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Giovedì, 7 aprile 1977
Noi tutti siamo in qualche modo coscienti della gravità, della
densità, dell’importanza del rito religioso che oggi, commemorando,
anzi rinnovando il Giovedì Santo, cioè la vigilia della Passione e
della morte di Gesù Cristo, noi celebriamo. Vero è che sempre il
significato di questo rito, ch’è la Messa, la santa Messa ogni
giorno celebrata nella Chiesa di Dio, pesa e splende negli animi di
chi ha l’inestimabile ventura di farne la religiosa oblazione, o di
assistervi con spirituale partecipazione, né l’abitudine di questo
atto religioso, sommo per eccellenza, attenua la commozione dei
sentimenti che gli sono propri, ma il fatto che oggi, con atto
riflesso e totale, la liturgia ci invita a fissare la nostra pietà sul
momento storico, e reso rinnovabile e perenne, della istituzione della
santissima Eucaristia ci obbliga a tentare una considerazione
comprensiva del mistero, perché veramente mistero esso è, che stiamo
compiendo; e dovere di brevità, specialmente parlando a Fedeli
competenti, ci consente di condensare in tre riflessioni quanto su tale
mistero è dovere ricordare.
La prima riflessione, che potremmo qualificare come una convergenza,
riguarda il fatto che la scena evangelica posta davanti alla nostra
attenzione è una cena, l’ultima cena di Gesù con i suoi
Discepoli, una cena rituale, la cena dell’agnello pasquale,
ebraica, anticipata ma identica a quella che il giorno dopo,
venerdì, il ceto sadduceo e sacerdotale celebrerà (Cfr. G.
RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, nn. 75 et 536
ss.). Chi non sa quale importanza storica e rituale aveva nel
costume del popolo ebraico la consumazione di questa cena, in cui
l’agnello era simbolo della liberazione dalla soggezione all’Egitto?
Gesù era già stato acclamato da Giovanni Battista: «l’agnello di
Dio, che toglie i peccati del mondo» (Io. 1, 29 36; et
cfr. Ier. 11, 19 et Is. 53, 7). Ebbene, Gesù,
vittima, la sola veramente liberatrice dalla schiavitù del peccato,
subentra alla figura che lo aveva rappresentato durante l’antico
Testamento e inaugura il nuovo Testamento; e stabilisce così un
rapporto religioso più perfetto, immensamente più intimo ed operante
con quanti avranno la fortuna di credere in Lui e d’essere associati
alla vita stessa del Cristo (Cfr. 1 Petr. 1, 19). L’era
nuova, la nostra, quella della Redenzione, è così aperta al genere
umano seguace di Cristo.
La seconda riflessione riguarda il punto focale della Cena d’addio.
Qui domina l’Amore. Si direbbe che trabocca dalle parole del
Signore, trabocca dall’azione: «. . . . dopo d’aver amato i
suoi ch’erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Io. 13,
1). Voi avete presente certamente nei vostri animi, e il gesto di
somma umiltà compiuto dal Signore con la lavanda dei piedi ai suoi
apostoli, indarno renitente Pietro, e soprattutto l’istituzione
dell’Eucaristia, mediante la quale, si direbbe, violando con
amoroso impero onnipotente le inesorabili leggi fisiche, Gesù si
rende presente sotto le apparenze del pane e del vino per farsi alimento
sacrificale e vitale dei suoi commensali . . .! Impossibile!
impossibile! noi staremmo per gridare, se non fosse stato Lui stesso
Gesù ad affermare con invincibile asseveranza: «Io sono il pane
della vita . . . Chi mangia questo pane vivrà in eterno . .
.». Questo linguaggio è duro, commentano gli ancora increduli
discepoli. E Gesù di rincalzo: «Questo vi scandalizza? . . .
le parole che Io vi ho dette sono spirito e vita!» (Io. 6,
58. 63), mentre nella scena stessa della Cena Egli rendeva
universale e perenne la possibilità del prodigio eucaristico con
l’istituzione simultanea d’un altro Sacramento, quello dell’Ordine
sacerdotale, trasfondendo nei discepoli esterrefatti la divina sua
potestà: «Fate questo in memoria di me» (Luc. 22, 19; 1
Cor. 11, 24).
Ma una terza riflessione s’impone: durante la Cena parlano ancora le
figure: il pane diventa Corpo, ma conserva le apparenze di pane; il
vino diventa Sangue ma a vederlo appare ancora come vino: cioè qui la
morte di Cristo è incruenta, è tuttora rappresentata. La Croce è
nascosta, ma l’oblazione che sarà consumata sulla Croce è già in
atto: l’Eucaristia è sacrificio! (Cfr. DE LA TAILLE,
Mysterium Fidei, c. III, p. 33 ss.; S. THOMAE
Summa Theologiae, III, 48; P. NAU, Le mystère du
Corps et du Sang du Seigneur.)
Così che il Sacrificio dell’altare e quello della Croce sono la
stessa misteriosa realtà: nell’uno l’altro riflette realmente il
dramma della Croce (Cfr. S. AUGUSTINI In Pr. 21,
27: PL 36, 178).
Qui le nostre forze speculative sembrano arrestarsi. Il capo si
inchina, e adora, e la mente vacilla davanti a Realtà così
superiori alla nostra capacità di misurarle e di contenerle. Vengono
alle labbra le parole del povero padre dell’epilettico nel Vangelo del
Signore: «Credo, sì, ma tu aiutami nella mia incredulità»
(Marc. 9, 24). Ma il cuore prosegue, come il nostro qui,
questa sera, ed esclama come San Pietro dopo il discorso di Cristo
sull’Eucaristia-sacrificio: «Signore, da chi andremo noi? Tu
hai parole di vita eterna» (Io. 6. 68).
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