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Mercoledì, 23 febbraio 1977
«Voi tutti conoscete - esordisce Paolo VI - i riti e il loro
significato in questo giorno singolare e benedetto in cui comincia la
preparazione alla Santa Pasqua, e sapete quanto questi riti siano
espressivi, tanto che darne anche in questo momento una rapida e fugace
memoria può essere utile a sentirli fecondi, attuali, provvidi e,
Dio voglia, operanti nei nostri spiriti». Nel sottolineare
l’importanza di quella realtà, di quel mistero naturale che si chiama
il tempo, il Papa ricorda una celebre pagina delle «Confessioni» di
Sant’Agostino in cui si prospetta la difficoltà di definire questa
realtà, questa manifestazione del mondo fisico naturale. È una
pagina rimasta celebre anche quando gli studi successivi hanno dato
nuove definizioni del tempo e della relazione fra tempo e spazio.
Ma il tempo per noi è degno di particolare considerazione perché lo
troviamo nella Bibbia e nel Vangelo. Il Signore ripete molte volte
«Questa è l’ora», «Questa non è ancora l’ora», «Viene
l’ora» e così via. Gesù vive calcolando gli eventi della sua
presenza nel mondo nella misura di un tempo che egli solo conosce e
determina. Noi abbiamo l’abitudine di parlare del tempo come di una
estensione, la storia, che consideriamo ancora come una realtà
presente e vivente. Ma Sant’Agostino dice: il momento precedente a
questo, il passato, non esiste più. Il momento successivo a questo
non esiste ancora. Noi viviamo in questo attimo fuggente, in questo
momento solo, e il resto è nulla e non ritorna più. Questa
irrevocabilità della corsa del tempo, del succedersi degli avvenimenti
dovrebbe veramente impressionarci; siamo abituati invece a considerare
globalmente le realtà che ci circondano, la storia che si svolge
intorno a noi, a prevedere gli avvenimenti e quasi a conferire ad essi
una realtà che non hanno, mentre a pensarci bene noi viviamo in questo
attimo fuggente che corre e che porta via la nostra esistenza. Essa è
collegata a questa nostra permanenza passeggera e fugace in quella
realtà difficilmente definibile che si chiama il tempo.
«Noi abbiamo bisogno del tempo - dice il Papa - come della cosa
più preziosa di cui possiamo fruire. E il dono grande del Signore,
la vita, che cos’è se non il tempo che il Signore ci ha dato da
godere? È una vita che non ritorna, che passa, che fugge, e che
dovrebbe essere piena di opere buone, di pensieri alti e di azioni tali
da trasfigurarla in un volo spirituale, mentre invece la calcoliamo con
il metro, con le misure delle cose passeggere e diamo alla nostra
coscienza, alla nostra maniera di pensare una irrealtà. Viviamo
nella fantasia del tempo che era e del tempo che sarà credendo che
questa sia l’immagine reale della nostra esistenza mentre la nostra
esistenza è fugace ma quanto mai preziosa».
Il rito delle Ceneri ci ricorda la fugacità, la precarietà, la
nullità della nostra vita presente e nello stesso tempo la sua
preziosità. Dobbiamo afferrare il momento perché non ritorna più.
È la sola disponibilità di beni che abbiamo; in un istante possiamo
decidere del nostro destino che va oltre i secoli, per l’eternità.
Ed ecco che appare chiara la preziosità enorme del vivere in
vigilanza, in attenzione, in intensità, in propositi continui
perché il corso dei nostri atti e degli avvenimenti della nostra vita
possa essere coerente col grande disegno che il Signore vi ha
sovrapposto, quello del nostro rapporto di creature così deboli,
così fugaci, con l’eternità, con la pienezza dell’esistenza alla
quale il Signore ci invita e ci ha destinati. Guardiamo di non vivere
nell’illusione - ammonisce il Papa -. La mentalità degli uomini
in gran parte è tutta assorbita dall’illusione che siano valori, che
siano cose davvero degne di essere conquistate e vissute quelle che noi
adoperiamo, e viviamo, e cerchiamo, mentre a ben guardare non hanno
nessun valore. Forse ci possono essere anche nemiche, perché
fugacemente ma perdutamente ne abbiamo fatto un uso illecito o non
approvato dalla legge di Dio.
«Questo pensiero della rapacità del tempo che divora la nostra vita e
la incenerisce - dice il Santo Padre - dovrebbe essere il nostro
pensiero dominante. Guardiamo di non sopravvalutare le cose che
passano nella scena fugace della nostra vita presente; guardiamo invece
di cercare in questa stessa vita presente, in questa scena fugace i
valori più validi quelli che restano per l’eternità».
Quid hoc ad aeternitatem? insegna Sant’Ignazio. A cosa serve
questo per l’eternità? Il metro della nostra considerazione, del
nostro giudizio dovrebbe essere proprio questo. In proposito, il
Papa richiama alla memoria la figura del Principe di Machiavelli.
Questo famoso personaggio aveva tutto pensato, tutto provveduto,
tutto calcolato, eccetto una cosa, che doveva morire. E la sua vita
fu, come si sa, rapidamente stroncata, e tutto il grande disegno di
creare una forza politica ed una espressione nazionale fuori della
storia, fuori del tempo andò in fumo. Paolo VI richiama inoltre
alla memoria un altro personaggio storico vissuto mezzo secolo dopo, il
quale nella stessa visione della fugacità delle cose trovò la sua
salvezza. Si tratta di Francesco Borgia, che era alla corte di
Spagna quando morì l’imperatrice Isabella. Incaricato di
verificare la salma, restò così impressionato dalla corruzione di
quel povero corpo ormai divorato dalla morte che sentì come la sua
stessa vita sarebbe stata così consumata. Sentì la fugacità e
quindi la falsità delle cose, e diventò poco tempo dopo, passando di
fase in fase, figlio della Compagnia di Gesù, figlio di
Sant’Ignazio. E fu lui a donare a Roma la Chiesa del Gesù,
come terzo successore di Sant’Ignazio. La visione della fugacità
delle cose fu per lui una lezione che portò alla ricerca delle cose che
restano e delle cose che valgono.
«Che cosa dobbiamo fare - prosegue il Papa - di questo tempo che
fugge, che trascina e divora le realtà cui crediamo di poter affidare
il nostro cuore? È qui ancora il Vangelo che parla: Convertitevi.
È la metanoia. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità. Gesù lo
ripete due volte al principio della sua predicazione: Convertitevi,
convertitevi, perché viene il regno di Dio. Convertirsi vuol dire
modificare la nostra mentalità, non fissarla nelle cose fugaci e false
ma in valori e in beni che restano, in azioni che valgono per
l’eternità. Guardiamo di convertirci e di fare di questa vita una
preparazione alla celebrazione pasquale anzitutto, e poi alla Pasqua
eterna, quella del nostro incontro con Dio, con Cristo, con lo
Spirito in cui siamo stati battezzati e in cui speriamo di poter vivere
per l’eternità».
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