|
Domenica, 19 settembre 1965
(A commento del brano evangelico della Domenica decimaquinta dopo la
Pentecoste il Santo Padre rievoca anzitutto il prodigio di Nostro
Signore ivi narrato.)
Il racconto dell’Evangelista San Luca è semplice, limpido,
commovente. Ci sentiamo tutti spettatori dell’avvenimento, nel
quadro di un umile villaggio della Galilea. Dalla cerchia murata del
piccolo centro esce un corteo di popolo, molto numeroso: è per un
funerale che accompagna alla sepoltura un defunto colpito dalla morte in
giovanissima età. Il feretro è portato da alcuni amici di casa e
nella folla che lo segue domina la figura della madre, tipica - lo si
può affermare - del dolore umano. Essa reca infatti diversi
titoli-di sofferenza: è madre, è vedova; aveva quell’unico
figlio, che ora non vive più. Tuttavia questa donna trova il
coraggio, non facile, di accompagnare la salma nel tristissimo corteo
della morte.
Ed ecco: il corteo della morte si incontra con un altro corteo: la
piccola comitiva degli apostoli e dei discepoli al seguito del Divino
Maestro. Avviene una cosa straordinaria, imprevista. Gesù
interrompe il funerale, il corteo della morte, e compie il prodigio.
Gesù si commuove. Basterebbe questa osservazione per introdurci in
tutta la psicologia umana di Cristo, nella sua sensibilità, nella
sua arte di conoscere gli uomini, di vederli e seguirli durante la loro
esperienza vissuta. Specialmente nelle contingenze negative, quale la
sofferenza, l’occhio di Cristo, Figlio di Dio, si volge
all’umanità dolorante. Egli ben la conosce, e perciò il suo
sguardo non si chiude sulle manifestazioni della pena e della
tristezza; i suoi passi non si allontanano dall’epilogo
dell’esistenza terrena, la sepoltura, appunto; e ora arresta - si
potrebbe parlare d’uno scontro - il corteo della morte con il corteo
della vita.
Gesù, ripetiamo, si commuove; manifesta pietà e compassione per il
dolore; il dolore umano, che assume nel proprio Cuore. C’è una
trasfusione della sofferenza degli uomini nell’anima misteriosa ed
eccelsa di Cristo.
Altre volte il Salvatore, nel Vangelo, si commuove. Lo vediamo
anche piangere: ad esempio nel racconto della resurrezione di Lazzaro
e del previo colloquio di Gesù, arrivato in ritardo, con le sorelle
del morto.
Il Divino Maestro si fa condurre presso il sepolcro; e mentre è
accanto alla porta del funereo abitacolo, ove giace, ormai da quattro
giorni, l’amico defunto, piange. Nota il Vangelo: «Lacrymatus
est Iesus».
Un grande commentatore delle Scritture, Sant’Ambrogio, introduce
in questa frase del Vangelo una particella che, in apparenza, sembra
un nonnulla; ed offre una visione immensamente comprensiva dell’animo
di Cristo e dello splendore della sua umanità, della sua conoscenza
della nostra natura. «Lacrymatus est Iesus», dice il Vangelo: e
Sant’Ambrogio, a commento, scrive semplicemente: «Lacrymatus est
et Iesus!».
Anche Gesù piange. Quell’anche, inserito nella frase, vuole
mostrarci Cristo Gesù associato alle nostre sorti, alle nostre
pene, alle nostre vicende, a tutta la nostra vita. È un anello
magnifico, e sta a dimostrare come è possibile trasferire nel Signore
tutta l’ambascia, l’affanno che trabocca dalle nostre anime
afflitte, colpite dalla sofferenza e dal mistero insondabile della
morte. Orbene, anche Gesù condivide questo dolore, pur Egli
soffre e piange.
