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Domenica, 14 febbraio 1965
Riserviamo a questo momento della nostra preghiera e meditazione il
pensiero sopra il brano del Santo Vangelo che la Chiesa ci presenta
in questa particolare Domenica che, come saprete, nel linguaggio
liturgico si definisce di Settuagesima. Essa ci informa e dimostra
che siamo a una precisa distanza da una mèta che andrà avvicinandosi
con la Sessagesima, con la Quinquagesima e quindi con il periodo
della Quaresima, che sarà preparazione e prologo a quello della
Pasqua di Risurrezione.
A ben riflettere, in questa Domenica cambia interamente il tono della
preghiera e della meditazione. Il tempo dell’Avvento e del Natale
ci ha portato alla ricerca di Dio, alla conoscenza del Figlio suo
unigenito, Gesù Cristo, alla sua Rivelazione con la festa
dell’Epifania e con le altre in seguito celebrate.
Ora cambia l’obbiettivo: siamo piuttosto alla indagine, all’esame
dell’uomo. In altri termini, nel periodo, che oggi si inizia, la
nostra preghiera avrà per tema fondamentale la sorte dell’uomo, la
sua salvezza, il mistero della sua redenzione, incominciando proprio
da queste domeniche che fanno da prefazione alla Quaresima, per
richiamarci ai grandi temi: vero tessuto di sublime pagina religiosa.
Il primo di essi a presentarsi in questa Domenica è proprio la
condizione dell’uomo. Chi recita il Breviario - ove da oggi le
lezioni del primo notturno sono della Genesi -, chi medita
sull’Epistola odierna, vede molto bene in che modo si presenta
l’uomo, dopo. la colpa originale. Non è certo una condizione di
felicità, non di perfezione; e nemmeno siamo in uno stato terminale
completo, cioè di riposo. Si tratta, invece, di uno stato
iniziale, che esige sviluppo, opere, educazione, fatica; insomma,
questa la realtà, è uno stato infelice. Perché? Perché siamo
peccatori; perché abbiamo ereditato una esistenza afflitta dal peccato
d’origine; e, inoltre, l’abbiamo aggravata con le nostre colpe;
abbiamo cioè reciso il filo della vita, quello che ci congiunge a
Dio. Perciò andremmo incontro a sicura completa rovina se il nostro
pellegrinaggio terreno si svolgesse senza l’intervento salvatore di
Cristo. Privi di questo infinito dono di Dio, saremmo coloro che la
Sacra Scrittura chiama «filii irae», i figli della maledizione.
In conseguenza del peccato, il genere umano sarebbe perduto. Ed ecco
allora la mirabile impresa del ricupero, della salvezza; la conoscenza
di chi ci aiuterà, di quanto occorre fare da parte nostra. Questo,
dunque, l’argomento che interesserà le nostre anime, quelle fedeli
specialmente, per arrivare al momento beato della Pasqua in cui
incontriamo la grande speranza, la grande gioia della nostra redenzione
attuata da Cristo e che deve compiersi in ciascuno di noi.
Il Vangelo di quest’oggi ci propone una di quelle grandi parabole che
sembrano racconti tenui, divertenti, e sono, al contrario, pagine
cosmologiche, pagine immense di antropologia, di teologia; piene,
ricolme anzi, di sapienza, verità ed insegnamenti. L’arte del
Divino Maestro è appunto quella di rendere più accessibili a noi i
misteri divini, mediante tali coloriti racconti e presentazioni
paraboliche.
Il tratto odierno dell’Evangelista San Matteo - tutti lo hanno
ascoltato e compreso anche se nel trasparente latino ora letto - narra
di quel padre di famiglia, proprietario di un campo, che si reca di
buon mattino nella piazza per avviare lavoratori alla sua terra. Ne
trova subito alcuni; fissa con loro la mercede e li manda al suo
podere. Più tardi, e a varie riprese, all’ora di terza e quindi di
sesta e di nona, cioè sino al pomeriggio inoltrato, torna ancora alla
piazza ed ingaggia nuovi braccianti. Infine esce ancora sul calar del
giorno, all’undecima ora, ed assume pure alcuni che non erano
riusciti a trovare occupazione sino a quel momento. Si conclude così
la prima parte della parabola.
Una seconda ne segue: quella che concerne la retribuzione. Il
padrone distribuisce a tutti la stessa mercede. Di qui il malumore dei
primi. Che cosa accade? Perché l’imprenditore non dà il compenso
in proporzione alla fatica sostenuta? Il padrone risponde: Io do
secondo giustizia; assolutamente come avevamo pattuito: se ora
rimunero quelli che hanno meno lavorato nella stessa misura usata per
gli altri, è perché io preferisco essere buono e generoso. Non
posso dunque disporre come più mi piace?
In altri termini, viene qui presentata la duplice azione di Dio nei
confronti dell’uomo: la prima è di giustizia, la seconda di
misericordia. Si tratta di argomenti di immensa portata, che
meriterebbero ampie spiegazioni : ed è ovvio sottolinearne qualcuna.
Sappiamo di parlare, oggi, a una grande moltitudine di operai, di
lavoratori: la parabola è come intessuta sul «voca operarios», gli
operai al lavoro. Per essere esatti, non è che la parabola voglia,
in un certo senso, tracciare il quadro della questione sociale e
discorrere del lavoro industriale o manuale come noi l’intendiamo ai
giorni nostri. Il concetto della parabola è più vasto, e intende
precisare quale posto compete alla operosità, al lavoro dell’uomo.
