|
Mercoledì delle Ceneri, 20 febbraio 1969
Salutiamo, «in capite jejunii», in questo giorno nel quale ha
inizio il nostro esercizio quaresimale, anzitutto quelli che abbiamo
l’intenso gaudio di qui incontrare e di sapere uniti alla Nostra
preghiera: il Cardinale Titolare di Santa Sabina, il Nostro
Cardinale Vicario, e i suoi Vescovi Ausiliari; quindi la cara,
numerosa Famiglia di figli di S. Domenico, con la Curia
Generalizia; quelli che nella basilica zelano il servizio e quanti
sono qui raccolti, a cominciare dai molti studiosi e altri ancora,
singolarmente i giovani, associati alla insigne schiera di cultori di
S. Domenico e di S. Tommaso.
IL SIGNORE È CON NOI
Desideriamo altresì salutare l’assemblea presente al sacro Rito
testé svoltosi, che abbiamo sentita, durante i canti processionali,
in consonanza con le Nostre preghiere e i Nostri desideri. Si tratta
di vera primizia delle soddisfazioni che il tempo di penitenza e di
speciale preghiera ci offre; facendoci sperimentare, ancora una
volta, il «quam iucundum habitare fratres in unum». Come è bello
pregare insieme, sentirsi in comunione di spirito rivelante la medesima
fede, le stesse invocazioni che sappiamo moltiplicate da armonica
intercorrenza di sentimenti e di voci! La forza soprannaturale della
preghiera sente aleggiare sopra di sé il miracolo della presenza di
Cristo: «Ubi enim sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi
sum in medio eorum» (Matth. 18, 20): dove sarete uniti in mio
nome io sarà in mezzo a voi.
Il Signore è con noi. Godiamo, quindi, di vedere queste anime
unite in identità di propositi, di affetti, di sofferenze nella vita
della Chiesa, a cominciare dai religiosi e dalle religiose, che
quella vita fanno propria con tanto fervore. Al saluto e alla
benedizione per tutti si aggiunge il ringraziamento per la puntualità
dimostrata al convegno, che vuol rivelarsi segno di fedeltà a una
tradizione ecclesiastica e specialmente romana, la quale merita di
sopravvivere nei secoli e, come l’arancio di San Domenico, di
rifiorire ad ogni stagione.
Esaminiamo adesso una domanda, che sorge spontanea nel nostro
spirito: è forse in ossequio al calendario solare che noi compiamo un
rito come quello odierno, ricorrente ad ogni armo; in determinato
periodo stagionale, ponendoci in un particolare atteggiamento di
preghiera e di austerità? O invece obbediamo a una legge più
profonda di quella esteriore e cronologica del calendario? E ancora:
è necessario di far penitenza tutti gli anni? Non basta, forse, una
volta quando, dopo il Battesimo, ci riconciliamo con Dio, e,
santificati dalla Grazia, arricchiti dai carismi della presenza del
Signore, ci troviamo in contatto esplicito con Lui nella
conversazione o nella preghiera quotidiana? C’è ancora bisogno di
ripetere con profondità e con sincerità di cuore un gesto come
questo?
Orbene la risposta è facile, perché (e ce lo insegna proprio San
Tommaso in uno degli ultimi articoli della sua «Somma»), la
penitenza deve durare «usque ad finem vitae» . È un habitus, uno
stato d’animo, una espressione spirituale, che non conosce tempo,
non ha scadenza; ma deve diventare abitudine per chi è in viaggio
verso l’eternità. Finché noi uomini siamo sulla terra, abbiamo
bisogno di rinnovare sempre noi stessi, nell’esercizio di virtù
permanente, nell’impegno che il Battesimo stesso ci ha fatto
contrarre.
ESERCIZIO PREVENTIVO
Il primo rilievo è poi completato e confortato da un altro, sempre
desunto dalla dottrina di S. Tommaso: la penitenza non serve
soltanto alla espiazione delle nostre mancanze passate, a saldare, i
debiti che abbiamo contratto in precedenza, ma è pure diretta a
preservare dalle cadute future. È un esercizio non solo consuntivo,
ma preventivo. E cioè: ,se vogliamo essere fedeli, se vogliamo
essere davvero costanti nel cammino prescelto, il fare penitenze,
così come la Chiesa ci insegna e le circostanze ci indicano, è atto
di sapienza per cui antivediamo la nostra fragilità futura. Sappiamo
di essere labili e deboli, come, se è lecito il paragone, gli
orologi che a un dato momento esauriscono la loro potenzialità di
segnare le ore e necessitano di essere ricaricati. Così noi abbiamo
bisogno di essere rinvigoriti nei sentimenti che un giorno abbiamo
manifestati ed acquisiti alla nostra vita spirituale.
E non è tutto: un’altra logica considerazione va illustrata, molto
importante. Noi non soltanto siamo fragili, e quindi dobbiamo
continuamente ristorare e irrobustire le nostre forze, ma siamo
impegnati - noi sacerdoti, noi uomini di Chiesa, voi religiose e
religiosi specialmente - a crescere, a progredire nel bene. La vita
spirituale è soggetta a una legge di perfezione: «Crescamus omnes in
Christo» (cfr. Eph. 4, 15). Dobbiamo svilupparci
continuamente. Non dobbiamo mai essere soddisfatti di noi stessi.
Quel giorno che fossimo sicuri e tranquilli del nostro stato di
viatori, non più avvertendo l’obbligo di operare con sforzo la nostra
santificazione, saremmo come pellegrini che preferiscono sostare nel
proprio cammino: non avanzano più, non progrediscono. Chi non si
applica a tale sforzo costante non è più realmente fedele. Egli,
infatti, manca proprio alla legge intrinseca degli esseri vivi, la
quale è tanto più esigente allorché si tratta di vita
soprannaturale, di dover alimentare di perenne energia e
d’inesauribile rinnovamento il personale lavoro in risposta alla
vocazione del Signore.
