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Giovedì Santo, 15 aprile 1976
Comunione è la parola che viene alle labbra, se esse devono rompere
il silenzio dei cuori compresi dei misteri che stiamo celebrando.
Ripensiamo, anzi riviviamo l’ora dell’ultima cena di Gesù con i
suoi discepoli; un’ora già grave per il suo significato
commemorativo, tale da formare la coscienza religiosa e storica del
Popolo ebraico, che rievocava, immolando l’agnello, l’esodo
avventuroso dalla schiavitù verso una patria da riconquistare e da
possedere nella fedeltà al proprio religioso destino, per secoli.
Comunione era l’atmosfera nuova nella quale quella cena pasquale era
celebrata: un’atmosfera affettiva intensa e carica di quei sentimenti
che superano lo stile della conversazione consueta, per quanto il
linguaggio del Maestro mirasse sempre a condurre la comprensione dei
suoi discepoli oltre i margini dell’esperienza sensibile e ad invitarla
a respirare in una zona superiore di mistero e di trascendente scoperta
di verità recondita e di divina realtà. Ma quella sera il livello
sentimentale e spirituale è subito così alto da rendere più che mai
difficile ai discepoli commensali interloquire a proposito. Ascoltiamo
intanto gli accenti estremamente cordiali, che sono in chiave
d’apertura dell’effusione discorsiva del Maestro. «Quando fu
l’ora, scrive l’evangelista S. Luca, Egli prese posto a tavola e
gli apostoli con lui, e disse: ho desiderato ardentemente di mangiare
questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non
la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio»
(Luc. 22, 15). La cena assume un carattere testamentario:
Gesti stesso la definisce l’epilogo della sua vita terrena; Egli dà
al convito un carattere conclusivo. Scrive l’Evangelista Giovanni,
il prediletto iniziato ai segreti del cuore del Signore: «Prima
della festa di Pasqua Gesù, sapendo ch’era giunta la sua ora di
passare da questo mondo al Padre, dopo d’aver amato i suoi ch’erano
nel mondo, li amò sino alla fine» (Io. 13, 1). Commenta
S. Agostino: «Fino alla morte lo portò l’amore» (S.
AUGUSTINI In Io. tract. 55, 2: PL 35,
1786); e parimente l’esegesi moderna: «Gesù, che ha sempre
amato i suoi, adesso dimostra il suo amore sino in fine, non solo
cronologicamente sino alla fine della sua vita, ma molto più
intensivamente sino al fine raggiungibile, sino all’estremo limite
possibile dell’amore stesso» (G. RICCIOTTI, Vita di
Gesù Cristo, 541).
Il grado d’intensità affettiva prodotto dalle parole e dagli atti di
Gesù in quel convito rituale, già di per sé atto a svegliare negli
animi una forte e comunicativa emozione, cresce durante lo svolgimento
della veglia conviviale in scala ascendente: dall’annuncio tanto
temuto dai discepoli della prossima morte cruenta del Maestro (Cfr.
Io. 11, 16; 12, 24; etc.), ora apertamente asserito,
alla scena inattesa e imbarazzante della lavanda dei piedi, compiuta da
Gesù dopo la prima parte della cena (Io. 13, 2-17), e poi
all’accenno patetico e ormai aperto al tradimento imminente; e
quindi, partito dalla mensa il traditore indiziato (Ibid. 13,
26 ss.), un momento di supremo congedo: «Figlioli (così chiama
i discepoli! ), ancora per poco sono con voi . . . Io vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come (come:
notate il paragone, notate la misura!), come Io vi ho amato, così
amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri» (Ibid.
13, 33-35). Anche qui un rapporto, una comunione rimane,
nel costume informatore d’una società compaginata dall’amore. Noi
giungiamo così al momento della suprema e misteriosa sorpresa.
Riascoltiamo le rivelatrici parole: «Mentre essi cenavano, Gesù
prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai
discepoli dicendo: prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Poi
prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo:
bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza,
versato per molti, in remissione dei peccati» (Matth. 26,
26-28).
Miracolo! Mistero di fede! Noi crediamo al prodigio compiuto! Noi
crediamo, come dice il Concilio Tridentino, che Egli, Cristo,
«celebrata la Pasqua antica . . . . istituì una nuova Pasqua,
immolando se stesso, conferendone alla Chiesa il potere mediante i
Sacerdoti, sotto segni visibili, in memoria del suo transito da
questo mondo al Padre» (DENZ-SCHÖN., 1741).
Se così è, ed è così, il mistero si irradia davanti a noi,
finché avremo capacità di contemplarlo, in un’epifania di
comunione.
Comunione con Cristo, Sacerdote e vittima d’un Sacrificio
consumato in modo cruento sulla croce, incruento nella Messa, vertice
della nostra vita religiosa, dove Egli, mediante la sua parola
sacramentale ridotti a semplici segni sensibili il pane ed il vino per
convertirne la sostanza nella sua carne e nel suo sangue, offre se
stesso, Agnello immolato in olocausto, ristabilendo una comunione di
grazia fra gli uomini vivi e defunti, con Dio Padre onnipotente e
misericordioso (Cfr. DENZ- SCHÖN., 1743;
3847). Comunione ontologica, teologica, vitale.
