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Mercoledì delle Ceneri, 7 marzo 1973
Quaresima. Figli carissimi! Voi sapete tutto. Si tratta d’un
ciclo di sei settimane di particolare intensità spirituale,
caratterizzata dalla conversione di se stessi, dalla penitenza,
dall’espiazione delle proprie colpe e anche da quella altrui, dal
digiuno esteriore ormai ridotto al minimo ed interiore che invece rimane
esigente e che dovrebbe da ciascuno essere un po’ precisato e
commisurato sui propri bisogni e un po’ intensificato; e
caratterizzata questa intensità spirituale della quaresima specialmente
dalla preghiera, quale la Chiesa arricchisce di testi, di
espressioni, di sentimenti, così da farne un poema di commozione, di
bellezza e di tensione verso un colloquio con Dio, un dramma in cui
s’intreccia la storia della miseria umana con la tragedia del
sacrificio di Cristo per la nostra redenzione; insomma un incontro
finalmente con i sacramenti del suo amore e della sua grazia, causa
della nostra riabilitazione e della nostra salvezza. In nessun altro
periodo come in questo quaresimale vengono in gioco, con la consueta
sproporzione, i due fattori di tale nostra salvezza, la misericordia
di Dio, con la sua arte misteriosa d’entrare nei nostri spiriti dalle
psicologie tanto complicate e personali, e di operare ciò che Lui
solo può, cioè ridare la vera sua vita, dove il peccato ne ha
interrotto la circolazione; e l’altro fattore, il nostro, per scarso
e imperfetto che sia, però indispensabile specialmente per la
efficacia di questo forte e complesso esercizio quaresimale, è, come
sapete, la nostra volontà, la nostra risoluta volontà.
Ora fermiamoci a questo secondo fattore, procurando di persuaderci
della prevalente rilevanza che la volontà assume nella vita religiosa
della Quaresima. Essa si classifica preferibilmente nella categoria
dell’attività ascetica; dopo la Pasqua l’attenzione mistica potrà
meglio assorbire le nostre facoltà spirituali. Ora lo sforzo ascetico
reclama il nostro impegno; un impegno attivo, premuroso, generoso.
Il gaudio pasquale ci indurrà domani ad un atteggiamento piuttosto
passivo, di contemplazione, di godimento. Ma oggi occorre che la
volontà sia vigile, in stato d’azione, d’esigenza, di desiderio,
e forse di deliberazione, di decisione.
Ora il discorso si fa difficile. Ma per voi tutti, cristiani
coscienti quali siete, interessantissimo. Perché si fa autentico,
si fa evangelico. Evangelico e paradossale, qual è un messaggio di
vita nuova e divina; quale è il Vangelo. Infatti esso si enuncia in
termini che rinnegano una forma di vita, una certa vita; e
precisamente la nostra disordinata ed egoista, la nostra propria vita
personale, ma terrena e presente. Dice infatti Cristo, il
Signore, il Maestro: «Se qualcuno vuole venire dietro a me,
rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi
vorrà salvare la propria vita, la perderà; chi invece avrà perduto
la sua vita per amor mio la ritroverà. Che cosa giova mai all’uomo
guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima? o che cosa darà un
uomo in cambio dell’anima sua?» (Matth. 16, 24-26). E
che questo sia un pensiero fondamentale nell’insegnamento di Cristo
per la formazione dei suoi seguaci lo possiamo facilmente dedurre dalla
ripetizione che Cristo ne fa, e sempre in accenti categorici e
patetici. Dice infatti ancora, ad esempio, Gesù: «In verità,
in verità vi dico che se il grano di frumento, caduto in terra, non
muore, resta solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la
propria vita, la perderà, e chi odia la vita in questo mondo, la
conserverà per la vita eterna. Chi mi vuol servire, mi segua,
perché dove sarò io, quivi sarà anche il mio servo» (Io. 12,
24-26).
Discorso difficile, anche perché esso non tende ad una conquista, ma
ad una rinuncia. Gesù predica l’abnegazione, la rinuncia che il suo
discepolo deve fare a se stesso. Non soltanto, commenta S.
