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Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo
Giovedì, 29 giugno 1972
Al tramonto di giovedì 29 giugno, solennità dei Ss. Pietro e
Paolo, alla presenza di una considerevole moltitudine di fedeli
provenienti da ogni parte del mondo, il Santo Padre celebra la Messa
e l’inizio del suo decimo anno di Pontificato, quale successore di
San Pietro.
Con il Decano del Sacro Collegio, Signor Cardinale Amleto
Giovanni Cicognani e il Sottodecano Signor Cardinale Luigi
Traglia sono trenta Porporati, della Curia, e alcuni Pastori di
diocesi, oggi presenti a Roma.
Due Signori Cardinali per ciascun Ordine, accompagnano
processionalmente il Santo Padre all’altare.
Al completo il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede,
con il Sostituto della Segreteria di Stato, arcivescovo Giovanni
Benelli, ed il Segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici
della Chiesa, arcivescovo Agostino Casaroli.
Diamo un resoconto della Omelia di Sua Santità.
Il Santo Padre esordisce affermando di dovere un vivissimo
ringraziamento a quanti, Fratelli e Figli, sono presenti nella
Basilica ed a quanti, lontani, ma ad essi spiritualmente associati,
assistono al sacro rito, il quale, all’intenzione celebrativa
dell’Apostolo Pietro, cui è dedicata la Basilica Vaticana,
privilegiata custode della sua tomba e delle sue reliquie, e
dell’Apostolo Paolo, sempre a lui unito nel disegno e nel culto
apostolico, unisce un’altra intenzione, quella di ricordare
l’anniversario della sua elezione alla successione nel ministero
pastorale del pescatore Simone, figlio di Giona, da Cristo
denominato Pietro, e perciò nella funzione di Vescovo di Roma, di
Pontefice della Chiesa universale e di visibile e umilissimo Vicario
in terra di Cristo Signore. Il ringraziamento vivissimo è per
quanto la presenza di tanti fedeli gli dimostra di amore a Cristo
stesso nel segno della sua povera persona, e lo assicura perciò della
loro fedeltà e indulgenza verso di lui, non che del loro proposito per
lui consolante di aiutarlo con la loro preghiera.
LA CHIESA DI GESÙ, LA CHIESA DI PIETRO
Paolo VI prosegue dicendo di non voler parlare, nel suo breve
discorso, di lui, San Pietro, ché troppo lungo sarebbe e forse
superfluo per chi già ne conosce la mirabile storia; né di se
stesso, di cui già troppo parlano la stampa e la radio, alle quali
per altro esprime la sua debita riconoscenza. Volendo piuttosto
parlare della Chiesa, che in quel momento e da quella sede sembra
apparire davanti ai suoi occhi come distesa nel suo vastissimo e
complicatissimo panorama, si limita a ripetere una parola dello stesso
Apostolo Pietro, come detta da lui alla immensa comunità cattolica;
da lui, nella sua prima lettera, raccolta nel canone degli scritti del
Nuovo Testamento. Questo bellissimo messaggio, rivolto da Roma ai
primi cristiani dell’Asia minore, d’origine in parte giudaica, in
parte pagana, quasi a dimostrare fin d’allora l’universalità del
ministero apostolico di Pietro, ha carattere parenetico, cioè
esortativo, ma non manca d’insegnamenti dottrinali, e la parola che
il Papa cita è appunto tale, tanto che il recente Concilio ne ha
fatto tesoro per uno dei suoi caratteristici insegnamenti. Paolo VI
invita ad ascoltarla come pronunciata da San Pietro stesso per coloro
ai quali in quel momento egli la rivolge.
Dopo aver ricordato il brano dell’Esodo nel quale si racconta come
Dio, parlando a Mosè prima di consegnargli la Legge, disse: «Io
farò di questo popolo, un popolo sacerdotale e regale», Paolo VI
dichiara che San Pietro ha ripreso questa parola così esaltante,
così grande e l’ha applicata al nuovo popolo di Dio, erede e
continuatore dell’Israele della Bibbia per formare un nuovo
Israele, l’Israele di Cristo. Dice San Pietro: Sarà il
popolo sacerdotale e regale che glorificherà il Dio della
misericordia, il Dio della salvezza.
Questa parola, fa osservare il Santo Padre, è stata da taluni
fraintesa, come se il sacerdozio fosse un ordine solo, e cioè fosse
comunicato a quanti sono inseriti nel Corpo Mistico di Cristo, a
quanti sono cristiani. Ciò è vero per quanto riguarda quello che
viene indicato come sacerdozio comune, ma il Concilio ci dice, e la
Tradizione ce l’aveva già insegnato, che esiste un altro grado del
sacerdozio, il sacerdozio ministeriale che ha delle facoltà, delle
prerogative particolari ed esclusive.
