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Giovedì Santo, 30 marzo 1972
Fratelli e Figli tutti in Cristo carissimi!
Noi dedichiamo questo breve momento di riflessione circa i riti, anzi
circa i misteri che stiamo celebrando, alla comunione nella quale essi
ci immergono, una duplice comunione: la comunione con Cristo e la
comunione con la Chiesa; la comunione col corpo reale del Signore, e
la comunione col suo corpo mistico. Non sono due atti separati; si
tratta del medesimo atto, la partecipazione alla Eucaristia,
considerato nella sua realtà sacramentale che attualizza in ciascuno di
noi la presenza sacrificale di Gesù, che, sotto le apparenze di pane
e di vino, offre a noi in alimento spiritualmente assimilabile la sua
carne ed il suo sangue; e la partecipazione, che dobbiamo nello stesso
tempo considerare nell’affetto specifico di questo sacramento, cioè
la nostra fusione nel corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa
(Cfr. S. TH., III, 73, 2-3).
IL MASSIMO GRADO DELL'ADESIONE A
CRISTO
Noi abbiamo presenti le notissime, ma non mai abbastanza meditate
parole di San Paolo, che precedono quelle testé ascoltate della sua
prima lettera ai Corinti: «Il calice di benedizione, che noi
benediciamo, non è comunione del sangue di Cristo? e il pane, che
spezziamo, non è comunione del corpo di Cristo? perché unico pane e
unico corpo formiamo noi pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo
dell’unico pane» (1 Cor. 10, 16).
È questo il momento di pensare a questo massimo grado di adesione a
Cristo, nostra vita, a noi concesso, la comunione: possiamo a Lui
unirci ascoltando ed accogliendo la sua parola, cioè con la fede;
possiamo entrare in comunione iniziale e vitale con Lui, mediante la
grazia battesimale, ch’è il fondamento della vita spirituale (S.
TH., ib. ad 3); e poi a Lui ci unisce l’imitazione dei suoi
esempi e la sequela dei suoi insegnamenti; comunione morale (Cfr.
Matth. 7, 21; Io. 12, 26); e finalmente siamo a Lui
incorporati, mediante l’assunzione della sua stessa vita, a noi
offerta nell’Eucaristia: «Io sono il pane della vita; . . . chi
mangia me vivrà di me»; comunione che possiamo dire di convivenza,
come quella del tralcio sul ceppo della vite (Io. 6, 48, 58;
Io. 15, l-11; Gal. 2, 20). La pratica religiosa e lo
studio del Vangelo ci hanno abituati a queste parole, il cui realismo
quasi ci turba e poi ci inebria; e spesso la nostra devozione si è
arrestata a questa comunione come se essa bastasse a significare la
misura di grazia accessibile alla nostra meditazione teologica e alla
nostra capacità immaginativa: quale altra comunione possiamo
desiderare più alta e più piena? Non abbiamo abbastanza riflettuto
che la comunione con Cristo, capo della Chiesa, comporta non solo
una comunicazione con la Chiesa, ma una comunione, un’unità col
corpo sociale e mistico di Cristo medesimo; un grado cioè, una
pienezza maggiore d’unione con Lui, col «Christus totus», come
dice S. Agostino (Cfr. S. Aug. Serm. 341, 1; PL
39, 1493; Ep. 4, 7; PL 43, 395), un’inserzione
simultanea nella circolazione universale della carità di Cristo
Signore. Il mistero eucaristico di Cristo, che a noi singoli si
dona, si diffonde nel mistero della Chiesa, alla quale noi veniamo
così vitalmente associati. Ci pare allora di capire qualche cosa del
mistero eucaristico, cioè di questa moltiplicazione dell’identico
Cristo, fattosi sacramentalmente pane, se fissiamo lo sguardo al
termine per cui questa moltiplicazione scaturì dall’onnipotente bontà
del suo cuore: per giungere a tutti; per fare di tutti uno, come
appunto inneggiò nell’estrema preghiera dell’ultima cena; è alla
fine questo il suo supremo disegno: che tutti siano una cosa sola
(Io. 17, 21, 23).
L’EUCARISTIA FA LA CHIESA
Sia questo, Fratelli, in quest’ora, il nostro studio, il nostro
proposito: trarre dall’Eucaristia l’insegnamento, anzi il principio
della nostra comunione ecclesiale. È stato ben detto: l’Eucaristia
fa la Chiesa (H. DE LUBAC, Méd. sur l'Eglise, 116
ss.); consociatur Ecclesia (S. AUG. Contra Faustum,
XII, 20; PL 42, 265): la Chiesa, celebrando
l’Eucaristia, diventa Chiesa, cioè società, fratellanza,
comunione. L’agape eucaristica è il momento della sua pienezza,
della sua vitalità. Suppone la fede, genera l’amore. È il segno
della sua unità, è il vincolo della sua carità (sempre S.
Agostino che parla) (IDEM, Tr. in Io. 26, 13; PL
35, 1613).
