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Domenica, 11 aprile 1965
Siamo presi da due timori, il primo è di parlare, quasi venissimo a
sminuire l’impressione che, certamente, il racconto sacro e tragico
della Passione, ora ascoltato, ha recato nelle anime vostre, ben
riflettendo quale urto di fatti e di sentimenti è in questo racconto;
l’altro timore è che, se tacessimo, lasceremmo sfuggire il
significato delle presenti rievocazioni e di mirabili pagine del
Vangelo.
Dobbiamo, però invitare le anime nostre a impossessarsi di questo
racconto; a ricordarlo, a meditarlo, a introdurlo nel circolo dei
nostri pensieri; ed a coglierne qualche cosa, una, anzitutto: dalla
Passione di Cristo dipende il nostro ultimo fine, la nostra
salvezza.
Ci limiteremo a menzionare gli elementi, di cui si compone il rito
solenne che stiamo compiendo. Esso ha due parti.
La prima riguarda le Palme: e cioè il trionfo messianico di
Cristo. Voi avete in mano i rami di olivo e di palma; li agitate,
quasi per rievocare e ripetere l’avvenimento che allora dichiarò chi
era Gesù. In quel giorno gli fu attribuito il nome che è diventato
suo: Cristo, che vuoi dire Messia, Re, l’unto e il Consacrato
da Dio; e che è poi il nome nostro, poiché ci chiamiamo cristiani.
Proprio in quel giorno, in quel concorso di popolo, Gesù lasciò
che fossero cantate e conosciute la sua personalità e la sua missione,
e gli venisse debitamente attribuito il completo, grande titolo: ecco
il Cristo, ecco il Messia!
Per comprendere quell’ora evangelica, occorrerebbe adesso guardare,
quasi in sintesi, il contesto storico in cui quel momento si innesta;
e riflettere come una speranza millenaria stava attuandosi, al termine
predisposto da Dio. Quel popolo aveva aspettato per secoli chi
l’avrebbe condotto, guidato, chi l’avrebbe personificato e gli
avrebbe dato gloria e pienezza di vita. Nell’attesa, aveva
sperimentato vicissitudini senza numero, progressi, cadute,
vittorie, eventi politici, profezie; ma il grande pensiero direttivo
del popolo ebraico, specialmente dopo l’esilio da Gerusalemme, era
stato questo punto proiettato nel futuro: l’avvento di Colui che ci
salverà; è il Messia, l‘Inviato da Dio, il nostro Re, il
Figlio di Davide. Orbene la speranza, nel corso della discesa di
Gesù dal Monte Oliveto verso la Città Santa, si palesa realtà.
E considerate, figliuoli, voi giovani specialmente, come ciò
avvenne.
Fu il popolo che Lo riconobbe; furono i ragazzi, i fanciulli a
gridare osanna al Figlio di Davide. D’improvviso la scintilla
accese la fiamma, il fuoco divampò in tutta quella moltitudine,
inducendola a dare, finalmente, una risposta a un attuale
interrogativo: quel Gesù di Nazareth, il quale aveva predicato per
tre anni lungo le vie della Galilea e della Giudea; quel Gesù, -
che mostrava tanta potenza e tanta umiltà, e del quale si ignorava il
nome, pur cercandosi di indovinare, si che lo ritenevano uno dei
famosi personaggi: quali Elia, Geremia, il Battista od altro
profeta -, chi mai sarà?
Ebbene, nel radioso mattino, la coscienza del popolo ha il grande
intuito della realtà: è il Cristo; è Lui: il centro della
storia. Da Lui dipendono i destini nostri; Egli è l’Aspettato,
il nostro Re, Colui che rende felici le nostre anime. Fu tale
l’esplosione, che Gesù ne pianse. Ed essa ebbe tale intensità che
i dissenzienti quasi invocarono la stessa autorità di Cristo, perché
facesse tacere quel popolo. E invece Gesù, che aveva sempre cercato
di velare la sua personalità, considerò propizio quel momento perché
essa si manifestasse, e rispose : Se non parlassero in questo momento
le lingue degli uomini, le pietre parlerebbero e proclamerebbero ciò
che costoro stanno acclamando ed osannando: cioè la messianità del
Cristo, il suo carattere di Inviato da Dio, la sua missione
salvatrice.
Questa è la prima fase liturgica della presente Domenica;
simboleggiata dalle Palme, dalla processione, dalla letizia, che la
pervade, con una nota di misticismo, diffuso dall’oriente
all’occidente.