Ma quello che interessa tutti è il sacerdozio regale e il Papa si
sofferma sul significato di questa espressione. Sacerdozio vuol dire
capacità di rendere il culto a Dio, di comunicare con Lui, di
offrirgli degnamente qualcosa in suo onore, di colloquiare con lui, di
cercarlo sempre in una profondità nuova, in una scoperta nuova, in un
amore nuovo. Questo slancio dell’umanità verso Dio, che non è mai
abbastanza raggiunto, né abbastanza conosciuto, è il sacerdozio di
chi è inserito nell’unico Sacerdote, che è Cristo, dopo
l’inaugurazione del Nuovo Testamento. Chi è cristiano è per ciò
stesso dotato di questa qualità, di questa prerogativa di poter
parlare al Signore in termini veri, come da figlio a padre.
IL NECESSARIO COLLOQUIO CON DIO
«Audemus dicere»: possiamo davvero celebrare, davanti al Signore,
un rito, una liturgia della preghiera comune, una santificazione della
vita anche profana che distingue il cristiano da chi cristiano non è.
Questo popolo è distinto, anche se confuso in mezzo alla marea grande
dell’umanità. Ha una sua distinzione, una sua caratteristica
inconfondibile. San Paolo si disse «segregatus», distaccato,
distinto dal resto dell’umanità appunto perché investito di
prerogative e di funzioni che non hanno quanti non possiedono l’estrema
fortuna e l’eccellenza di essere membra di Cristo.
Paolo VI aggiunge, quindi, che i fedeli, i quali sono chiamati
alla figliolanza di Dio, alla partecipazione del Corpo Mistico di
Cristo, e sono animati dallo Spirito Santo, e fatti tempio della
presenza di Dio, devono esercitare questo dialogo, questo colloquio,
questa conversazione con Dio nella religione, nel culto liturgico,
nel culto privato, e ad estendere il senso della sacralità anche alle
azioni profane. «Sia che mangiate, sia che beviate - dice San
Paolo - fatelo per la gloria di Dio». E lo dice più volte, nelle
sue lettere, come per rivendicare al cristiano la capacità di
infondere qualcosa di nuovo, di illuminare, di sacralizzare anche le
cose temporali, esterne, passeggere, profane.
Siamo invitati a dare al popolo cristiano, che si chiama Chiesa, un
senso veramente sacro. E sentiamo di dover contenere l’onda di
profanità, di desacralizzazione, di secolarizzazione che monta e vuol
confondere e soverchiare il senso religioso nel segreto del cuore,
nella vita privata o anche nelle affermazioni della vita esteriore. Si
tende oggi ad affermare che non c’è bisogno di distinguere un uomo da
un altro, che non c’è nulla che possa operare questa distinzione.
Anzi, si tende a restituire all’uomo la sua autenticità, il suo
essere come tutti gli altri. Ma la Chiesa, e oggi San Pietro,
richiamando il popolo cristiano alla coscienza di sé, gli dicono che
è il popolo eletto, distinto, «acquistato» da Cristo, un popolo
che deve esercitare un particolare rapporto con Dio, un sacerdozio con
Dio. Questa sacralizzazione della vita non deve oggi essere
cancellata, espulsa dal costume e dalla realtà quotidiana quasi che
non debba più figurare.
SACRALITÀ DEL POPOLO CRISTIANO
Abbiamo perduto, fa notare Paolo VI, l’abito religioso, e tante
altre manifestazioni esteriori della vita religiosa. Su questo c’è
tanto da discutere e tanto da concedere, ma bisogna mantenere il
concetto, e con il concetto anche qualche segno, della sacralità del
popolo cristiano, di coloro cioè che sono inseriti in Cristo, Sommo
ed Eterno Sacerdote.
Oggi talune correnti sociologiche tendono a studiare l’umanità
prescindendo da questo contatto con Dio. La sociologia di San
Pietro, invece, la sociologia della Chiesa, per studiare gli uomini
mette in evidenza proprio questo aspetto sacrale, di conversazione con
l’ineffabile, con Dio, col mondo divino. Bisogna affermarlo nello
studio di tutte le differenziazioni umane. Per quanto eterogeneo si
presenti il genere umano, non dobbiamo dimenticare questa unità
fondamentale che il Signore ci conferisce quando ci dà la grazia:
siamo tutti fratelli nello stesso Cristo. Non c’è più né giudeo,
né greco, né scita, né barbaro, né uomo, né donna. Tutti
siamo una sola cosa in Cristo. Siamo tutti santificati, abbiamo
tutti la partecipazione a questo grado di elevazione soprannaturale che
Cristo ci ha conferito. San Pietro ce lo ricorda: è la sociologia
della Chiesa che non dobbiamo obliterare né dimenticare.