Comunione ancora con Cristo, personale, mistica, interiore;
comunione bipolare della nostra umile e caduca vita umana e mortale con
la Vita stessa di Cristo, ch’è Lui stesso Vita per definizione
(Io. 14, 6), e che ha detto di Sé: «Io sono il Pane della
Vita» (Ibid. 6, 35-49 et 51), così che risuonano nella
nostra profonda coscienza le parole della comunione più intima,
coesistenziale: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»
(Gal. 2, 20). Chi può mai misurare la fecondità di questa
comunione interiore, che ha Cristo maestro, lo ha via, verità e
vita (Io. 14, 6), lo ha come linfa d’un albero ai suoi tralci
fiorenti e fruttiferi? (Ibid. 15, 1 ss.)
Comunione inoltre d’ineffabile efficacia sociale, principio cioè
valido per cementare nell’unità soprannaturale ma altresì ecclesiale
e comunitaria del Corpo mistico di Cristo quanti del pane eucaristico
si alimentano. Lo insegna ancora S. Paolo: «Il calice della
benedizione che noi consacriamo, non è forse comunione con il sangue
di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con
il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico
pane» (1 Cor. 10, 16-17).
Comunione allora nello spazio della terra e nella dimensione
dell’umanità credente e partecipante al divino banchetto, dovunque
sia regolarmente celebrato: tutti vi sono invitati dal Signore
stesso: compelle intrare, spingili ad entrare! c’insegna la parabola
evangelica (Luc. 15, 23). Il fatto stesso che Cristo ha reso
possibile, mediante il ministero dei sacerdoti, di moltiplicare questo
benedetto pane eucaristico, ch’è Lui stesso, l’Emmanuele, il
Dio con noi che accompagna gli uomini per tutti i loro sentieri, e
tutti chiama con voce pentecostale alla sua unica Chiesa, non rende
forse evidente alla più semplice osservazione la sua divina intenzione
di comunione universale? Ut omnes unum sint, perché tutti siano una
cosa sola! così pregò Cristo in quella notte profetica, dopo
l’ultima cena.
E non si aggiunge forse a questa un’altra comunione, quella nel
tempo, quella della permanenza di Gesù Cristo con noi, quella della
tradizione vivente nei secoli, comunione coerente, fedele, vittoriosa
del tempo che passa divorante, perché questo miracolo eucaristico è
destinato, come scrive S. Paolo, a durare donec veniat, finché
Egli, Cristo, ritorni (1 Cor. 11, 26), il giorno finale
della parusia? E proprio così aveva dichiarato Cristo stesso, come
ce lo dicono le ultime parole del suo Vangelo: «Ecco Io sono con
voi ogni giorno fino alla fine del mondo» (Matth. 28, 20).
A questo punto la nostra meditazione, che indaga sulla comunione
polivalente, risultante dal mistero eucaristico, diventa curiosa di
calcoli e di statistiche. Se Cristo è il centro, nel sacramento del
suo sacrificio, che attrae tutti a Sé (Cfr. Io. 12, 32),
viene spontanea la domanda: sono davvero tutti affascinati ed attratti
a questa comunione con Lui? Quanti siamo noi compaginati nell’unità
di cui Egli ci lasciò la sua testamentaria aspirazione? (Ibid.
17) E siamo veramente in quell’unità di fede, di amore e di vita
ch’è nel desiderio sovrano e misericordioso di Gesù, disposti a
fare dell’unità interiore della Chiesa e nella Chiesa la nostra
aspirazione costitutiva, il nostro programma di vita ecclesiale? è
davvero e sempre soffio di Spirito Santo quello che spesso con spinta
centrifuga e ambizione individualista rallenta e talora infrange i
vincoli della nostra benedetta comunione nel corpo visibile e mistico di
Cristo? Non è questo il giorno, il momento di lasciar cadere ogni
egoistica riserva alla riconciliazione fraterna, al perdono reciproco,
all’unità dell’umile amore? Possiamo noi far giungere ai figli
lontani un affettuoso richiamo per il loro ritorno alla mensa spirituale
comune? Quale fervore missionario nasce in noi dalla celebrazione di
questo Giovedì santo! quale spirito fraterno, quale zelo pastorale,
quale proposito d’apostolato! quale speranza di comunione cristiana!
E non avremo noi, in questa sera beata, un pensiero, un saluto, una
preghiera ecumenica per tanti fratelli cristiani tuttora da noi
separati?
E per tutti gli uomini sofferenti o affamati di verità, di giustizia
e di pace, ma con gli occhi annebbiati nella loro insoddisfattta
ricerca, non potremo noi ricordare, almeno nella preghiera interiore,
l’invito sempre loro rivolto da Colui che solo li può esaudire:
«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi
ristorerò»? (Matth. 11, 28) La Chiesa è una comunione!
Così sia, così sia, con la nostra cordiale Benedizione.
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