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Domenica, 7 marzo 1976
Il nostro spirito , attento all’annuncio evangelico di San Marco
(Marc. 1, 12-15), proposto dall’odierna liturgia in questa
prima domenica di quaresima alla nostra meditazione, ha davanti a sé
due quadri di grande interesse : il primo quadro è quello arido,
disabitato e desolato del deserto, forse quello della montagna vicina
al Mar Morto, pietrosa e sabbiosa, dove la squallida solitudine
mette chi vi si avventura quasi ad obbligato contatto interiore con se
stesso, mentre lo espone a qualche infido incontro con le bestie
selvatiche del luogo, bruciato dal sole spietato, e spazzato da
raffiche di vento inclemente. Colà Gesù, spinto dallo Spirito,
dopo il battesimo penitenziale, ch’egli pure volle avere dal
Precursore Giovanni, si ritrasse e rimase quaranta giorni, in
sovrumano digiuno, come Mosè (Ex. 34, 28; cfr. 3 Reg.
19, 8); poi alla fine, stremato dal languore e dalla fame,
sostenne la triplice lotta misteriosa col diavolo, Satana lo chiamano
gli Evangelisti Matteo e Marco (Matth. 4, 10; Marc. 1,
13), e fu alla fine servito dagli angeli. Quadro difficile ad un
letterale commento, ma assai appropriato come introduzione tipica alla
missione messianica che Gesù stava per incominciare (Cfr. F.
DOSTOJEVSKI, I fratelli Karamazov).
Poi S. Marco subito ci apre allo sguardo un altro quadro,
successivo all’arresto di Giovanni, che scompare dalla scena del
Giordano. Gesù risale in Galilea, e qui comincia la sua
predicazione, quella ch’è detta del «Vangelo del regno di Dio»
(Marc. 1, 14) e che si apre con un annuncio fatidico: «Il
tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi, e
credete al Vangelo» (Ibid. 14-15). Noi tutti, fedeli alla
scuola della liturgia, avremo davanti ai nostri animi questo duplice
quadro, come fosse oggi lo scenario di sfondo che offre un ambiente
ideale ed in un certo senso la luce per un altro personaggio, che,
quasi movendo da quello sfondo evangelico, venga verso di noi, e a
cento anni dalla sua propria nascita storica, a noi si presenti, a
molti di noi che lo abbiamo personalmente conosciuto, e rispecchiando
in sé la solitudine di Cristo eremita nel deserto, e quindi il
ministero di Cristo evangelizzatore, ci tenda ancora ieraticamente e
paternamente le sue dolci mani, in segno di benevolenza e di
benedizione: Papa Pio XII. Dietro a lui campeggia il Cristo
segreto del deserto, grandeggia il Cristo profetico del Vangelo.
Non è nostra intenzione tracciare ora la sua storia, il suo
panegirico; ma solo ci basta qui rievocare la sua memoria, nella forma
laconica ma possibilmente comprensiva, come una di quelle dei Papi nel
famoso «Liber Pontificalis».
Dobbiamo fissare la data di nascita: essa avvenne il 2 marzo
1876; egli era il terzogenito di Filippo Pacelli nobile patrizio
di Acquapendente, la cui famiglia si era trasferita a Roma, e che
ebbe rinomanza per la sua intemerata professione giuridica e per i
pubblici uffici a cui fu chiamato nel servizio della Città, non certo
allora fiorente di temporale prosperità, ma sempre al vertice degli
avvenimenti storici, che commossero l’Europa e agitarono l’Italia,
ormai avviata alla difficile ed ambita meta della sua unità nazionale.
Il nome scelto fu Eugenio, con quelli aggiunti di Maria,
Giuseppe, Giovanni; e il battesimo gli fu conferito nella chiesa dei
Santi Celso e Giuliano. La tazza del battistero è ora conservata a
S. Pancrazio, nella Chiesa dei Carmelitani Scalzi, sul
Gianicolo. Sia degna memoria alla venerata madre di Eugenio, la
quale fu Virginia Graziosi, ricordata da tanto figlio con sempre
commossa affezione.
Nel centro nobile e popolare della Roma storica, in Via Monte
Giordano 34, era l’abitazione della Famiglia Pacelli; e qui la
ovvia, ma ormai singolare circostanza è da notare: Pio XII fu
Papa Romano, non solo per l’apostolico ufficio a lui conferito, ma
per nascita, come da tempo non avveniva (bisogna risalire a Papa
Innocenzo XIII, Michelangelo dei Conti [1721-1724],
per ricordare un fatto analogo). Per nascita, per tradizione, per
cuore, quasi a testimoniare come quest’Urbe dalle mille vite una ne
abbia sua propria di sangue e di storia, e sempre feconda e fedele alla
sua unica e secolare vocazione spirituale: «presiedere nella carità»
(S. IGNATII ANTIOCHENI Ad Romanos,
«Prologus»). Dio voglia!
