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Giovedì, 30 settembre 1971
«Gratias vobis et pax a Deo Patre nostro et Domino Iesu
Cristo»! (Rom. 1, 7; 1 Cor. 1, 3) Con le parole
dell’Apostolo Paolo noi vi salutiamo e vi accogliamo a questo
Sinodo, sul quale si concentrano l’attenzione e la speranza della
santa Chiesa di Dio, ed insieme non poco interesse del mondo.
Vi salutiamo e vi accogliamo con cuore fraterno ed aperto, subito
fondendo la nostra con la vostra preghiera: ogni nostra azione deve
così cominciare, a Dio offrendo il nostro culto filiale e da Lui
implorando la sua provvida e misericordiosa assistenza. Vi salutiamo e
vi accogliamo in questa aula sacra c storica, quant’altre mai
rievocatrice nelle sue bibliche immagini dei destini supremi
dell’umanità e nei suoi più gravi convegni per le scelte decisive del
Pontificato Romano; e vi salutiamo e vi accogliamo in questa ora
densa di questioni assai importanti circa il Sacerdozio ministeriale e
circa la Giustizia da promuovere nel mondo; e in questa nuova forma
sinodale, che dal recente Concilio ecumenico deriva il suo spirito e
la sua legge, così che possiamo dire essere qui canonicamente
rappresentata e spiritualmente presente tutta la Chiesa cattolica.
Ed ecco che a rendere più evidente e più commovente questa universale
presenza è fra noi, giunto in questi giorni a Roma dopo tanti anni di
non libera assenza, il venerato Fratello nostro, il Signor
Cardinale Jozsef Mindszenty, Arcivescovo di Esztergom, in
Ungheria, desideratissimo nostro Ospite, e oggi associato a questa
nostra religiosa celebrazione, quasi glorioso testimonio della unione
millenaria della Chiesa Magiara con questa Sede Apostolica, quasi
simbolo del vincolo spirituale che sempre tutti ci stringe ai Fratelli
impediti d’avere con gli altri Fratelli e con noi normali rapporti, e
quale esempio di intrepida fermezza nella fede e di infaticabile
servizio alla Chiesa, con l’opera generosa dapprima, e poi con un
vigile amore, con la preghiera e con la prolungata sofferenza.
Benediciamo il Signore, e diamo all’esule ed insigne Pastore, il
nostro comune, riverente e cordiale benvenuto, in nomine Domini.
Ma ora il nostro pensiero, lasciando ogni altro, si concentra sul
rito, sempre augusto e misterioso, che stiamo fraternamente
celebrando. È la santa Messa, che celebriamo con i Presuli, ai
quali noi abbiamo affidato di presiedere ai lavori del Sinodo, che
oggi è inaugurato. È la santa Messa, la cena memoriale e
sacrificale da Cristo stesso istituita per stabilire, nel modo più
pieno e più corroborante a noi concesso durante il nostro viaggio nel
tempo, la duplice comunione da Lui voluta ed instaurata: la comunione
con Cristo medesimo e la comunione fra noi commensali a questo mistico
convito. È infatti l’Eucaristia il «sacramento dell’unità»,
così che la partecipazione che noi celebriamo a tanto sacramento è
l’atto più unitivo della nostra vita con Cristo e con quanti insieme
abbiamo la fortuna di mangiare dello stesso pane, che lo figura e lo
contiene.
Noi vorremmo che di questa duplice comunione, con Cristo nostro Capo
e nostro Salvatore, e fra noi suoi seguaci e suoi ministri, noi
avessimo, durante il Sinodo, non soltanto un abituale ricordo, come
sempre ci è richiesto, celebrando il santissimo rito, ma altresì
qualche interiore e vivace esperienza, traducendo in noi stessi le
parole dell’Apostolo: «Si qua ergo consolatio in Christo, si quod
solacium caritatis, si qua societas spiritus, si qua viscera
miserationis, implete gaudium meum ut idem sapiatis, eandem caritatem
habentes, unanimes, idipsum sapientes, nihil per contentionem, neque
per inanem gloriam, sed in humilitate superiores sibi invicem
arbitrantes, non quae sua sunt singuli considerantes, sed ea quae
aliorum» (Phil. 2, 1-4). Così che il bene comune e supremo
della Chiesa, e quello dell’umanità in cui si svolge la sua
missione, sia in quest’ora intensa e importante non soltanto la nostra
aspirazione, ma altresì il nostro conforto e il nostro gaudio, nel
cercarne il presagio e la realtà nella presente convocazione sinodale.
