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Martedì, 29 giugno 1971
Il Santo Padre, commentando il Vangelo, si sofferma sulla parola
«Beato», che sembra abituale sulle labbra di Nostro Signore Gesù
Cristo, ma che nel messaggio evangelico acquista di volta in volta un
immenso, profondo, misterioso significato. È la parola che Gesù
rivolge a Pietro dopo quella sua improvvisa, ispirata confessione.
Pietro ha riconosciuto in Cristo il Messia, Figlio del Dio vivo.
E Gesù, approvando con esultanza interiore questo grido uscito dalle
labbra dell’Apostolo, dice «beato» a Pietro nel momento dell’atto
fondamentale della nostra fede.
Il sistema dottrinale della nostra religione, si fonda sulla persona
di Cristo, sul suo mistero, sulla ineffabile verità che egli è uomo
come noi ed è Dio come il Padre. Questa unità, che si chiama
Incarnazione, e che arriverà a dare valore divino alla Redenzione,
è la chiave, la sintesi della nostra fede. È una nuova beatitudine
che Gesù aggiunge a quelle enunciate nel discorso detto appunto delle
beatitudini. Non è la prima volta che nel Vangelo avvertiamo questa
unione, questa sintesi fra la fede e la beatitudine. Il Papa ricorda
in proposito il saluto di Elisabetta a Maria («Beata quae
credidisti»), le parole di Gesù «Beati sono quelli che ascoltano
la mia parola e la accettano», e ancora le parole di Gesù a
Tommaso, il quale aveva voluto certificare il fatto della
Risurrezione con i suoi sensi, con la sua esperienza diretta: beati
quelli che crederanno anche senza aver veduto.
La beatitudine, - prosegue Sua Santità, - è veramente il regno
di Dio. E il vedere associata questa parola alla fede ci invita alla
riflessione, ad un confronto con le condizioni spirituali nelle quali
noi ci troviamo e in cui è posto il mondo contemporaneo. Dalla
tradizione culturale degli ultimi secoli siamo stati abituati a
distinguere la fede dalla razionalità, ciò che possiamo sapere con la
nostra capacita intellettuale da quello che invece ci è fornito dalla
Parola di Dio, alla quale dobbiamo credere senza che il nostro
intelletto possa fornire una verifica diretta, anche se qualche
esperienza poi viene a comprovarne la verità. Siamo stati abituati a
separare la fede dal nostro pensiero e quasi a contrapporre i due
termini fino ad escludere la fede; essa viene addirittura messa da
parte come se fosse una forma inferiore e indebita dell’uso del nostro
pensiero. Coloro poi che hanno accolto il connubio tra fede e ragione
si sono come adattati ad esso, senza accettarlo pienamente con plauso
interiore del pensiero. Hanno tollerato, più che ammesso, la fede.
Quando poi l’hanno accettata, è parsa come una fatica, una
tensione, un sì stentato, proferito perché qualcuno, la Chiesa,
dice che si deve credere, perché la tradizione, grandi spiriti,
grandi dottori e grandi santi hanno detto che si può e che si deve
credere.
Poi, in quest’ultimo scorcio di tempo il pensiero si è ancora
oscurato, anche perché si è quasi disintegrata e dissolta la norma
del rigoroso pensare filosofico. Il dubbio, l’incertezza, la
critica, sono diventati stati d’animo consueti e normali. Si
arriva, in tal modo, come alle soglie di una negazione, di una
interpretazione che annulli o che risolva in elementi privi di mistero
quanto ammettiamo per fede.
Siamo in un momento, spiega ancora Paolo VI, di crisi della fede,
che si ripercuote poi in tanti altri campi, cioè su tutta la vita
della nostra religione, della nostra morale, della nostra situazione
sociale.
Che cosa dobbiamo fare, adunque, oggi che celebriamo negli Apostoli
i campioni, i testimoni, gli araldi del Vangelo e della fede?
Dovremo proferire questa preghiera: Fa’, o Signore, che la mia
fede sia beata, sia sicura di una felicità interiore, sia il
risultato di una coincidenza di verità in parte credute e accettate
dalla Parola di Dio, in parte sperimentate dalla mia capacità di
pensiero; e fa’ che risulti da questa sintesi una felicità, la
felicità che deve essere propria del cristiano, di chi segue ancora
questa secolare tradizione che ci porta, nell’anno in cui viviamo,
l’immutato messaggio di Pietro; ed egli qui sulla sua tomba ce lo
ripete: Tu sei Cristo Figlio del Dio vivente.
Il Santo Padre parla ancora del dono della fede come di una segreta
gioia che ci riempie il cuore anticipando quella del possesso completo
della verità, della nostra completa beatitudine. Il Papa augura
quindi ai presenti, alla Chiesa e a tutto il mondo di aver la fortuna
di possedere la fede come una felicità e di sapere che la fede non
mortifica e non devia il corso normale del nostro pensiero. Piuttosto
lo esige rigoroso e completo, e dove il pensiero si arrende ecco
l’incontro con il messaggio gioioso e misericordioso di Dio che dice:
Accetta la mia parola.
Noi dobbiamo ripetere qui sulla tomba di Pietro - conclude Paolo
VI - per le nostre anime, per la Chiesa e per il mondo che la sta
cercando e la desidera forse senza saperlo, questa certezza e questa
fiducia dell’essere, del vivere completo che è la fede. Dobbiamo
acclamare quello che il Signore ci ha detto: Beati coloro che credono
anche senza aver visto. E dobbiamo dire anche noi, con lo stesso
entusiasmo di Pietro: Signore, io credo che tu sei Cristo, Figlio
del Dio vivo!
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