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Giovedì Santo, 7 aprile 1966
Fratelli e Figli!
Signori ed Amici!
Perché siamo noi questa sera di Giovedì Santo riuniti in questa
Basilica? La Nostra domanda non si riferisce ora al grande rito
religioso, che stiamo celebrando, ma risale più indietro; cerca la
ragione che ha dato origine in passato, e che adesso giustifica l’atto
misterioso e solenne, che stiamo compiendo. Da che cosa deriva la
nostra sinassi, cioè la nostra riunione ecclesiale, e quale ne è il
motivo primitivo ed essenziale?
«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME»
Nessuno si stupisca per questa Nostra domanda, così semplice e di
così facile risposta: nulla è più importante e nulla più fecondo di
luce e di gaudio, che la rievocazione della causa iniziale della nostra
celebrazione. Noi siamo qui, in questa fausta e pia ricorrenza del
Giovedì Santo, per virtù d’una parola, due volte ripetuta dal
Signore (cfr. 1 Cor. 11, 24-25), nell’ultima Cena,
dopo che altre parole di preciso e immenso significato, quelle
istitutive del sacrificio eucaristico, erano state pronunciate; e la
parola che ora direttamente ci riguarda è questa: «Fate questo in
memoria di Me» (Luc. 22, 19). Noi siamo riuniti questa sera
per causa ed in ossequio di questa parola di Gesù Cristo; noi stiamo
obbedendo ad un suo ordine, noi stiamo eseguendo una sua ultima
volontà, noi stiamo rievocando, com’Egli ha voluto, la sua
memoria.
È una cerimonia commemorativa la nostra. Noi vogliamo occupare il
nostro spirito col ricordo di Lui, del nostro Fratello divino, del
nostro sommo Maestro, del nostro unico Salvatore. La figura di Lui
- oh, ne potessimo, noi così curiosi oggi delle immagini visive,
averne le vere sembianze! - deve esserci davanti agli occhi
dell’anima nelle forme che ci sono più care ed espressive, più umane
e più ieratiche, Lui mite ed umile, Lui forte e grave, Lui,
nostro Signore e nostro Dio (cfr. Io. 20, 28); dobbiamo in
un certo senso, vederlo, sentirlo, ma soprattutto saperlo presente.
La parola di Lui, il suo Vangelo, deve, come per incanto, salire
dalla nostra subcoscienza, e risuonare tutta insieme al nostro
spirito, come la ascoltassimo, come la potessimo in un atto solo tutta
ricordare e comprendere: non è Lui la Parola di Dio fatto uomo, e
perciò fatta nostra? E tutto l’alone immenso della profezia e della
teologia, che lo circonda e lo definisce, e che a noi tanto lo
avvicina e quasi di Lui c’investe e ci inebria, ed insieme ci umilia
e ci abbaglia, noi lo dobbiamo contemplare questa sera, come quando ci
lasciamo incantare dalla maestosa icone di Cristo sovrano, dominante
dall’abside delle nostre antiche basiliche, pieno di interiorità e di
potestà. Dobbiamo ricordarlo, questa sera, Lui il nostro Signore
e Redentore. È un dovere di memoria, che stiamo compiendo. È la
reviviscenza nei nostri spiriti della sua figura e della sua missione,
che vogliamo in questo momento, più che in ogni altro, suscitare.
LA PASQUA PERENNE DEL SALVATORE
Ci facilita il compimento di questo dovere il pensare l’importanza che
la memoria assume nella religione vera, positiva e rivelata, come la
nostra. Essa si fonda su fatti concreti, che bisogna ricordare. Il
loro ricordo forma il tessuto della fede e alimenta la vita spirituale e
morale del credente. Tutto il racconto biblico si svolge sulla memoria
di avvenimenti e di parole, che non devono dissolversi nel tempo, ma
devono rimanere sempre presenti. Quella che noi chiamiamo oggi
coscienza storica può farci comprendere qualche cosa circa la funzione
della memoria nella tradizione sia dell’Antico che del Nuovo
Testamento. Non possiamo dimenticare che la Cena stessa, durante la
quale Gesù ordinò di tener viva la sua memoria mediante la
rinnovazione di ciò ch’Egli aveva allora compiuto, era un rito
commemorativo; era il convito pasquale, che doveva ripetersi ogni anno
per trasmettere alle generazioni future il ricordo indelebile della
liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto:
«Habebitis autem hunc diem in monumentum et celebrabitis eam solemnem
Domino in generationibus vestris cultu sempiterno» (Ex. 12,
14). L’Antico Testamento si svolge lungo il filo di fedeltà al
ricordo di quella prima Pasqua liberatrice. Gesù, quella sera,
sostituisce all’Antico il Nuovo Testamento: «Questo è il mio
Sangue. Egli dirà, del Nuovo Testamento . . .» (Matth.
26, 28); all’antica Pasqua storica e figurativa Egli collega e
fa succedere la sua Pasqua, anch’essa storica, definitiva questa,
ma figurativa anch’essa d’un altro ultimo avvenimento, la parusia
finale: «donec veniat» (1 Cor. 11, 26): memoria risolutiva
e profetica è la Cena del Signore.