Torniamo all’episodio del Vangelo odierno. Gesù dunque fa cenno al
corteo di sostare. E qui ha due parole, che si direbbero dette
apposta ai figli carissimi che compongono il presente uditorio. Per
voi, dolenti custodi della perenne memoria dei caduti e dispersi della
guerra, è la frase ristoratrice di Gesù: «Non piangere!». Per
voi, maestri, che avete consacrato la vita all’educazione dei
fanciulli, della gioventù, l’altra espressione insuperabile nella
bellezza e potenza: «Ragazzo, dico a te: risorgi!»:
«Adolescens, tibi dico, surge!». Due comandi di letizia e di
vita. Basterebbe sostare nel riflettere e contemplare queste divine
parole per essere beati; e ritornare alle nostre case con l’anima
piena di forza, luce, gioia, conforto, sollievo: un risultato ben
duraturo, dall’incontro domenicale, che la Chiesa ci offre, con
Cristo.
Quale sollievo, visione nuova della vita, circolazione di affetti e
di pensieri, quale esperienza della nostra realtà umana, dei nostri
supremi destini risultano dalle parole del Signore!
Ma oltre a rievocare gli effetti della onnipotenza divina è utile
soffermarsi su una delle molte circostanze: essa appare rilevante e
diviene esemplare per noi. Osserviamo che Gesù ha avuto compassione
del dolore umano, lo ha valutato, ha rivolto l’animo suo verso il
dolore nostro. Tutto ciò riveste specialissima importanza, perché
il mirabile dono da Gesù passa ai suoi discepoli e all’umanità che
lo segue; si trasferisce nel Cristianesimo. Il cristiano ha il genio
della compassione, il cristiano ha la capacità e l’attitudine a
vedere, a scoprire, a cercare, a rincorrere l’uomo sofferente.
Ora questo sentimento evangelico - che si riallaccia pure a
disposizioni umane - presenta, nella fenomenologia, nella storia
dell’uomo giudizi e comportamenti assai diversi. Basterà ricordare
che non sempre l’uomo è compassionevole; e che, anzi, l’attitudine
più ordinaria verso chi soffre, è piuttosto nella difesa, e nel
tenersi distanti. Si cerca di porre un diaframma, per limitare il
dolore, lasciarlo a chi n’è colpito, non farlo diventare contagioso
e, soprattutto, assillante è lo studio perché non diventi nostro.
Si pagherà, forse, il tributo di qualche parola, di qualche gesto,
con l’ossequio agli usi convenzionali di rispetto e di condoglianza,
ma si cerca sempre di sottrarsi al dolore altrui. Di più: nella
società moderna, sembra regola di buona condotta il non farsi mai
vedere troppo commossi: piangere non è più di moda; e l’essere
così comprensivi del dolore, come lo sono ancora taluni popoli specie
tra gli orientali, non si addice all’uomo evoluto, il quale cerca di
restringere al massimo la sua compassione.
E allora ecco che l’istinto di sottrarsi al contagio del dolore, si
tramuta addirittura in disprezzo. Lo abbiamo visto in talune
manifestazioni acute della storia contemporanea, quando gente,
infatuata della propria potenza, ha osato dire: la pietà è
debolezza; non è degna dell’uomo; bisogna svincolare l’uomo da
questo influsso del dolore altrui, e mostrarsi insensibili, duri,
giacché ogni esplicazione della psicologia dell’essere umano volgente
alla benignità, non è più degna d’un popolo forte. Sappiamo
quanto è avvenuto con questa educazione alla fierezza, al crudele e
glaciale atteggiamento, all’aridità verso i dolori altrui.
E altri vi sono che hanno, invece, del dolore altrui una visione
imprecisa, turbata; e in luogo di far risultare dalle varie prove una
umanità buona, mansueta, soccorrevole, cercano di fomentare un
comportamento acerbo, gonfio di collera e sdegno, pieno di istinti
vendicativi. Dal dolore umano si leva, così il grido delle folle che
imprecano alla società e diffondono intorno a sé un moto sovversivo,
quasi di vendetta e di punizione. È il dolore che diventa cattivo.
