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Festa di San Giuseppe
Martedì, 19 marzo 1968
«UNA CHIESA UNITA E DISCIPLINATA,
MILITANTE PER IL REGNO DI DIO»
Fratelli e Figli carissimi del Pellegrinaggio Piemontese!
Noi apriamo il cuore al più devoto, al più paterno, al più
cordiale saluto! Siate i benvenuti! Numero e qualità qui si dànno
la mano. Non mai, Noi crediamo, un simile Pellegrinaggio, così
numeroso, così cospicuo, così religioso, così rappresentativo,
così promettente d’ogni buon frutto spirituale, è confluito dalla
gloriosa e benedetta terra del Piemonte a Roma, per dare saggio
dell’unità morale e cristiana che fa compatta e solidale la gente
della celebre regione, per professare la propria fede cattolica, per
venerare le tombe auguste dei due Corifei della Chiesa, i Santi
Apostoli Pietro e Paolo, del martirio dei quali quest’anno
celebriamo il decimonono centenario, per incontrare il Papa e ricevere
la Sua Benedizione. È un epilogo cotesto Pellegrinaggio d’una
secolare tradizione religiosa, della quale il Popolo Piemontese sente
impresse nella sua anima e nel suo costume le magnifiche e feconde
vestigia; è un prologo cotesto Pellegrinaggio, che certo può aprire
una storia nuova, quella d’una non facile, ma necessaria e felice
simbiosi della vita cristiana autentica e viva con la vita moderna
estremamente innovatrice ed allettante. Forse perciò è un momento
storico: abbiamo presente, accanto alla cattedra di San Pietro e
sulla tomba di lui, sopra la pietra cioè sulla quale è fondata la
Chiesa di Gesù Cristo, Noi abbiamo presente storicamente il
Piemonte religioso di ieri, attualmente quello di oggi, e
profeticamente quello di domani. Vorremmo, Fratelli e Figli
carissimi, passarvi in rassegna, salutarvi ad uno ad uno, tanquam
acies odinata, come un esercito schierato; il nostro spirito d’ordine
e di fortezza Ci richiama alla mente questa immagine, quella d’una
Chiesa unita e disciplinata, militante per il regno di Dio.
FERVIDO SALUTO ALLA GERARCHIA DI
NOBILISSIMA REGIONE
Lasciate che la Nostra chiamata nominale, una per tutti, si rivolga
al Pastore della Chiesa di Torino, il Cardinale Arcivescovo
Michele Pellegrino, e che nella sua persona di direttore di questo
Pellegrinaggio Noi ringraziamo lui e voi tutti di questa graditissima
visita. Verrebbero alle Nostre labbra tanti meritati elogi sul
presente successore di San Massimo, sulla sua spiritualità,
imbevuta della sapienza e della pietà dei Padri della Chiesa, sulla
sua cultura, sulla sua autorità di docente universitario, sul suo
zelo di maestro e di pastore; ma non vogliamo ora turbare la sua
modestia; basti a voi sapere, Torinesi, a voi Piemontesi, che
abbiamo per l’Arcivescovo di Torino grandissima stima, venerazione
profonda e, se il cuore non falla, un’intima comunione spirituale.
Il Nostro riverente saluto e il Nostro augurio onomastico va pure al
Signor Cardinale Giuseppe Beltrami, romano oramai ma piemontese
d’origine, di Fossano, il quale ha ben voluto associarsi al
Pellegrinaggio della sua regione.
E poi, ecco i Vescovi delle diciotto Diocesi piemontesi: qui è
l'Arcivescovo di Vercelli, che Ci fa ricordare Eusebio e
Ambrogio; qui l’Arcivescovo-Vescovo di Mondovì, che Roma ha
ceduto alla bella diocesi omonima; qui è il Vescovo di Novara, che
Noi avemmo confratello nella Conferenza Episcopale lombarda; qui è
il Vescovo di Alessandria, che la città d’origine e una lunga
consuetudine di amichevoli rapporti Ci obbligano a segnalare; qui sono
i Vescovi di Casale, di Biella, di Ivrea, di Pinerolo, di
Susa, di Acqui, con i quali, non da oggi, Noi avemmo occasione di
frequenti ed utili incontri; e sono qui gli altri Vescovi
Piemontesi, che veneriamo con non minore devota cordialità. Tutti
venerati Fratelli, siate da Noi salutati, come c’insegnano Pietro
(2 Petr. 5, 14) e Paolo (Rom. 16, 16), in osculo
sancto.
Né vogliamo omettere di porgere il Nostro rispettoso saluto a quanti
qui sono rivestiti d’autorità; sentiamo anzi l’obbligo di dire loro
quanto apprezziamo la loro presenza a questo religioso appuntamento, e
quanti voti speciali Noi per loro riserviamo. Così diciamo per le
Autorità civili, e per gli Ecclesiastici rivestiti di particolare
dignità, o investiti di particolari responsabilità.
I DONI DELLA FEDE ALLA NOSTRA VITA E
LIBERTÀ
Ed estendiamo a tutti i cari Sacerdoti, i Religiosi, le
Religiose, a tutto il Laicato cattolico Piemontese il Nostro
benedicente saluto.
Ed ora, che cosa dirvi? Abbiamo l’animo riboccante di cose, che
Ci darebbero temi per lunghi discorsi. Ma dobbiamo limitarci a
semplicissime e brevissime parole, che vogliamo pur proferire per non
perdere l’occasione della presenza d’un uditorio d’eccezione, quale
voi siete. E valgano le poche parole che stiamo per dire, anche per
gli altri gruppi di visitatori qui assistenti.
Vi invitiamo a concentrare la vostra riflessione sopra due domande.
La prima: che cosa possiamo avere dalla fede? Che cosa ci dà?