La quale si apre con questa celebrazione, e noi tutti sappiamo
perché: da Dio Padre nostro deriva ogni nostro vitale principio,
mediante Cristo Figlio di Dio vivo e Figlio dell’uomo, nostro
unico e sommo Capo, invisibile, ma qui presente (Cfr. Matth.
18, 20), Maestro e Redentore nostro, autore della nostra
salvezza, che consiste nell’animazione dello Spirito Santo, infusa
in ciascuno di noi e nell’intero Corpo mistico di Cristo, che è la
Chiesa. Noi attendiamo, noi invochiamo questa operazione illuminante
e santificante del Paraclito. L’assistenza dello Spirito di Cristo
ci è necessaria particolarmente in quest’ora importante per la vita
della Chiesa, per la nostra vita.
Prima d’ogni altro problema, questo ci interessa.
Come possiamo ottenere questa assistenza? con la fede e con
l’orazione. Non occorre che noi vi diciamo molte parole circa
l’esigenza da parte nostra di questi indispensabili requisiti. Voi
ben sapete come la fede è l’inizio dell’umana salvezza, e come senza
la fede è impossibile piacere a Dio (Cfr. DENZ.-
SCHON., 1532, 3008), e come non è frettolosa diagnosi
dei disagi che affliggono la vita della Chiesa, e delle tristi
condizioni spirituali della società, quella che ne ricerca la causa
originaria e precipua in una varia ma unica crisi di fede. Dobbiamo
dunque interiormente riconfermare la nostra accettazione convinta e
lieta della divina rivelazione con un grande atto di fede; dobbiamo
metterci davanti a Dio e a Cristo nell’atteggiamento di umiltà e di
attesa fiduciosa proprie del credente, se vogliamo che lo Spirito ci
parli nei cuori e ci conceda i carismi confacenti a chi esercita
funzioni responsabili nella guida della Chiesa: la scienza, il
consiglio, l’intelligenza, la sapienza specialmente, la carità
soprattutto.
A questo stato d’animo di disponibilità, passiva, potremmo dire,
uno stato d’animo di disponibilità attiva noi dobbiamo congiungere e
rianimare senza posa: è l’orazione, che il Signore tanto ha
raccomandato come condizione corrispondente alla sua benefica e
misericordiosa causalità (Cfr. Matth. 7, 8; Luc. 11,
13; Io. 16, 24). Dovremmo in questi giorni mantenerci in
questo atteggiamento d’implorazione continua, affinché lo Spirito
Santo trovi libero accesso alle nostre anime (Act. 1, 14; 2,
42): orazione nostra ed azione della grazia devono incontrarsi,
affinché il nostro orecchio possa cogliere «quid Spiritus dicat
ecclesiis» (Apoc. 2, 6).
E poi lasciate, venerati Fratelli, che noi v i rendiamo attenti ad
un pericolo specifico, che può circondare la nostra riunione
sinodale, e che per diverse vie, oneste o subdole, può turbare la
nostra serenità di giudizio, anzi fors’anche la nostra libertà di
deliberazione.