LA SS.MA EUCARISTIA ALIMENTO E VITA DEI
CRISTIANI
Ma come questa memoria fedele e perenne di Cristo possa rinnovarsi e
di quale contenuto essa sia piena ci è pur obbligo ripensare. Quel
comando di Gesù: «Fate questo» è una parola creatrice,
miracolosa: è una trasmissione d’un potere, ch’Egli solo
possedeva; è l’istituzione d’un sacramento, il conferimento cioè
del sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione
dell’organo costituente e santificante del Corpo mistico, la sacra
gerarchia, resa capace di rinnovare il prodigio dell’ultima Cena.
E quale sia il prodigio dell’ultima Cena noi sappiamo. Il ricordo
sarà realtà. Bisogna ripensare al momento e al modo con cui Cristo
ha istituito l’Eucaristia. Essa è scaturita dal suo cuore
nell’imminenza e nella chiaroveggenza della sua passione. Essa
rappresenta tale passione e contiene Colui che l’ha sofferta. Gesù
ha sigillato la sua presenza paziente e morente nei simboli - ormai non
più altro che simboli e segni - del pane e del vino. Ha voluto
essere ricordato così. Ha voluto, si può dire, sopravvivere e
rimanere fra noi nel supremo suo atto d’amore, il suo sacrificio, la
sua morte. Ha voluto rendersi presente, lungo il corso del tempo,
fra noi nello stato simultaneo di sacerdote e di vittima, sostituendo
alla sua presenza storica e sensibile quella non meno reale della
presenza sacramentale, perché solo i credenti, solo i volontari della
fede e dell’amore, potessero venire in comunione vitale con Lui.
Gesù, sapendo di essere alla fine della sua presenza naturale sulla
terra, ha fatto in modo che gli uomini non si dimenticassero di Lui.
L’Eucaristia è appunto il memoriale perenne di Gesù Cristo.
Celebrare l’Eucaristia vuol dire celebrare la sua memoria. Ed Egli
ha voluto che questa forma singolarissima di ricordarlo, anzi di
riaverlo presente, diventasse cibo, cioè alimento, cioè principio
interiore d’energia e di vita, per le anime dei suoi veri seguaci.
La liturgia ben sa e bene ci insegna questa finalità del mistero
eucaristico; e le dà un nome, che nel suono greco ed arcaico del
vocabolo dice come sempre nei secoli, fin da principio, fin dal
Vangelo così fu onorata l’Eucaristia; e cioè il nome di
anàmnesi, che vuol appunto dire reminiscenza, rimembranza, e che
trova il suo posto rituale immediatamente dopo la consacrazione del pane
e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, in connessione e quasi
a sviluppo ed a commento delle parole citate dal Signore stesso:
«Fate questo in memoria di me»: è a questo punto ineffabile che la
liturgia della Messa aggancia nuovamente la storia nostra al Vangelo
con le famose parole: «Unde et memores . . ., perciò noi
ricordando . . .».
ADORARE, RINGRAZIARE, AMARE CRISTO
PRESENTE TRA NOI
Perciò, Fratelli e Figli, come il grande rito vuole, un grande
sforzo di memoria a noi questa sera è domandato. Dobbiamo ricordare
Gesù Cristo con tutte le forze del nostro spirito. Questo è
l’amore che ora gli dobbiamo. Ricorda chi ama. La nostra grande
colpa è l’oblio, è la dimenticanza. È la colpa ricorrente nella
vicenda biblica: mentre Dio non si dimentica mai di noi . . . .
«Potrà mai una donna dimenticarsi del suo bambino, da non sentire
più compassione per il figlio delle sue viscere? . . .» (Is.
49, 15), noi ci dimentichiamo così facilmente di Lui. Siamo
giunti a tanto, nel nostro tempo, da credere una liberazione lo
scordarci di Dio, da volere scordarci di Lui; come fosse liberazione
lo scordarci del sole della nostra vita! Noi spingiamo sovente la
giusta distinzione dei vari ordini sia del sapere, che dell’azione,
la quale non vuole confusione fra il sacro e il profano e rivendica a
ciascuno la loro relativa autonomia, fino alla negazione dell’ordine
religioso, e alla diffidenza e alla resistenza nei suoi confronti, per
l’errata convinzione che nel laicismo radicale sia prestigio umano e
vera sapienza. Così la dimenticanza di Cristo si fa abituale anche
in una società che tanto da Lui ha ricevuto e tuttora riceve; e si
insinua qualche volta anche nella comunità ecclesiale: «Tutti
cercano, lamenta l’Apostolo, le cose proprie, non quelle di Gesù
Cristo» (Phil. 2, 21).
Dobbiamo ricordarci invece di Lui, come Lui con la moltiplicata,
silenziosa, amorosa presenza eucaristica si ricorda di noi, di
ciascuno di noi. E se nella quotidiana celebrazione della Messa
questa memoria si riaccende e risplende nelle nostre sacre assemblee e
nel foro interiore delle nostre anime, quest’oggi un’ultima
dimenticanza noi dobbiamo vincere, quella che l’abitudine produce e
che rende la nostra memoria appena formale e insensibile. Oggi la
pienezza della memoria si ravviva nella fede alla realtà del fatto
eucaristico, nella meraviglia, nella riconoscenza, nell’amore: qui
è il Cristo venuto, qui è il Cristo presente, qui è il Cristo
che verrà; a Lui onore e gloria, oggi e per sempre.
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