Suppone questa domanda la mentalità caratteristica del nostro tempo,
la quale si svolge sopra un piano utilitarista. Si parla sempre di
valori. Ciò che vale determina la nostra psicologia moderna
maggiormente di ciò che esiste, e che forse, com’è nella sfera
religiosa, ha sopra di noi esigenze, le quali meriterebbero per prime
d’essere considerate, anche in vista dei nostri superiori interessi.
A che cosa serve la fede?
Voi sapete quanto siano precipitose e negative le risposte che tanta
gente oggi dà ad una simile questione. Con semplicismo disastroso si
risponde da alcuni: non serve a nulla. Con raziocinio ancora più
dannoso si risponde da altri (e quanti sono!): la fede, non solo
non serve all’uomo moderno, ma inceppa la sua liberazione, frena la
sua ricerca scientifica, obbliga a riguardi con un passato, che si
vuole dimenticare e sommergere, vincola a pratiche rituali
incomprensibili ed inutili, eccetera. Non è questo il modo di
pensare di molti ceti di persone, sia del mondo del lavoro, che di
quello della cultura, o degli affari? Pur troppo, sì. Ma è
ragionevole questa mentalità? Perché non credere? Qui sorgerebbe
un grave e delicatissimo problema, quello sulla natura della fede,
sulla sua genesi e sul suo lato più misterioso, anche se è il più
bello; e cioè: la fede è un dono di Dio; si svolge perciò nel
gioco di due libertà: quella altissima di Dio, e quella nostra
personale; e basta l’accenno a questo aspetto della fede per curvare
umilmente la fronte ripensando alla parola di San Paolo: pur troppo
«non tutti danno retta al Vangelo» (Rom. 10, 16).
LA NOSTRA RISPOSTA AL MOMENTO DEL
BATTESIMO
La fede sarebbe per tutti, ma non tutti l’accolgono. Ma tenuto
conto di questa possibilità tristissima, che la fede sia respinta,
possiamo francamente sostenere un giudizio di valore su la fede: a che
cosa serve la fede, che cosa ci dà? Ricordate, Fratelli e Figli
carissimi, la risposta che ciascuno di noi, appressandoci al santo
battesimo, ha dato al ministro che appunto ci domandava: «La fede,
che cosa ti dà?». «La vita eterna», questa fu la risposta. E
se questa risposta è vera, come lo è, quale bene maggiore, quale
bene più desiderabile, può essere promesso alla fede? Qui gli
apologisti dovrebbero parlare, e dirci quale somma di beni, non solo
nella vita eterna, ma nella vita terrena altresì, ci sono elargiti
con la fede, dalla fede. Lasciamo al vostro studio questo bilancio.
Basti dire che la fede assicura all’uomo quella fiducia nel pensiero,
nella verità, che la mente umana, lasciata a se stessa, dopo d’aver
accusato la fede d’illogicità, non trova più in se stessa. La fede
è la luce della vita, e se non è suo compito risolvere i problemi
della speculazione scientifica e filosofica, non ne intralcia tuttavia
la soluzione razionale, la conforta bensì con la certezza dei suoi
superiori insegnamenti. La fede è il conforto della vita; e quale
sarebbe l’atteggiamento dell’uomo davanti ai sommi quesiti del nostro
destino, se la fede non ci trattenesse dalla follia o dalla
disperazione?
PROSEGUIRE CON LE OPERE UNA SPLENDIDA
APOLOGIA
Riaccendiamo, Fratelli e Figli carissimi, qui, sulla tomba
dell’Apostolo, la lampada languente o spenta della nostra fede,
sicuri finalmente del rapporto stabilito da Cristo fra la sua parola e
la vita: chi crede, vivrà (cfr. Io. 6, 47).
E riflettete ora sopra la seconda domanda: che cosa possiamo noi dare
alla fede? Avere e dare: il nostro bilancio sulla fede si fonda su
questi termini. Ma quali termini immensi! Se non ci è possibile
fare il calcolo dei benefici che dalla fede riceviamo, ci è difficile
fare il calcolo dei doveri che alla fede ci obbligano. Fortunatamente
voi li conoscete e già li adempite. Si riassumono nella notissima
sentenza dell’Apostolo Paolo: «L’uomo giusto vive di fede»
(Gal. 3, 11). Notate: di fede, non semplicemente con la
fede. Cioè il credente deve derivare dalla sua fede i principi
ispiratori della sua vita.
La fede bisogna quindi conoscerla ed assorbirla in un processo di
continua osmosi spirituale; essa deve imprimere alla personalità che
la possiede un’autenticità caratteristica, quella appunto del
fedele, che dopo essersi imbevuto della certezza, della bellezza,
della profondità, della forza normativa della fede, la esprime, la
professa, la testimonia, la difende, la vive.
Come sembra consona a Noi questa lezione per voi, Piemontesi, che
alla fede, specialmente nell’ultimo secolo, avete dato l’apologia
meravigliosa dei vostri Santi, delle vostre istituzioni sociali e
caritative, della serietà, della positività, vorremmo dire, del
vostro peculiare carattere! Non resta altro a Noi da dire, se non
questo: continuate Piemontesi, nella illustrazione della vostra fede
con la sincerità dei vostri animi e con la bontà delle vostre opere.
Solo ancora vi diremo che occorre oggi, per perseverare, uno sforzo,
personale e comunitario; e che di questo vostro sforzo morale e
spirituale ha bisogno la nostra terra fortunata, ha bisogno
l’Italia, ha bisogno la Chiesa. Noi ve lo chiediamo nella letizia
di questo incontro, nella fiducia che la vostra bontà non ce lo
lascerà mancare, e lo incoraggiamo e lo premiamo con la Nostra
Benedizione Apostolica.
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