Nella seconda parte è la Santa Messa caratterizzata dalla lettura,
poco fa udita, della Passione del Signore. A differenza della prima
essa è improntata da mestizia, da un profondo senso di commozione e di
tragedia. La liturgia si fa, d’improvviso, triste e grave: e la
Croce, che in questi giorni è stata coperta - e lo sarà ancora,
dopo questa cerimonia, per farci pensare al mistero espresso da sì
alto emblema di dolore e di redenzione -, la Croce, eccola qui:
dinanzi a noi. È visibile; è offerta a tutti, perché tutti abbiamo
a fissare il nostro pensiero, i sentimenti, l’anima sul ricordo
solenne, doloroso, pio e commovente della morte di Nostro Signore
Gesù Cristo.
Come si connettono le due memorie, le due cerimonie? La prima,
festante, riconosce in Gesù il trionfatore della storia, il centro
del genere umano, Colui che segna le ore del tempo e dei secoli; la
seconda parte sembra, al contrario, tutta negativa, luttuosa,
funebre, parlandoci, essa, del processo a Gesù, della sua
condanna, riprovazione e crocifissione; degli scherni da Lui subiti;
del suo annientamento sino alla morte. Come perciò si congiungono i
due ricordi? Il modo c’è: benché si tratti di una lezione
difficile, che Gesù stesso volle già spiegare ai suoi discepoli,
senza che, allora, questi la comprendessero.
Quel Cristo che la speranza del popolo attendeva quale condottiero
trionfante, dispensatore di glorie e potenza, di ricchezza e
felicità, quel Cristo, invece, doveva venire nel dolore, nella
umiliazione, nella morte. E la misteriosa contraddizione si rinnova e
si perpetua. Infatti, ogniqualvolta noi aspettiamo una eredità di
elevazione e di prestigio da Cristo, Egli ci lascia delusi e ci si
mostra ancora con le sue braccia distese, le mani inchiodate e il capo
chino del morente e del morto.
Che cosa vuol dire ciò? Qui deve concentrarsi il nostro pensiero,
se vuole comprendere il senso della Grande Settimana, delle odierne
cerimonie e delle altre che seguiranno. Vuol dire che dobbiamo
collocare i nostri aneliti, la nostra sorte, i nostri veri bisogni,
la nostra speranza non nel mondo presente, bensì nell’altro, in
quello eterno; non nella supremazia temporale e materiale, esteriore,
ma in assai diverso trionfo, quello conseguito da Gesù con la sua
morte di croce; portando, cioè, a noi un sacrificio.
Si rifletta al valore di questa parola. Sacrificio vuol dire che uno
muore per un altro, si immola per il prossimo. Gesù è morto per
noi. Il Signore ci ha salvati con l’estrema dedizione di Sé, nel
suo dolore incommensurabile, nella sua oblazione libera e totale.
Diciamo la grande parola: Gesù ci ha salvato nell’amore! Gesù ci
ha salvato con il dono di Sé per noi; e così ci ha liberato dai veri
mali incombenti sulla nostra vita: il peccato e la sua conseguenza, la
morte.
Questa, dunque, è l’essenza della storia, della filosofia, e
della saggezza umana. Se noi vogliamo comprendere bene la nostra vita
e l’indirizzo che sempre intendiamo imprimerle, dobbiamo guardare a
Cristo: Egli è il Re, il sovrano della storia, il centro di ogni
aspirazione e la meta dell’uomo. Egli consegue il suo trionfo nel
dare quanto ha: il sangue, l’onore, la sua libertà, la sua vita
per noi. Gesù ci ha salvato nel dolore e nell’amore.
Figliuoli, lasciamoci impressionare da queste altissime verità.
Incominciamo a comprendere le scene che il racconto evangelico e le
cerimonie liturgiche rievocano davanti alle nostre anime. Lasciamoci
commuovere, si, commuovere. C’è molto bisogno proprio di scuotere
i nostri sentimenti stagnanti, opachi, tetri, incapaci di vibrare
dinanzi a queste supreme lezioni, che riguardano la storia e le
finalità stabilite per l’uomo. Ripensiamoci e facciamo in modo che
le parole di San Paolo, testé rilette nell’Epistola odierna,
entrino nelle nostre anime e le governino.
Sentite cioè nelle vostre anime ciò che Gesù Cristo senti in Sé
medesimo. Che da Lui passi a noi il fluido, la corrente dei suoi
sentimenti per trasformare ed accendere i nostri! Gesù ci ha amato;
ha offerto la sua vita per noi: ciascuno di noi è debitore a Lui
d’una salvezza per cui è occorso il prezzo del suo Sangue. Gesù si
è avvicinato a noi con la dedizione più completa e più generosa. E
noi non possiamo rimanere inerti, figli carissimi, non dobbiamo più
oltre comportarci come insensibili, refrattari, nemici. Curviamo,
invece, la fronte e col centurione - il quale, dopo aver confitto in
croce Gesù, quando lo vide morto, lo confessò - ripetiamo:
«Veramente Costui era Figlio di Dio!».
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