SOLLECITUDINI ED AFFETTO PER I DEBOLI E
I DISORIENTATI
Paolo VI si chiede, poi, se la Chiesa di oggi si può confrontare
con tranquillità con le parole che Pietro ha lasciato in eredità,
offrendole in meditazione. «Ripensiamo in questo momento con immensa
carità - così il Santo Padre - a tutti i nostri fratelli che ci
lasciano, a tanti che sono fuggiaschi e dimentichi, a tanti che forse
non sono mai arrivati nemmeno ad aver coscienza della vocazione
cristiana, quantunque abbiano ricevuto il Battesimo. Come vorremmo
davvero distendere le mani verso di essi, e dir loro che il cuore è
sempre aperto, che la porta è facile, e come vorremmo renderli
partecipi della grande, ineffabile fortuna della felicità nostra,
quella di essere in comunicazione con Dio, che non ci toglie nulla
della visione temporale e del realismo positivo del mondo
esteriore!».
Forse questo nostro essere in comunicazione con Dio, ci obbliga a
rinunce, a sacrifici, ma mentre ci priva di qualcosa moltiplica i suoi
doni. Sì, impone rinunce ma ci fa sovrabbondare di altre ricchezze.
Non siamo poveri, siamo ricchi, perché abbiamo la ricchezza del
Signore. «Ebbene - aggiunge il Papa - vorremmo dire a questi
fratelli, di cui sentiamo quasi lo strappo nelle viscere della nostra
anima sacerdotale, quanto ci sono presenti, quanto ora e sempre e più
li amiamo e quanto preghiamo per loro e quanto cerchiamo con questo
sforzo che li insegue, li circonda, di supplire all’interruzione che
essi stessi frappongono alla nostra comunione con Cristo».
Riferendosi alla situazione della Chiesa di oggi, il Santo Padre
afferma di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il
fumo di Satana nel tempio di Dio». C’è il dubbio,
l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione,
il confronto. Non ci si fida più della Chiesa; ci si fida del primo
profeta profano che viene a parlarci da qualche giornale o da qualche
moto sociale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della
vera vita. E non avvertiamo di esserne invece già noi padroni e
maestri. È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato
per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Dalla
scienza, che è fatta per darci delle verità che non distaccano da
Dio ma ce lo fanno cercare ancora di più e celebrare con maggiore
intensità, è venuta invece la critica, è venuto il dubbio. Gli
scienziati sono coloro che più pensosamente e più dolorosamente
curvano la fronte. E finiscono per insegnare: «Non so, non
sappiamo, non possiamo sapere». La scuola diventa palestra di
confusione e di contraddizioni talvolta assurde. Si celebra il
progresso per poterlo poi demolire con le rivoluzioni più strane e più
radicali, per negare tutto ciò che si è conquistato, per ritornare
primitivi dopo aver tanto esaltato i progressi del mondo moderno.
Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che
dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia
della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta,
di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l’ecumenismo e ci
distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi
invece di colmarli.
PER UN «CREDO» VIVIFICANTE E REDENTORE
Come è avvenuto questo? Il Papa confida ai presenti un suo
pensiero: che ci sia stato l’intervento di un potere avverso. Il suo
nome è il diavolo, questo misterioso essere cui si fa allusione anche
nella Lettera di S. Pietro. Tante volte, d’altra parte, nel
Vangelo, sulle labbra stesse di Cristo, ritorna la menzione di
questo nemico degli uomini. «Crediamo - osserva il Santo Padre -
in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per
soffocare i frutti del Concilio Ecumenico, e per impedire che la
Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza
la coscienza di sé. Appunto per questo vorremmo essere capaci, più
che mai in questo momento, di esercitare la funzione assegnata da Dio
a Pietro, di confermare nella Fede i fratelli. Noi vorremmo
comunicarvi questo carisma della certezza che il Signore dà a colui
che lo rappresenta anche indegnamente su questa terra». La fede ci
dà la certezza, la sicurezza, quando è basata sulla Parola di Dio
accettata e trovata consenziente con la nostra stessa ragione e con il
nostro stesso animo umano. Chi crede con semplicità, con umiltà,
sente di essere sulla buona strada, di avere una testimonianza
interiore che lo conforta nella difficile conquista della verità.
Il Signore, conclude il Papa, si mostra Egli stesso luce e verità
a chi lo accetta nella sua Parola, e la sua Parola diventa non più
ostacolo alla verità e al cammino verso l’essere, bensì un gradino
su cui possiamo salire ed essere davvero conquistatori del Signore che
si mostra attraverso la via della fede, questo anticipo e garanzia
della visione definitiva.
Nel sottolineare un altro aspetto dell’umanità contemporanea, Paolo
VI ricorda l’esistenza di una gran quantità di anime umili,
semplici, pure, rette, forti, che seguono l’invito di San Pietro
ad essere «fortes in fide». E vorremmo - così Egli - che questa
forza della fede, questa sicurezza, questa pace trionfasse su tutti
gli ostacoli. Il Papa invita infine i fedeli ad un atto di fede umile
e sincero, ad uno sforzo psicologico per trovare nel loro intimo lo
slancio verso un atto cosciente di adesione: «Signore, credo nella
Tua parola, credo nella Tua rivelazione, credo in chi mi hai dato
come testimone e garante di questa Tua rivelazione per sentire e
provare, con la forza della fede, l’anticipo della beatitudine della
vita che con la fede ci è promessa».
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