Un’osservazione ci sembra importante a questo punto: mentre nella
fase eucaristica della comunione col corpo reale di Cristo noi siamo,
si può dire, prescindendo dalle disposizioni requisite a tale incontro
(Cfr. 1 Cor. 11, 28), passivi, recettivi, cioè noi
riceviamo la comunione, nella fase invece della comunione operativa
della grazia specifica della Eucaristia, la «res», come dicono i
teologi, che tende a compaginarci col corpo mistico di Cristo, noi
siamo impegnati ad essere attivi, cioè a collaborare con la grazia,
ad assecondare l’impulso e l’impegno che a noi viene dalla
partecipazione all’agape, alla carità unificante ed operante della
celebrazione eucaristica. Noi siamo invitati ed aiutati a formare il
corpo mistico, cioè la Chiesa, la società dei cristiani, come
Gesù l’ha voluta, sorretta, anzi ministerialmente generata dal
sacerdozio gerarchico, e fraterna in una comunità sgombra da ogni
interno steccato egoistico.
Quale dovere, quale programma ci deriva perciò dalla celebrazione
tipica dell’Eucaristia, propria del Giovedì Santo, giorno
commemorativo della sua istituzione e rivelatore delle sue divine
intenzioni! Gesù si fa Eucaristia, cioè vittima incruenta che lo
rispecchia vittima cruenta nel sacrificio della croce per la nostra
redenzione, in modo che, credenti e redenti, noi possiamo essere in
simultanea comunione con Lui e fra noi una cosa sola.
UMILTÀ E CARITÀ
E ce ne insegna la via con l’esempio, ancor prima che con le parole,
come cioè sia anche a noi consentito di cooperare alla formazione
d’una simile unità: l’umiltà, questa discesa nella «chenosi»,
nell’annientamento concettualmente metafisico e spiritualmente morale
della falsa persuasione d’essere noi qualche cosa di nostro, di
autonomo: creature siamo, e quanto più grandi tanto più debitrici
all’unica e sovrana sorgente creatrice; il Magnificat della Madonna
ce lo ricorda; ma alunni sordi e degeneri noi siamo, quando peccatori
ci erigiamo, quasi emuli e nemici, nella sfida orgogliosa e folle di
Dio; e la lezione ci è data da Gesù là dove l’umiltà è più
difficile, quasi impossibile all’orgoglio della nostra personalità
posta al confronto sociale col prossimo; ci è data con la lavanda dei
piedi eseguita da Gesù nella sua ripugnante realtà, per ricordarci
che la comunione con gli uomini derivante dall’Eucaristia esige un
superamento tendenzialmente totale della nostra superbia. Umiltà ed
Eucaristia fanno binomio inseparabile, tanto per la comunione col
corpo reale di Cristo nel sacramento eucaristico, quanto per la
comunione col suo corpo mistico nel sacramento ecclesiale.
E poi la carità: il mandato nuovo dell’amore scambievole, nella
imitazione almeno, se non ci è possibile nella misura, come Lui,
Cristo, ha amato noi, è formulato dal Maestro parimente in sede
eucaristica, a quell’ultima cena, che noi stiamo, a modo nostro,
ricordando e riproducendo. Eucaristia e carità fanno pure binomio:
possiamo forse staccare l’una dall’altra?
Ed è perciò, Fratelli, che noi vorremmo celebrare quest’ora
beatissima nella visione trasparente e dinamica della comunione
eucaristica attraverso la realtà fisica e storica, che qui ci
circonda. Dove ci troviamo? Nella Basilica di San Giovanni in
Laterano, la Cattedrale di quella Chiesa di Roma, la quale ha
meritato fin dal suo nascere il titolo di «presidente nella carità»
(S. IGNAZIO D’ANT. Lettera ai Romani, introd.):
quale titolo! quale impegno! Possiamo noi dire che la Chiesa di
Roma, nella sua interiore compagine, e nella missione cattolica, che
le è affidata, eccelle nella carità? Sì, con umile verità e per
grazia del Signore; ma nessuno di noi pretende di dire che la nostra
carità, quando la misura della carità è d’essere senza misura,
può bastare, come le viene dalla sua tradizione magnifica, ma
talvolta logorata dal tempo, e quando da tante contestazioni oggi è
circondata; e quando soprattutto i tempi, cioè gli uomini, la
reclamano, e sotto certi aspetti, la favoriscono in espansioni nuove e
maggiori.
Carità, agape, comunione. Noi la offriamo, noi la domandiamo a
voi, Fratelli che ci circondate; a voi, Signori Cardinali, nostro
sapiente e fedele Presbiterio pontificio; a voi membri attivi della
Curia Romana; a voi, Clero solerte della nostra Diocesi
carissima, di quest’Urbe, che deve risplendere per la sua pastorale
comunione; a voi, Fedeli tutti di Roma chiediamo un aumento di
carità locale nella professione cristiana e nell’organizzazione
ecclesiale; facciamo tutti insieme a noi stessi e al mondo vedere, non
a nostro onore, ma a comune esempio e conforto, che questa antica e
sempre viva Chiesa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo è, come la
prima comunità ecclesiale nella culla del Cenacolo di Gerusalemme,
«un Cuor solo e un’anima sola» (Act. 4, 32), aperta alle
dimensioni cattoliche della Chiesa e del mondo. Così sia.
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