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Giovedì, 17 giugno 1976
Noi ci sentiamo obbligati a salutare il nostro singolare uditorio,
prima di rivolgergli la parola religiosa, per annunciare e celebrare la
quale siamo oggi venuti a questa cittadella di studi sanitari, di cure
proprie della scienza medica, di umane sofferenze qui raccolte
nell’esperienza comunissima dell’umano dolore e nella speranza di
trovarvi senso e rimedio.
Sì, salutare questa comunità, estremamente significativa, alla
quale oggi fa corona una numerosa e cara folla di popolo, parenti e
fedeli. Il cuore si allarga; e le nostre intenzioni superano la
misura concessa al tempo della nostra espressione. Ma non sappiamo del
tutto rinunciare a comporre in comunità di fratelli e di figli, di
defunti e di viventi, di maestri e di studenti, di sanitari e di
infermi, di ministri di questa dimora e di ospiti quanti ci
circondano; e noi pensiamo di non venir meno né allo stile, né allo
spirito di questa celebrazione se proprio essa vuoi rievocare il mistero
dell’Eucaristia, che ebbe il quadro d’una cena rituale e fraterna
per la sua originaria istituzione. Noi rivolgiamo il nostro riverente
e riconoscente pensiero al sempre compianto Padre Gemelli, al cui
genio quest’opera deve la sua origine ed alla cui memoria è dedicata.
Così avremo nel cuore e nella preghiera quanti all’opera stessa hanno
dato idea, tempo, mezzi, fatiche, strutture, ed ora dormono nel
segno della fede e nel sonno della pace.
Ma questo fidente omaggio alla comunione dei santi passati all’altra
vita ci induce tanto di più a salutare quelli qua convenuti che questa
vita attuale con noi condividono, innanzi tutti il magnifico Rettore
dell’Università Cattolica, il chiarissimo e a noi carissimo
Professore Giuseppe Lazzati, qui presente, e con lui l’illustre
Preside della Facoltà di Medicina Professor Antonio Sanna, e con
lui il Professore Luigi Ortona, Direttore Sanitario del
Policlinico.
E siano salutati tutti i membri del corpo docente e del corpo
sanitario, che qui prestano la loro preziosa attività; così
salutiamo quanti in questa complessa istituzione scientifica e sanitaria
operano e vivono; fra loro noi ricordiamo in modo particolare gli
Studenti, ai quali si rivolge la nostra stima e la nostra affezione,
con l’antica amicizia degli anni della nostra assistenza spirituale al
mondo studentesco. Ma a voi degenti, a voi ammalati, ospiti di
questo Policlinico, il nostro augurale e benedicente saluto, quasi a
caratterizzare con questa speciale menzione un aspetto non secondario
del rito che ora celebriamo: il rapporto cioè fra la Passione di
Cristo e l’Eucaristia.
E poi siano i benvenuti a questo diocesano incontro i Prelati qua
convenuti della Curia Romana e del Vicariato, e con loro i venerati
e carissimi Parroci e Sacerdoti del Clero di Roma, con tutti i
fervorosi Fedeli e Pellegrini, docili al richiamo, quest’anno qui
stabilito, della nostra festa Romana del «Corpus Domini».
Vogliamo aggiungere un rispettoso e grato saluto anche alle Autorità
Civili presenti a questa cerimonia: al Signor Prefetto di Roma ed
al Rappresentante-Sindaco del Comune dell’Urbe, e ad altre
Personalità che con la loro presenza onorano questa sacra cerimonia;
noi vogliamo assicurare queste illustri persone della nostra
riconoscenza e della nostra compiacenza, come vogliamo confermare
l’ossequio della Chiesa alla loro alta funzione, che auguriamo
provvida per l’ordine e la prosperità civile della popolazione e che
noi faremo oggetto anche in questo religioso momento del nostro
spirituale ricordo.
Noi dunque qui celebriamo la festa del «Corpus Domini».
Essa, per sé, è già stata celebrata, il Giovedì Santo, con
riti d’intensa pietà e di particolare commozione; ma la successione
liturgica ci ha subito portati alla memoria drammatica e straziante del
Venerdì Santo, poi a quella esultante e gloriosa della Pasqua di
risurrezione. La Chiesa si è accorta che il Giovedì Santo ci ha
lasciato una meravigliosa e misteriosa realtà sacramentale, collegata
con la nostra vita nel tempo, e perciò in un certo senso,
permanente, sempre presente, e non mai abbastanza meditata,
apprezzata, celebrata. Allora la Chiesa ha stabilito questa
festività, come un ripensamento del Giovedì Santo, convinta
com’è che ella non riuscirà mai ad esaurire la ricchezza, la
comprensibilità di questo mistero eucaristico. Perciò ella lo
ricorda di nuovo; perciò lo onora con nuovi riti e lo esplora con
nuova attenzione.
Noi tuttavia nulla diremo di nuovo. Ma ciò che oggi scegliamo per la
nostra riflessione sull’Eucaristia non solo può bastare
all’animazione del nostro pensiero e della nostra devozione, ma
sorpassa così la misura della nostra capacità teologica e della nostra
virtù cultuale da riempire i nostri animi di gioiosa meraviglia e da
accrescerne il desiderio di capire di più. Perché l’Eucaristia è sacrificio.
Tutto qui; ma quale trascendente e straripante verità abbiamo noi
annunciato! L’Eucaristia è il sacrificio di Cristo sulla croce,
riflesso, riprodotto, perpetuato in modo incruento, ma nella sua
originaria realtà, nella Messa (Cfr. DENZ.-SCHÖN.,
802, 1740-1741).