Ci sovviene un venerato, antico Padre della Chiesa, San Clemente
d’Alessandria. Egli afferma esservi due stadi nella vita cristiana.
Con i termini allora in uso parlava di fede nel primo stadio (cioè
del passaggio dal paganesimo al cristianesimo); il secondo stadio era
l’avanzare della fede alla gnosi, cioè alla conoscenza più profonda
secondo la fede ricevuta. Questo concetto di un progresso intrinseco
è quasi sollecitato dalle stesse premesse della vita cristiana. È un
po’ il programma di perfezione dello stato religioso: l’amore, che
si è acceso nel cuore degli uomini, ha manifestato una sua legge
arcana, sorprendente: per cui lo stesso amore non è mai soddisfatto,
non dice mai basta. Vuole, anzi, giungere alle espressioni totali e
complete per essere davvero coerente con i principi sui quali è
fondato.
AFFRONTARE CON DECISIONE OGNI
CONTRARIETÀ
La perfezione è la legge, alla quale ci siamo votati: noi
sacerdoti, voi religiosi e religiose, con promesse speciali che hanno
voluto così dare libero corso alla carità nell’applicarsi a sgombrare
ogni possibile ostacolo anche legittimo. Alla perfezione, sia pure in
diverso grado, sono tenuti tutti gli altri che professano l’ideale
cristiano. Ma ognuno deve rifuggire dalle soste deprimenti e
perniciose. Occorre affrontare con decisione ogni contrarietà:
«franchir le pas», saltare il fosso, come disse un maestro di
spiritualità or è qualche secolo. È indispensabile possedere il
coraggio di oltrepassare la mediocrità e la soddisfazione del limite
per divenire, nel grado più esatto e completo, imitatori di Cristo
ed essere in tal modo introdotti nel grande, profondo complesso
dell’esperienza spirituale vissuta. In altri termini, tutti devono
vincere ogni difficoltà e portarsi in avanti, cercando sempre la
perfezione cristiana.
Non dobbiamo essere paghi di semplici mediocrità, di una misura
livellata secondo criteri personali, che possono sì essere anche
generosi ma, conformandosi ad una norma di limite, diventano subito
incapaci, tiepidi, inconcludenti, e forse si spengono proprio perché
non hanno avuto la maniera di esplicarsi nella misura richiesta dalle
loro leggi intrinseche. Bisogna, in realtà, avere il senso, il
gusto e il proposito della perfezione cristiana. E qui non spendiamo
parole per dimostrare come la perfezione cristiana sia imparentata con
la penitenza. Si può esser perfétti senza sacrificio, senza portare
la croce, senza rinunce, senza la scelta di quel che più vale, e
quindi senza un continuo esercizio di eliminare ciò che è superfluo
per dare invece fioritura e sviluppo a ciò che è essenziale e
migliore?
Questo desiderio di mete più elevate e degne deve essere esigente,
vivo e palpitante più che mai oggi, allorché vediamo, da un lato,
la Chiesa ampliare in larga misura, tanta conoscenza di sé, tanta
scienza del suo passato, l’approfondimento sempre più efficace della
sua dottrina, il desiderio ognor più fervido di esplicarsi in opere
esteriori che sono veramente esemplari e mirabili; e dall’altro il
dover ammettere che alla ricerca della perfezione non sempre o non
abbastanza oggi si accompagna quell’esercizio della penitenza, che
nelle scuole spirituali, viene definito l’ascetica.
ACCOGLIERE LE ESIGENZE DELLA CHIESA
L’ascetica è diventata forse, almeno nella pratica, una scienza un
po’ contestata. Oggi quasi tutti cercano di vivere una vita più
comoda, priva di affanni e fastidi, senza quelle ruvidezze che
l’austerità della norma religiosa tante volte richiedeva ai nostri
predecessori. Intendiamoci: nessuno certo oggi direbbe a S.
Francesco di procedere tuttora col suo cavallo, cioè a piedi,
perché i tempi consentono di avere, anche entro i confini della
povertà, altri mezzi più facili per risparmiare tempo, fatica,
energie ed impiegarli meglio al servizio del Regno di Dio. Ma il
senso della padronanza di sé, il privarsi di ciò che è superfluo,
il permanere in atteggiamento continuo di mortificazione ed espiazione;
il soffrire qualche cosa per essere migliori, per conservare i carismi
della verità, della fede, dell’amore, della pietà, della
carità, della prontezza, del sacrificio: questo il traguardo che
dobbiamo raggiungere. È un ideale, che dev’essere ancora vivo nelle
nostre anime, nella disciplina della nostra vita cristiana,
specialmente se a tale mèta siamo particolarmente impegnati.
Concludendo, noi portiamo qui quanto ci è possibile documentare
personalmente: l’esigenza della Chiesa di avere figli e figlie che
vivano la perfezione cristiana e che la vivano davvero con coraggio,
instancabile slancio, con quella dedizione, con quella letizia nella
semplicità e nella povertà, che contraddistinguono l’esistenza
perfetta del seguace di Cristo.
È qui il programma della Quaresima cristiana; è questo l’augurio
che facciamo a tutti quelli che Ci ascoltano: a voi soprattutto,
carissimi figli prediletti, che Ci siete, nell’odierna circostanza,
tanto vicini. Ed aggiungiamo un auspicio: voglia Iddio compiere
questo miracolo interiore, che in ognuno si accompagni al sacrificio e
alla fatica dell’ascetica e dell’interiore rinuncia, il gaudio di
servire fedelmente il Signore e di portare la Croce con Lui.
|
|