a Sé numerosi sacerdoti, ministri, perciò, del
Sacramento della Penitenza. Egli desidera esortarli a prendere
molto, molto sul serio tale ministero: cercando di ridonare a tale
atto la semplicità, la gravità, nonché la profondità che esso
esige. L’eccelso potere largito ai sacerdoti di Cristo di cancellare
i peccati altrui: «Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; et
quorum retinueritis, retenta sunt»; questa potenza del Sacramento
non solo nell’ambito umano, ma pure nell’ambito celeste, ci dovrebbe
rendere ministri trepidanti eppur tanto premurosi di distribuirlo bene,
consapevoli della stupenda economia che il Sacramento della Penitenza
porta con sé.
IL «TEMPUS ACCEPTABILE» IL «DIES
SALUTIS»
Ricordato l’alto dovere ai ministri, un invito paterno ai penitenti,
cioè a tutti noi che usiamo di questa fonte di bontà e misericordia
del Signore. Procuriamo, in questa Quaresima, - così l’appello
del Papa - di accostarci con coscienza buona e nuova alla
Confessione; di riesaminare le forme con cui la facciamo: non per
rendere scrupolosa o sottile l’accusa e l’analisi psicologica delle
nostre colpe, ma per avvertire la grandezza dell’uomo che si
inginocchia davanti a Dio, riconosce il dramma della sua salvezza
compromessa dal peccato, e si sente riabilitato dalla clemenza del
Signore, offertaci nel Sacramento della Penitenza. Usiamo di
questo dono con comprensione e compunzione. Così la misericordia di
Dio da noi invocata, e che passa come ventata benefica sul nostro capo
e sulle nostre sorti, sarà, anche quest’anno, propizia per dirimere
le nostre angustie; e farà sorgere in noi il gaudio d’aver celebrato
degnamente, con i migliori propositi e i più generosi intenti, il
periodo della santa Quaresima.
E così sia.
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