La mentalità di molta gente del nostro tempo non è preparata a
comprendere qualche cosa di stupendo, di sempre vero e di sempre vivo,
circa questo cosmo di realtà religiose. Bisogna essere iniziati ai
segreti della carità divina per essere in grado di capire come lo
possono i santi, cioè i fedeli cristiani, quale sia l’ampiezza,
l’estensione, l’altezza e la profondità . . . (noi diremmo le
incommensurabili dimensioni) dell’amore di Cristo, che sorpassa ogni
conoscenza, come scrive S. Paolo (Eph. 3 , 17-19). E la
carità, qual è? La carità è quel Dio stesso, di cui la nostra
debolezza speculativa mette perfino in dubbio l’esistenza; mentre è
il Principio d’ogni cosa, e tale Principio da chiamarsi Padre; e
tale Padre d’aver così amato il mondo, l’umanità, ciascuno di
noi, da dare il suo Figlio unigenito (Io. 3, 16). Il quale
Figlio unigenito, il Verbo eterno di Dio, appunto si è fatto uomo
per salvarci . . . Ma chi pensa oggi seriamente che l’uomo ha
bisogno d’essere salvato? Eppure, così è; e il Figlio del Dio
vivente «proprio per noi e per la nostra salvezza» si è fatto carne
nostra, come dice il nostro atto di fede; e Cristo Gesù, Figlio
di Dio e Figlio dell’uomo, a sua volta, ancora c’insegna S.
Paolo «ha amato me e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).
Si è sacrificato? Ma esiste ancora una religione, che si esprime in
sacrifici? No, i sacrifici dell’antica legge e delle religioni
pagane non hanno più ragione di essere; ma di un sacrificio, un
sacrificio valido, unico e perenne, sì, sempre il mondo ha bisogno
per la Redenzione del peccato umano (altra verità, e quanto triste e
reale che l’incredulità moderna vorrebbe trascurare); ed è il
sacrificio di Cristo sulla croce, che cancella il peccato del mondo;
sacrificio che l’Eucaristia attualizza nel tempo, e rende possibile
agli uomini di questa terra di parteciparvi. «Ecco l’Agnello di
Dio, ecco Colui che toglie il peccato del mondo» (Io. 1, 29)
grida ancora dal deserto il Profeta Precursore, all’arrivo di Gesù
di Nazareth.
Ripetiamo: è un cosmo questo di verità religiose, che solo la
finestra della fede spalanca davanti al contemplativo più penetrante,
e al fanciullo più semplice e innocente (Cfr. Matth. 11,
25). Mistero della fede! Gesù, rivestendosi delle apparenze di
pane e di vino, si è reso presente come corpo e sangue di Vittima
sacrificata; crocifissa a morte non solo da noi peccatori, ma per noi
resi commensali del suo sacrificio reso sacramento di vita.
Mistero di fede, sì, abbagliante, ma illuminante i profondi, gli
essenziali destini della nostra vita. E qui una nuova rivelazione si
apre. Si apre specialmente per quanti davanti o sotto la sofferenza
fisica sono tormentati dalla sofferenza spirituale d’un atroce
pessimismo; la quale così raddoppia il dolore del pensatore,
dell’ammalato, del ferito: perché si soffre? a che serve il
patire? Il dolore è assurdo, si è tentati di gridare; il dolore è
inutile, il dolore è insopportabile. Si apre, ecco, fratelli, una
nuova rivelazione per lasciarci vedere in Cristo Ia trasfigurazione
della sofferenza, quando è valorizzata come sacrificio; questa
intenzionalità sacrificale che Cristo ha conferito alla sua Passione
ne ha fatto una sorgente di salvezza, un’apoteosi d’amore.
Non può avvenire qualche cosa di simile per le nostre sofferenze? e
non avviene così di fatto, quando la fede e l’amore le sostengono e
le sublimano? Non potremo noi pure dare al dolore un senso, uno
scopo, un’utilità, al fine un amore, che ne mitiga l’asprezza e
gli conferisce un valore imprevisto? un valore di espiazione, di
redenzione, come Io ebbe la Croce di Cristo? San Paolo ci dà la
ben nota risposta: «Io sono lieto - egli scrive ai Colossesi
(Col. 1, 24) - delle sofferenze ch’io sopporto per voi, e
completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a
favore del suo corpo che è la Chiesa». E il sapere che
l’Eucaristia è il sacramento della Passione di Cristo non fa forse
di essa il conforto soggettivo migliore e il valore oggettivo maggiore
dei nostri dolori? Non stabilisce forse una comunione fra la nostra
sofferenza umana e quella umano-divina di Cristo? Non infonde forse
al nostro dolore qualche cosa di sublime, di divino? un’utilità
trasmissibile alla comunione propria degli uomini e dei santi? Essa
acquista così un significato ed un merito che annulla per noi,
scompaginati con Cristo eucaristico, la sentenza di Agostino verso i
pagani: perdidistis utilitatem calamitatis, et miserrimi facti estis
(S. AUGUSTINI De Civitate Dei, 1, 33), avete
disconosciuto l’utilità de1 soffrire, e siete diventati miserabili.
E qui il nostro discorso finisce per lasciare a voi tutti, Fratelli,
questo messaggio eucaristico: la possibile utilità redentrice del
dolore nella comunione intenzionale e sacramentale con la Passione di
Cristo, rispecchiata tuttora per noi dal Cristo glorioso nel Cristo
sacrificato dell’Eucaristia, a nostro insegnamento, a nostro
esempio, a nostro conforto, a nostro nutrimento, a nostro pegno di
vita eterna: «Io sono il pane della vita . . . Io sono il pane
vivo disceso dal cielo . . . Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue, ha la vita eterna, ed Io lo risusciterò all’ultimo giorno»
(Io. 6, 48. 51. 54); ha detto il Signore.
Così sia, così sia, per tutti noi! così sia!
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