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Solennità della Presentazione di Gesù al Tempio
Martedì, 2 febbraio 1971
La festa che oggi celebriamo, ed i riti in cui essa si esprime,
presentano aspetti concettuali diversi, tra i quali ci piace ora
scegliere per nostra meditazione e per nostra edificazione l’aspetto di
oblazione.
Noi riscontriamo facilmente questo aspetto nel fatto evangelico
commemorato: Gesù, dopo quaranta giorni dalla sua nascita, è
portato al tempio in Gerusalemme da Maria e da Giuseppe «per
presentarlo al Signore» (Luc. 2, 22). È una prescrizione
legale, che si compie a riguardo di Gesù, come per ogni altro
primogenito, in riconoscimento dei diritti sovrani di Dio;
l’oblazione assumeva significato di sacrificio, dal cui compimento il
neonato era riscattato mediante una ben più modesta offerta d’un paio
di tortore, o di colombi, nella quale tuttavia l’idea di oblazione
era significata. L’idea medesima sopravvive nel presente rito
commemorativo di quel fatto evangelico: allora Gesù era stato
riconosciuto Messia; ed il Messia è proclamato dal vecchio
Simeone, invaso dal vaticinio del profeta Isaia circa l’atteso
Salvatore, «luce dei popoli» (Cfr. Is. 42, 6; 49,
6). Cristo è la luce del mondo. Immagine più felice, più
alta, più universale è difficile attribuire al Figlio di Dio fatto
uomo; essa lo dimostra, lo qualifica, lo esalta e lo presenta al
mondo. L’evangelista Giovanni, come ben sappiamo, la inserisce nel
prologo del suo vangelo: «la luce splende nelle tenebre» (Io. 1,
5-9). Gesù la farà propria, come una delle proprie definizioni
abbaglianti: «Io sono la luce del mondo» (Io. 8, 12; e
12, 46). Ed ecco che il cero, simbolo di Cristo-luce, prende
nelle vostre mani valore di offerta, espressiva di quella che fu fatta
del Bambino Gesù a Dio Signore e altresì di quella che ogni
offerente vuol fare di sé e dei suoi allo stesso Iddio, Signore e
Padre della nostra vita. L’offerta del cero vuole così esprimere
l’oblazione dell’offerente al Signore. Vuole essere il
riconoscimento del suo dominio primario sopra di noi e della nostra
dipendenza di creature e di figli da Lui. Non svolgeremo discorso su
questo atto fondamentale della religione, la quale essenzialmente
consiste nel professare tale dipendenza, tale rapporto che classifica
la nostra vita nell’ordine ontologico, e che è alla radice del nostro
sistema di pensare e di agire. Vogliamo soltanto notare che questo
riconoscimento religioso acquista grande importanza specialmente ai
nostri giorni, nei quali l’oblio della nostra derivazione dalla Causa
causarum sembra diventare abitudine mentale comune all’uomo moderno,
anzi sembra costituire obbligo per la sua acquisita maturità e titolo
di fierezza per dargli coscienza di emancipazione e di autosufficienza.
Noi riteniamo oggi come ieri, anzi oggi più di ieri per la maggiore
conoscenza che noi abbiamo delle ricchezze meravigliose di un universo
impari a giustificare la propria esistenza, che la negazione di Dio è
negazione della suprema Realtà, è fondamentalmente irrazionale e
perciò radicalmente inumana; è cecità, con le conseguenze ch’essa
porta con sé nella ansiosa e ormai disperata ricerca delle vie giuste e
diritte per il cammino umano. L’affermazione religiosa perciò
acquista per noi valore di sapienza che dà al mondo e alla vita un
significato, misterioso sì, ma non oscuro, e che conferisce
all’uomo questo umile, ma preziosissimo potere di pregare e di
sperare.