Eugenio Pacelli frequentò la scuola classica del Visconti,
installata nel vetusto Collegio Romano, di cui egli conservò sempre
fedelissima e affezionata memoria. Poi il Capranica, la
Gregoriana, il Sant’Apollinare, e poi la Messa, la prima volta
celebrata a S. Maria Maggiore, poi l’assunzione alla
Congregazione per gli Affari Ecclesiastici straordinari, auspice
Monsignor Cavagnis, e quindi il grande Monsignor Gasparri, sotto
la cui direzione il giovane Pacelli per quattordici anni, lavorò,
con la diligenza e l’intelligenza che gli erano abituali, a quella
compilazione di sommo valore che è il «Codex Iuris Canonici»,
ora, dopo il Concilio, in via di revisione, ma sintesi monumentale e
sapiente dell’immensa letteratura del diritto della Chiesa.
Eugenio Pacelli, legislatore nella Chiesa, ci obbliga a ricordare
l’opera sua per la legislazione fuori della Chiesa, cioè
relativamente ai contatti della Chiesa con gli Stati moderni, opera
che con delicatissimo studio, in gran parte personale, riuscì a
fissare rapporti normali e leali, in ben tre Concordati, con la
Germania; Concordati, che nemmeno la guerra e i mutamenti che la
seguirono valsero a sovvertire, sì bene a confermare come strutture
pacifiche e corroboranti per gli interessi spirituali e civili delle
alte Parti contraenti, e con loro mutua soddisfazione tuttora
sostanzialmente vigenti dimostrano la loro benefica efficacia.
Poi Pacelli a Roma, come Segretario di Stato negli ultimi nove
anni del Pontificato di Pio XI, che ebbe per lui grandissima stima
e da lui fedelissimo servizio. Sarebbe una pagina di storia
psicologica di grande interesse, se questa potesse adeguatamente
descrivere e decifrare le caratteristiche peculiari molto, molto
diverse di queste due grandi personalità, che solo la pratica più
compenetrata e cosciente delle virtù ecclesiastiche valse a fondere in
costante, complementare ed esemplare armonia.
Noi avemmo allora la inestimabile fortuna di prestare, come Sostituto
della Segreteria di Stato, i nostri modestissimi, ma quasi
quotidiani servizi ai due grandi e virtuosi Pontefici. Noi possiamo
essere ammirati testimoni, per quanto specialmente riguarda i lunghi
quindici anni della nostra umile conversazione con Papa Pio XII,
quale fosse la sua bontà, la sua cultura, la sua assiduità di
lavoro, la sua compassione per i dolori altrui, la sua anima pastorale
ed apostolica.
È per noi impossibile dire tutto, anche in sintesi. Due punti
sembrano tuttavia meritare da noi, anche in questa occasione,
particolare menzione. Il primo punto riguarda la sua attitudine di
fronte alla seconda guerra mondiale. Tanto si disse su di lui a questo
riguardo e non sempre in conformità al vero, falsamente sofisticando
sulla signorile timidità del suo carattere, ovvero sulla parzialità
delle sue simpatie su questo o su quel Popolo. Non così dev’essere
giudicato questo magnanimo Pontefice, finissimo, sì, nella sua
umana e cristiana sensibilità, ma sempre saggio e diritto. Noi
possiamo senz’altro aggiungere ch’egli sempre fu forte e fu equo,
perfetto dominatore dei suoi sentimenti e intrepido assertore della
giustizia, tutto teso nel sacrificio di sé, nel soccorso alle umane
sofferenze, nel coraggioso servizio della pace.
L’altro punto riguarda la sua religiosità. Noi ne dicemmo una
parola in altra occasione, a Milano, la quale noi ora riaffermiamo,
ripetendo qui le parole che il «Liber Pontificalis», riserva
all’elogio di Papa Eugenio I e che sembrano scritte per questo suo
successore, Eugenio Pacelli:
Eugenius, natione romanus, / clericus ab incunabulis . . . /
Fuit . . . benignus, mitis, mansuetus, omnibus / affabilis et
sanctitate praeclarior (Cfr. DUCHESNE,, Liber
Pontificalis, 1, 341 ss., a. 654-657).
Trema la nostra voce, batte il nostro cuore, rivolgendo alla venerata
e paterna memoria di Eugenio Pacelli, Papa Pio XII,
l’affettuoso encomio d’un umile figlio, il devoto omaggio d’un
povero successore.
Ricordatelo voi, Romani, questo vostro insigne ed eletto
Pontefice; lo ricordi la Chiesa; lo ricordi il mondo, lo ricordi la
storia. Egli è ben degno della nostra pia, grata, ed ammirata
memoria.
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