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Mercoledì, 1° maggio 1968
L'AZIONE MATERNA E REDENTRICE DELLA
CHIESA
Diletti Figli e Figlie!
Eccoci a celebrare insieme il primo maggio, la festa del lavoro. È
una festa nuova, che ha trovato posto nel calendario religioso in
questi ultimi tempi; ed è chiaro che la Chiesa, introducendola nella
serie delle sue sacre celebrazioni, manifesta un’intenzione
redentrice, quasi un desiderio di ricupero, e certamente uno scopo
santificatore. S’era prodotto un distacco in questi ultimi secoli fra
la psicologia del lavoro e quella religiosa, un distacco che ha avuto
grandi ripercussioni sociali, e che ancora tiene lontane dalla fede
tante folle di uomini e di donne, che fanno del lavoro non solo la loro
professione, ma altresì la loro qualifica spirituale, l’espressione
della loro suprema concezione della vita, in opposizione a quella
cristiana. È questo uno dei più grandi malintesi della società
moderna, e che tutti oramai dovrebbero sapere risolvere da sé, non
solo a lode della verità, ma a tutto vantaggio altresì del lavoro
stesso e dei lavoratori, che della fatica e dell’attività produttiva
portano nella loro vita l’impronta distintiva.
IL LAVORO COME OGNI ONESTA ATTIVITÀ
UMANA È SACRO
Infatti, per ciò che riguarda il lavoro, il pensiero cristiano, e
per esso la Chiesa, lo considera come espressione delle facoltà
umane, e non soltanto di quelle fisiche, ma altresì di quelle
spirituali, che imprimono nell’opera manuale il segno della
personalità umana, e perciò il suo progresso, la sua perfezione, e
alla fine la sua utilità economica e sociale. Il lavoro è
l’esplicazione normale delle facoltà umane, fisiche, morali,
spirituali! e riveste perciò la dignità, il talento, il genio
perfettivo e produttivo dell’uomo. Ne esplica la sua fondamentale
pedagogia, ne segna la statura del suo sviluppo. Obbedisce al disegno
primigenio di Dio creatore, che volle l’uomo esploratore,
conquistatore, dominatore della terra, dei suoi tesori, delle sue
energie, dei suoi secreti. Non è perciò il lavoro, di per sé, un
castigo, una decadenza, un giogo di schiavo, come lo consideravano
gli antichi, anche i migliori; ma è l’espressione del naturale
bisogno dell’uomo di esercitare le sue forze e di misurarle con le
difficoltà delle cose, per ridurle al suo servizio; è
l’esplicazione libera e cosciente delle facoltà umane, delle mani
dell’uomo guidate dalla sua intelligenza. È nobile perciò il
lavoro, e, come ogni onesta attività umana, è sacro.
ASSICURARE AL LAVORO UNA SUA GIUSTIZIA
CHE GLI RENDA UN VOLTO UMANO FORTE
LIBERO E LIETO
Qui, fra le tante, due interrogazioni fermano il facile corso di
questi pensieri. E cioè: che cosa dobbiamo dire del lavoro quando
esso è pesante, oppressivo, inetto a raggiungere il suo primo
risultato, il pane, la sufficienza economica per la vita? quando
serve ad accrescere l’altrui ricchezza con lo stento e la miseria
propria? quando si manifesta indice, e quasi suggello d’insuperabili
e intollerabili sperequazioni economiche e sociali? La risposta
teorica è facile, anche se nella pratica è spesso assai difficile;
ma è risposta forte della sofferenza umana, una forza alla fine
vittoriosa: bisogna rivendicare al lavoro condizioni migliori,
progressivamente migliori; bisogna assicurare al lavoro una sua
giustizia, che cambi al lavoro il suo volto dolorante e umiliato, e
gli renda un volto veramente umano, forte, libero, lieto, irradiato
dalla conquista dei beni non solo economici, sufficienti ad una vita
degna e sana, ma altresì dei beni superiori della cultura, del
ristoro, della legittima gioia di vivere e della speranza cristiana.
