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Lunedì, 24 gennaio 1972
Si interrompe per un istante la nostra conversazione con Dio per
diventare conversazione con la «Ecclesia», con l’assemblea qui
raccolta, con voi, Fratelli, qui presenti, quasi per avere
reciproca assicurazione che vogliamo adempire la ben nota parola
evangelica d’essere radunati nel nome di Cristo e d’aver perciò
Lui, Lui stesso, Cristo nostro Signore, in mezzo a noi (Cfr.
Matth. 18, 20). Cristo è qui. Onoriamo questa sua
presenza. Celebriamo questo mistero, risultante dal fatto stesso che
la ragione della nostra riunione è la confessione del suo nome, non
solo riconosciuto e invocato fuori di noi, ma avvertito nella sua
interiore attribuzione a ciascuno di noi: siamo tutti cristiani, siamo
stati inseriti, mediante il battesimo, nel Corpo mistico di Cristo,
che è la sua Chiesa (Cfr. Const. Sacrosanctum Concilium, 6 e
7; Const. Lumen Gentium, 15; Decr. Unitatis redintegratio,
2-3), tutti siamo diventati figli di Dio, l’ineffabile Padre
nostro celeste, tutti abbiamo fede in Lui, Cristo Signore, e tutti
attendiamo da Lui d’essere perdonati, redenti e salvati, nello
stesso Spirito Santo vivificante e santificante. Ecco qui già
costituita la base di quella unità ecumenica, che andiamo
appassionatamente cercando.
Perché ecumenica è l’intenzione di questa cerimonia, predisposta
per cogliere e salutare fra noi un eminente rappresentante della
venerabile Chiesa Ortodossa, il Metropolita Melitone di
Calcedonia, a noi mandato da Sua Santità il Patriarca Atenagora
di Costantinopoli, piissimo e a noi carissimo, per recarci, come
sapete il «Tomos agápis», il volume della carità, che raccoglie
la documentazione e la corrispondenza circa i rapporti intercorsi negli
ultimi dodici anni fra il Patriarcato di Costantinopoli e la Chiesa
di Roma, giubilanti d’essersi riscoperti rami d’uno stesso albero,
nato da una stessa radice, ora sofferenti di non avere ancora potuto
insieme consumare, bevendo al medesimo mistico calice, quella perfetta
comunione, la quale sancisca fra le due comunità l’unione organica e
canonica propria dell’unica Chiesa di Cristo.
Con gaudio profondo e con devozione sincera noi salutiamo questo
Ospite illustre e venerato, con le onorevoli persone del suo seguito,
qui, oggi, fra noi, portatore d’un libro, che la storia farà suo.
Ospite non forestiero della Sede apostolica e con la sua presenza ora
fatto lui stesso segno, auspicio, promessa dell’attesa, felice
celebrazione della completa comunione nella fede e nella carità di
quanti già cento e cento volte, come il libro documenta, si sono
dichiarati fratelli. E pare a noi che il titolo stesso, che qualifica
l’insigne Metropolita della Chiesa Ortodossa, il titolo di
Calcedonia, renda particolarmente cara e significativa questa sua
visita per la Chiesa di Roma, riportando il pensiero al nostro
immortale predecessore, San Leone Magno (Cfr.
DENZ.-SCH. 300-302), che, mediante la sua lettera a
Flaviano, favorì autorevolmente la definizione cristologica del
celeberrimo Concilio Calcedonense, il quale affratellò Roma e
Costantinopoli in una medesima fede definitiva e felicissima, circa
l’unica Persona divina e la duplice natura divina ed umana di
Cristo.