Il vero e giusto sentimento è quello del Buon Samaritano, che ha
compassione di chi soffre., Proprio tale misericorde umanità Gesù
ha canonizzato, fatto sua, e ha portato ad altezze ed espressioni
divenute fondamentali per la civiltà cristiana. Il cristiano è un
uomo di cuore, sensibile, in ogni momento propenso a cogliere le
necessità dei fratelli che gli stanno accanto, specie quando sono
nella sofferenza, nel dolore, nel pianto. Il cristiano è un uomo
compassionevole. «Beati i misericordiosi perché troveranno
misericordia... beati coloro che piangono perché saranno
consolati». Il Signore stabilisce, instaura una solidarietà del
dolore, destinata realmente al fiorire di una umanità buona,
solidale, sorella nelle sue componenti, e idonea a corrispondere a
quanto Gesù ha fatto miracolosamente. Egli ha compatito il dolore
e, poiché è Dio, è stato capace anche di guarirlo, di annullarlo
e di trasformarlo in gioia. Noi, suoi seguaci, potremo imitare la
prima parte in qualche misura, vale a dire condividere il dolore dei
nostri fratelli, pur non avendo sempre la capacità di guarirlo, e non
possedendo il potere di annullarlo e di trasfigurarlo in gioia e in
trionfo. Ma quel che ci è possibile basta perché la compassione
derivata dal Vangelo risulti una tra le più belle e consolatrici
sorgenti di squisita carità, e d’opere nobilissime.
Il Signore ha modellato il cuore umano, e lo ha fatto sensibile,
rendendolo cristiano, proprio facendo coincidere questa solidarietà
con ciò che definisce il carattere precipuo dell’uomo in quanto tale,
del cristiano in quanto tale: il possesso della caritatevole bontà.
Qui la portentosa sorgente che il Signore ha fatto scaturire proprio
dal capriccioso, indocile ed alcune volte ostile e perverso cuore
dell’uomo. Ne ha tratto gli accenti migliori, le vocazioni più
alte, gli ideali più eletti nel soccorrere, confortare gli altri,
nel consacrarsi a tutti. Nelle decorse settimane moriva un uomo molto
degno, che ha dedicato la sua vita ad assistere e guarire poveri
africani nelle loro terre, dedicando, per quarant’anni, la sua
scienza e pazienza proprio a tante miserie lontane ancora dalla civiltà
e quasi sconosciute alle esperienze dei popoli progrediti. Ma quel che
notiamo in questa figura diventata tanto rappresentativa non lo vediamo
forse in tutti i Missionari: migliaia e migliaia di uomini, di
donne, che si lanciano senza che alcuno li mandi o sufficientemente li
assista, senza che nessuno li applauda o dia riconoscimenti, ma solo
animati dalla passione della compassione, con l’ideale d’essere
presenti a confortare dolori sconosciuti che altri ‘trascurano perché
la civiltà non ha mezzi né cuore abbastanza per, venire in loro
aiuto?
Tributiamo a così vasta effusione di Cristianesimo eroico,
delicato, buono, il nostro riconoscimento e plauso; e diamo lode alla
Chiesa, che sempre conduce, educa i suoi figli a questa virtù.
Cerchiamo di far davvero della compassione che il Cristianesimo ci
insegna una fonte di opere egregie che vanno dalla gentilezza della
parola, della condoglianza, dell’amicizia, della trasfusione di
affetti da cuore a cuore, all’amplissima possibilità di suscitare
opere provvide per il conforto, il sollievo dei fratelli, la loro
serenità, la loro guarigione, fin dove è possibile, e di
partecipare al rimpianto, quando ci poniamo in ginocchio sulle tombe
dei cari trapassati alla vita eterna.
In questa luce soprannaturale va riletto e meditato il racconto del
Vangelo odierno. Esso diventa non ,soltanto fulgente per l’
eccellenza, l’ umanità e la ricchezza dei palpiti che descrive e ci
offre, ma si rivela prezioso in maniera incomparabile, poiché ci
educa ad essere veramente cristiani.
|
|