OCCORRE PERVENIRE AD UN ORDINE GIUSTO
PER TUTTI E ALLA VISIONE CRISTIANA
DELLA SOCIETÀ
Molto è già stato fatto in questo senso, ma altro resta ancora da
fare. Le grandi encicliche pontificie hanno alzato voce alta e grave a
tale riguardo; e così quella dei Pastori e dei Maestri e degli
Esponenti del Laicato cattolico. Noi oggi ricordiamo queste
magistrali parole, come quelle in cui risuona l’eco dei nostri testi
liturgici. La Chiesa così onora il lavoro, e cammina anch’essa,
non certo alla retroguardia, sulla via maestra della civiltà del
vostro tempo.
L’altra questione, che sorge spontanea parlando del lavoro, è
quella relativa alla nuova forma, che ha assunto il lavoro moderno, la
forma industriale, quella delle macchine, quella della produzione
massiccia, quella che ha trasformato la nostra società, marcando la
distinzione e l’opposizione delle classi sociali. Che cosa diremo?
si è tanto detto, scritto, operato su questo tema, che non vorremmo
apparire semplicisti nelle Nostre risposte. Ma voi conoscete
l’elementare semplicità di questo Nostro colloquio. La prima
risposta è questa: la Chiesa ammira e incoraggia questa potente
espressione del lavoro moderno: perché mira a moltiplicare i beni
economici in modo che tutti ne possano, in sufficiente misura,
godere; e perché, potenziato dalla macchina, il lavoro è diventato
meno gravoso sulle spalle dell’uomo (cfr. Danusso). Potremmo
anche dire: perché, organizzato com’è, il lavoro moderno produce
nuovi rapporti sociali, nuova solidarietà, nuova amicizia fra chi vi
attende, fra i lavoratori specialmente; e ciò è un bene, se davvero
la solidarietà dell’amore li unisce e conferisce alla società un
tessuto di rapporti umani più compatti e più coscienti, cioè li
associa nella confluenza dapprima delle categorie proprie alle
indispensabili divisioni funzionali del lavoro compresso e organizzato
da compiere, e poi della tutela dei comuni interessi; ma insieme li
forma alla concezione organica della società, che non deve risultare
dall’urto di contrastanti e irriducibili avidità, ma dall’armonia
dialettica della collaborazione ad un ordine giusto per tutti e della
partecipazione ad un bene comune razionalmente distribuito. Speranza
questa ancora in gran parte, ma anche realtà, che va maturandosi là
dove la visione cristiana della società e il concetto sacro della
persona umana, quale soltanto il Vangelo può alla fine definire e
difendere, guadagnano la mentalità del moderno progresso.
NEL NOME DEL FABBRO DI NAZARETH
«SALUTIAMO E BENEDICIAMO TUTTI I
LAVORATORI»
Quante cose avremmo ancora da dire! ma questa risulta quasi da sé:
la religione sta alla radice e sta al vertice del processo che fa
grandeggiare sia il concetto, che la realtà del lavoro. Essa ha una
sua dottrina anche per l’aspetto di fatica e di pena, che il lavoro
non perde mai, e ricordandone l’infelice origine (cfr. Gen. 3,
19), ne rammenta il felice e sublime epilogo, il suo valore
redentivo (cfr. Matt. 5, 6); e quasi l’insegnamento non
bastasse a persuaderci dell’onore e dell’amore che al lavoro umano noi
dobbiamo, essa, la nostra religione, un esempio e un protettore oggi
ci offre, l’umile e grande San Giuseppe, maestro d’opera a quel
Cristo dalle cui mani divine l’opera della creazione e della
redenzione sortì. Veneriamo Giuseppe, il fabbro di Nazareth; e
nel suo nome salutiamo e benediciamo oggi tutti i Lavoratori.
E siccome, in un modo o in un altro, tali siete voi tutti, di cuore
tutti vi benediciamo.
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