Completiamo la riflessione collocandola nell’analisi dell’atto
compiuto, che abbiamo definito oblazione. Cosa è oblazione? È
offerta, che riconosce non solo un diritto divino, ma che vuole
altresì riconoscere un amore divino verso di noi; e vuole
rispondervi, come può, ma con analogo gesto di amore. È un atto
riflesso, che assume significato di risposta. Un piano divino di
amore ci circonda; da esso ogni beneficio ci è venuto; quanto noi
siamo è un debito, è un dono di Colui «che per primo ci amò» (1
Io. 4, 10-19). La nostra oblazione significa innanzi tutto
che ci siamo accorti di questo amore primigenio, che abbiamo avvertito
il senso interrogativo ch’esso racchiude, abbiamo capito che sopra di
noi si libra un’attesa divina, che mette alla prova la nostra
libertà, un invito a cui bisogna dare riscontro, un riscontro dal
quale dipende il nostro destino. Nasce di qui il nostro «fiat», il
nostro sì, religioso e cristiano.
L’oblazione è segno della nostra coscienza cristiana; e qualche cosa
di più: essa vuol essere accettazione, conferma, adesione
volontariamente reduplicata. La vita cristiana trova perciò
nell’oblazione, cioè nell’offerta cosciente e volontaria dell’anima
alla vocazione dell’amore di Dio, la sua prima ed essenziale
espressione; e quando l’oblazione si fa totale e perpetua genera una
condizione dell’esistenza, un genere di interpretazione cristiana,
uno stato di comportamento spirituale e morale, che chiamiamo vita
religiosa, la risposta cioè totale all’ipotesi presentata da Cristo
ai suoi seguaci più logici e più generosi: «Se tu vuoi essere
perfetto . . .» (Matth. 19, 21).
Questo comporta un’associazione non solo ideale, ma reale fra
l’oblazione e il sacrificio. L’offerta diventa vittima. Così per
Cristo (Cfr. Is. 53, 7); così nella Messa:
all’offertorio succede la immolazione sacrificale. Così per noi.
La nostra offerta del cero, cioè la nostra oblazione di fede e di
amore, conclude ad una disponibilità di effettiva accettazione della
volontà divina, del servizio che nella Chiesa ci è assegnato, delle
avversità che possono derivare dalla nostra adesione. E allora il
gesto che voi, Fratelli e Figli carissimi, rinnovate diventa un atto
molto impegnativo e molto bello. Noi lo accogliamo come un segno di
devozione filiale e gentile, sì, ma altresì come un atto di fortezza
e di promessa. Esso ci apre davanti la visione di questa Roma
cattolica come illuminata dalle molte e vive fiamme della vostra operosa
fedeltà; e ciò ci riempie di consolazione e di gioia.
Ci fa ricordare una scena commovente e bellissima del Nostro recente
viaggio nell’Estremo Oriente, la scena della nostra Messa notturna
nello stadio di Giacarta. Fu così: all’inizio della Messa venne
davanti a Noi un ministro dell’altare, e ci pregò di accendere un
cero; ciò che subito facemmo. Questo cero acceso fu portato a dare
fiamma di luce ad altri ceri predisposti e portati da altri ministri, i
quali si portarono ai vari reparti dello stadio, dove erano i fedeli,
muniti ciascuno d’una propria candela, che dall’una all’altra
propagarono nell’immensa folla dei presenti l’accensione dei ceri.
Avvenne che tutto lo stadio era come una costellazione di piccoli
lumi. Al momento dell’elevazione tutti i fari che illuminavano lo
stadio, eccetto quello sopra l’altare, furono spenti, così che
l’altare nell’oscurità della notte apparve circondato da una
ghirlanda di tremule fiammelle, come da una fascia scintillante di
stelle vive; ogni fedele una luce intorno all’altare di Cristo. Uno
spettacolo meraviglioso; ma ancor più: una scena vera e simbolica
insieme; ogni fedele una fiamma, offerta a Cristo, luce delle
anime, luce del mondo.
La scena, sotto lo sguardo della Madonna della Candelora, pare a
Noi, si ripete oggi spiritualmente qui d’intorno, a Noi portando i
lumi delle vostre singole oblazioni; a ciascuno di voi recando nel nome
di Cristo la Nostra Benedizione.
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