Consiste questo pericolo nella pressione: di opinioni di dubbia
conformità alla dottrina della fede; di tendenze incuranti di
tradizioni autorevoli ed acquisite all’autentica vocazione della
Chiesa; di lusinghe all’adattamento alla mentalità profana e
secolare; di timori delle difficoltà sollevate dai mutamenti della
vita moderna; di pubblicità tentatrice o molesta; di accuse di
anacronismo e di giuridismo paralizzante lo spontaneo svolgimento,
così detto carismatico, d’un nuovo cristianesimo; e così via. La
pressione: il suo volto è molteplice, il suo potere insinuante e
pericoloso. Procuriamo d’esserne affrancati mediante l’impulso della
nostra coscienza, responsabile di fronte alla nostra missione di
Pastori del Popolo di Dio, ed al giudizio divino dell’ultimo
giorno; e procuriamo invece di conservare la tranquillità e la
fortezza di spirito per saper tutto bene conoscere e bene giudicare,
secondo lo spirito di Cristo e secondo i veri bisogni della Chiesa e
dei tempi (Cfr. 1 Thess. 5, 21). Liberi da in debite
ingerenze ed estranee suggestioni nell’esercizio dei nostri doveri
sinodali, dobbiamo invece sentirci vincolati da questi doveri stessi,
fra i quali è da ricordare l’osservanza del mandato ricevuto dalle
rispettive Conferenze Episcopali, o dai Sinodi dei rispettivi
Riti, ovvero dalla rispettiva Unione dei Superiori Generali.
Voi, membri del Sinodo, ne avete ampiamente preparato i lavori, con
il clero - qui rappresentato da un gruppo di Sacerdoti che noi
salutiamo con affetto - ed anche con religiosi, religiose e laici che
partecipano attivamente alla vita della Chiesa nei vostri Paesi. Voi
avete poi studiato e deliberato con i nostri fratelli nell’Episcopato
l’apporto che ora siete chiamati a dare. Non parlerete, adunque, a
titolo personale (se non con espressa dichiarazione, come prevede
l’Ordo Synodi), ma sarete la voce qualificata della vostra Chiesa
per tutta la Chiesa.
Superfluo che noi vi diciamo quanto sia importante per lei, la nostra
santa Chiesa, una e cattolica, codesta voce, che fa eco a quella
apostolica, e quanto grave la nostra corresponsabilità; voi ciò ben
sapete. Ma non sia vano il voto comune che possa la Chiesa medesima,
per virtù dello Spirito di Dio, «qui loquitur in vobis» (Matth.
10, 20), e per l’intercessione di Maria, Colei, che fu madre
di Cristo secondo la carne, e madre, possiamo dire, del suo Corpo
mistico secondo lo Spirito nel giorno di Pentecoste, possa la Chiesa
essere «edificata» (Cfr. Eph. 4, 12) dal Sinodo che si
iscrive nella sua storia secolare.
L’immagine della «edificazione», così spesso usata nella Sacra
Scrittura, ci invita oggi a lavorare insieme con tutte le nostre forze
per la grande opera che costituisce l’unico scopo del nostro vivere;
costruire la Chiesa sul suo fondamento incrollabile, che è Cristo
stesso, via, verità, vita.
Non lasciamoci in nessun modo deviare da questa strada: essa è la
sola. Non lasciamoci allettare da nessuna altra voce: la verità è
una. Non lasciamoci trascinare verso alcun’altra fonte che non sia
quella di Dio vivente e vivificante.
Il nostro dovere di pastori è qui, chiaramente delineato: voglia il
Signore concederci di esservi fedeli, sull’esempio dei santi pastori
che, lungo i secoli del travagliato pellegrinaggio terrestre della
Chiesa, seppero guidarla con coraggio e saggezza, tra gli scogli,
verso il largo, dove Cristo la chiama per portare a tutti la buona
novella della salvezza.
E noi stessi, quantunque deboli e infermi più di Simone, che avemmo
dal Signore medesimo di Pietro il nome e l’ufficio, siamo con voi
per dare nuovo incremento al mistico e visibile edificio, affinché
esso apra ancor oggi i suoi atrii solidi e luminosi al Popolo di Dio,
ora bisognoso, più d’ogni altra cosa, della vera fede che non
mente, della sicura speranza che non inganna, del rinascente amore,
che non si spegne.
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