Gregorio, la rinuncia alle proprie cose esteriori, ma la rinuncia
alla propria interiore autonomia (Hom. 32 in Ev.: PL 76,
1232), quando questa rifugge dall’ossequio dovuto a Dio e si
chiude nel proprio egoismo, e quando si fa l’idolo di se stessa. Ed
è più dura l’abnegazione di sé, che la lotta per l’esaltazione di
sé. Ma è anche più felice: ricordiamo il discorso delle
beatitudini. Questa è la penitenza, questo è il Vangelo.
Dovremmo insinuare qui due osservazioni, per non essere fraintesi.
La prima ci deve stimolare a scoprire come questa severa pedagogia
verso la nostra stessa personalità non ci distolga dal riconoscere i
valori buoni del mondo esteriore, e non ci dispensi dai doveri della
nostra vita nel tempo (Cfr. Gaudium et Spes, 4); la seconda
osservazione ci ricorda che l’abnegazione cristiana, la
mortificazione, la penitenza non sono forme di debolezza, non sono
«complessi d’inferiorità», ma, scaturite dalla grazia e dallo
sforzo della volontà, sono piuttosto forme di personale fortezza.
Esse ci educano alla valutazione trascendente del nostro operare: «se
non farete penitenza, dice il Signore, voi .., perirete tutti»
(Luc. 13, 5): peccatori come siamo, siamo debitori di qualche
espiazione: e poi esse ci allenano alla padronanza di noi stessi; esse
danno unità ed equilibrio alle nostre facoltà; esse fanno prevalere
lo spirito su la carne, la ragione su le fantasie, la volontà sugli
istinti; esse inducono nel nostro essere una esigenza di pienezza e di
perfezione, che talvolta possiamo chiamare santità. Dove è rigore
ivi è vigore.
Noi vogliamo credere che voi, figli e figlie della Chiesa che ci
ascoltate, voi, specialmente, che avete ad onore di professarne la
spirituale milizia della fede, sappiate comprendere quale figura di
uomo risulti dalla disciplina dell’ascetica cristiana: risulta l’uomo
vero, l’uomo forte, l’uomo libero, l’uomo seguace di Cristo,
l’uomo operante in virtù del suo Spirito. Si dirà forse da
alcuni, sedotti da certe correnti amorali dei nostri giorni, che
questo non può essere programma del figlio del secolo nostro, a cui si
propone, con le blandizie della liberazione, di ritrovare finalmente
se stesso abbandonandosi alla via larga e precipitosa della così detta
«moralità permissiva»; il che comporta una conversione a rovescio,
per certi versi non meno ardua della conversione verso il fine
connaturale del nostro essere; comporta estirpare dalle profonde radici
della coscienza il senso del peccato, cioè della nostra
responsabilità verso il Dio vivente e veggente; comporta umiliare nel
nostro virile giudizio il senso del dovere e della legge giusta;
comporta attutire nella nostra superiore sensibilità un altro senso,
quello del bene e del male, e lasciare che il proprio essere sia in
balia degli impulsi sensibili e degli istinti ciechi, anche se ciò sia
evidentemente turpe e disonesto. Codesta è bassezza; codesta è
viltà. Non libertà. Lo sanno gli atleti dello sport; lo dovranno
dimenticare gli atleti dello spirito?
Ascoltiamo ciò che San Paolo scrive ai Romani: «Gettiamo via
l’opera delle tenebre, rivestiamo le armi della luce» (13,
12). Non ci dispiaccia imporre a noi stessi qualche maggiore
vigilanza, qualche astinenza da cose vane o tentatrici, qualche
salutare e proficua severità in quelle piccole cose che rendono gli
animi atti ad osare, all’occorrenza, cose grandi. Questa è la
palestra della quaresima, a tutti accessibile, all’insegna modesta
della quotidiana pratica della abnegazione, alla luce folgorante della
grande legge evangelica del morire per vivere, la legge del
sacrificio, la legge della Croce.
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