Chi dunque meglio di Lei, eminente Metropolita Melitone, può
portare al Patriarca Atenagora il nostro ringraziamento per la
missione di pietà, di cortesia e di pace a Lei affidata? Voglia
Ella dire al venerando Vegliardo che tale missione, qui, nella
sacrosanta Basilica Lateranense, presenti Cardinali, Vescovi,
Prelati e Clero della Curia e della Diocesi di Roma col Popolo
fedele della Chiesa Romana, ha avuto il suo solenne e sacro
coronamento. Voglia Ella riferire come noi abbiamo insieme compiuto
con intensità religiosa un atto pio e cosciente di quell’«ecumenismo
spirituale», al quale ci ha esortati il recente Concilio Vaticano
secondo (Decr. Unitatis redintegratio, 8), perché non solo
abbiamo pregato per i Fratelli con i quali desideriamo essere in
perfetta comunione, ma con grande letizia nello Spirito Santo tutti
abbiamo pregato con loro!
E voglia anche dire, veneratissimo Metropolita Melitone, a quel
santo Patriarca ed ai venerati Fratelli e Fedeli, che intorno a lui
si raccolgono, come questa fausta celebrazione, avvenuta nella
Chiesa, che la tradizione della Chiesa d’Occidente, storica e
teologica, chiama omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput
(Clemente XII) per essere la Cattedrale del Vescovo di Roma,
successore del beato Pietro Apostolo, lungi dal lusingare la nostra
umana ambizione per l’ufficio pastorale, affidato da Cristo a chi
siede su questa cattedra di fungere quale «perpetuo e visibile
principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della
moltitudine dei Fedeli» (Const. Lumen Gentium, 23),
profondamente ci ha personalmente richiamato alla coscienza di questo
nostro grave privilegio. Qui noi, più che altrove, ci sentiamo
«servo dei servi di Dio». Qui noi ci pensiamo fratello con i nostri
fratelli nell’Episcopato e con loro collegialmente solidali. Qui noi
pensiamo al proposito d’un altro grande predecessore, Gregorio
Magno, il quale, pur asserendo la sua funzione apostolica (Cfr.
Regist. 13, 50), voleva considerare suo proprio onore l’onore
di tutta la Chiesa e l’efficienza dei singoli Vescovi locali (Cfr.
Reg. 8, 30; PL 77, 933); qui noi ricordiamo la
concezione dell’unità della Chiesa, propria di San Cipriano: una
Ecclesia per totum mundum in multa membra divisa (Ep. 36, 4),
cioè come un corpo composito e articolato, in cui parti e gruppi
possono essere modellati in forme tipiche particolari, e dove
distinte, se pur fraterne e convergenti, possono essere le funzioni.
Qui, nel cuore dell’unità e al centro della cattolicità, noi
sogniamo la bellezza vivente della Sposa di Cristo, la Chiesa,
ravvolta nel suo variopinto abbigliamento (Ps. 44, 15),
rivestita, vogliamo dire, da un legittimo pluralismo di espressioni
tradizionali. Qui sembra allora a noi d’udire la limpida eco d’una
vostra voce lontana:
Пέτρε
τής
Пίστεως
η
Пέτρα «Oh
tu, Pietro, pietra base della fede!» (Cfr. Menei, V,
394).
Così che a noi resta d’invocare quella divina assistenza, che
conforti la nostra debolezza a praticare le virtù necessarie affinché
l’ecumenismo iniziato possa giungere alla sua felice conclusione.
Diremo con S. Paolo «d’essere fiduciosi appunto in questo, che
Colui che ha cominciato in “noi” l’opera buona, Egli la porterà a
buon fine» (Phil. 1, 6), convinti che al compimento della
grande impresa della ricomposizione dell’unità dei Cristiani una
condizione da noi tutti sarà necessariamente richiesta, una
dilatazione della carità: «Dilatentur spatia caritatis», si
allarghino i confini dell’amore, noi diremo, per usare
un’espressione a noi cara di S. Agostino (Serm. 69; PL
38, 440-441). Una dilatazione della carità: che a noi
tutti consenta di ritrovarci affratellati in una medesima Chiesa,
membra di un medesimo corpo di Cristo. Aggiungeremo allora al Tomos
agápis una nuova, ultima e splendida pagina: quella dell’unità.
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