Ed ecco subito la prima norma precettiva, badate che il lavoro è
necessario. È un obbligo di principio che concerne l’intera
esistenza. Bisogna che la vita umana sia attiva per essere perfetta,
per salvarsi. Da ciò deriva una considerazione primaria, che
capovolge tante nostre idee: non è lo stato sociale quello che giova
alla nostra salvezza, anzi, talvolta, le diverse condizioni possono
aggravare la responsabilità. Il fatto di essere ricco, sano,
sapiente, di aver fortuna non costituisce motivo determinante per
essere salvato. Si salva chi opera. Ci si salva non con l’essere,
ma con l’agire; non per ciò che abbiamo ottenuto, ma per ciò che
facciamo. Sono le nostre azioni a salvarci. Pertanto, il problema
morale che riguarda l’azione diventa fondamentale per tutto
l’itinerario sino al traguardo della felicità. Bisogna operare:
tale l’insegnamento primo della parabola.
Altri ne seguono: e uno subito circa l’incontro con l’indirizzo
sociale moderno, contemporaneo, che fa dell’operosità e del lavoro
le manifestazioni tipiche più alte della vita. Noi che ne pensiamo?
Risposta semplice e immediata: Siamo d’accordo; condividiamo questo
giudizio. Pensiamo cioè che il lavoro, il dinamismo dell’uomo è
voluto da Dio, ed è indispensabile per dare alla vita il livello di
perfezione, di sviluppo, a cui il Creatore l’ha destinata, come ad
altissima mèta. Si tratta, invero, dei rapporti fra l’essere umano
e il mondo naturale: con l’obbiettivo di conquista e di
trasformazione. Il lavoro, dapprima si appropria delle energie,
quindi degli altri elementi, in vista di trarne vantaggi. Pur se le
cose sono ostili, inutili, passive e forse anche dannose, egli le
tramuta in utili realtà, in buoni coefficienti per la compagine della
vita: ne fa ricchezze, ne trae dei beni, fungibili dalle nostre
necessità.
Noi siamo dunque pienamente d’accordo nell’esaltare tale aspetto
della vita. È d’uopo lavorare; e occorre vedere in ciò il disegno
di Dio. Perciò intendiamo essere solerti nell’impegnare il nostro
tempo non all’ozio, né a sfruttare quei doni che già abbiamo, ma a
bene impiegarli e ad acquisirne degli altri ad usare le forze da noi
possedute per il colloquio operante con la natura che ci circonda.
Faremo semmai qualche riserva, qualche osservazione non piccola, in
merito alla concezione nostra di siffatti valori e a quella asserita dal
mondo d’oggi. E cioè: gli altri non vedono nel lavoro che il valore
economico, ovvero il rapporto con le cose che diventano utili. Noi
valutiamo ben diverse e superiori considerazioni. Quelli si arrestano
piuttosto al lato umano, che perciò viene esaltato; non riflettendo
che proprio la caratteristica economica e soltanto operativa si rivela
origine di molte lotte, dei disagi di psicologie inquiete che
caratterizzano la nostra età. Noi invece guarderemo il lavoro come ci
insegna il Signore, anzitutto collocandolo nel disegno divino. Il
lavoro è diventato, dopo la nostra mancanza, anche un castigo? Si:
«In sudore vultus tui vesceris pane». Dovrai faticare e guadagnarti
il pane col sudore della fronte. L’attività umana, che sarebbe
stata un esercizio piacevole, s’è cangiata, nell’economia
dell’uomo, caduto, come una croce da portare. Ma - sia ben chiaro
- non croce di disperazione, e nemmeno di odio, bensì una croce che
redime. C’è nel lavoro incalcolabile riserva di beni, di speranza e
di virtù che lo rendono, perché viene dalle mani di Dio e a Dio
conduce, benedetto.
Da ultimo, ancora una riflessione. Operai e lavoratori che
ascoltate, e noi tutti che, operai in questa vita, tutti dobbiamo
lavorare, giacché, se fossimo oziosi, saremmo dei peccatori, della
gente restia alla grande chiamata di Dio, ricordiamo il precipuo
impegno: dobbiamo amare il lavoro. Queste attività che, sovente,
fanno tanto tribolare, e molte volte inveire, persino odiare; che
suscitano molti sentimenti amari, ribelli e inquieti, devono, nella
concezione cristiana, essere guardati con occhio fermo e sereno;
devono portare a scorgere, nel programma della esistenza terrena, il
disegno stesso di Dio. Perciò occorre accettare, con forza e con
rassegnazione, le difficoltà e le pene che la fatica reca con sé al
punto da vedere in essa, pur se è sofferenza, la disposizione di Dio
che ci fa amare le cose, opera sua; che ci fa amare anche i beni
prodotti dalla sagacia umana: il pane, le maniera di vivere, i
migliori e provvidi risultati, da diffondere e rendere profittevoli non
solo per noi, ma per il prossimo.
È, questo, il mezzo stupendo, che dall’alimento terreno ci innalza
a quello celeste: il pane che noi conquistiamo, i beni economici che
ci procuriamo diventano quasi un regalo anticipato di un dono ben più
insigne che il Signore ha preparato per noi: la sua mercede perpetua,
il pane della vita senza fine.
Quindi, piuttosto che applicarci al lavoro con l’animo pieno di
rancori, di lamenti, di critiche, eseguiamolo col desiderio vivo di
compiere bene il nostro dovere, di rendere giusta, meritoria e onesta
la nostra fatica, feconda, pure, delle retribuzioni dovute; e nella
speranza che la nostra giornata terrena prepari il premio della giornata
eterna. E così sia.
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