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Domenica, 3 maggio 1964
Il Santo Padre ricorda ai presenti che il Vangelo del giorno riporta
le ultime parole rivolte da Gesù agli Apostoli al termine della sua
vita temporale. Sono le parole di commiato estremo del Signore
durante l’ultima Cena, prima della grande preghiera sacerdotale.
Gesù, prevedendo la Passione, vuol staccarsi con infinita
delicatezza dai discepoli: e le sue parole sono di una chiarezza che
non ammette dubbi; come colui che è sul punto di morire, dice le cose
supreme e fa le raccomandazioni più importanti.
In questa contingenza così dolorosa, delicata e sacra, Gesù parla
dei rapporti che aveva stabilito con le persone cui era stato vicino
durante la sua vita. Dopo aver annunciato la venuta dello Spirito
Santo e la continuità della missione degli Apostoli raccomanda la
preghiera. Si potrebbe quindi definire questa domenica la festa della
preghiera. Il Signore ci lascia questa sua ultima raccomandazione:
pregate, state uniti a me e al Padre, mediante questo sforzo
dell’anima che si chiama la preghiera. Con me non ci sarà che il
distacco dei sensi, ma le vostre anime saranno in contatto con Dio.
Gesù conforta questa sua suprema raccomandazione con un rilievo che sa
di rimprovero: ancora c’è molto da fare nel campo della preghiera e
ciò è notificato anche a noi per nostra riflessione e per il nostro
perfezionamento. Egli infatti dice: finora non avete pregato.
Eppure gli Apostoli avevano chiesto a Gesù di insegnar loro a
pregare, ed avevano condiviso con Lui tanti momenti di preghiera;
conoscevano le orazioni dei Salmi e quelle che avevano recitate durante
la Cena pasquale. Perché allora Gesù dice così? Lo spiega
soggiungendo: pregate nel Nome mio; nel Nome di Cristo che - come
dice San Paolo - è anello di congiunzione fra l’umanità e Dio;
mediatore, tramite fra la Chiesa e Dio.
Ricordare queste parole alla gente del giorno d’oggi, come alla
gioventù che è presente, e a tanta gente del mondo degli studi e
degli affari non è facile. È difficile parlare di preghiera all’uomo
moderno, proprio perché moderno, perché sempre più a contatto
perfezionato e interessante, col mondo, con la terra, con le sue
energie, con questo magnifico quadro della natura che ci circonda, con
questo universo, che avviciniamo con i nostri sensi, e con
l’intelligenza, che trasformiamo e rendiamo utile; che conquistiamo,
e che ci inebria.
E questo rapporto tra noi e il mondo sembra placare e soddisfare i
desideri dell’uomo, così che l’uomo dice a se stesso: questa è la
soluzione: io devo cercare di conquistare la terra, il mondo che mi
circonda; ed ecco le meravigliose realtà che saldano questo rapporto e
sono le macchine, gli strumenti, le invenzioni della scienza. Ed
ecco che l’uomo non ha più allora il desiderio e neppur l’attitudine
di cercare qualcosa che non si misura con i nostri mezzi di
osservazione. Non sentiamo più il bisogno né abbiamo l’attitudine
al colloquio con Dio.
E quando il tema della preghiera torna nella sua essenzialità dinanzi
a noi e diciamo delle preghiere, e andiamo la domenica in chiesa, ci
crediamo paghi di aver soddisfatto in tal modo a questo fondamentale
dovere della vita cristiana.
Qualche preghiera, un pellegrinaggio, l’accendere una candela sono
forse la formula esatta degli atti di religione? Sono atti esteriori e
talvolta diventano perfino superstiziosi; allora, dinanzi
all’esteriorità, l’anima intelligente, che vuol riaffermare il
regno dello spirito, si raccoglie in se stessa ed entra in un ambito
interiore di ripensamento, in cui cerca di esprimere da sé la vera
vita spirituale, ed è una spiritualità che si potrebbe dire
psicologica, umana, sentimentale, cioè quella che riguarda solo il
punto di partenza, cioè l’io; che si pone in condizione di sforzo
per trascendere ciò che la supera.
Ed ecco la preghiera secondo quanto ci dice il Vangelo: colloquio,
conversazione, contatto con Dio. Incontro quasi terrificante fra
l’io, povera cosa di questo mondo, e l’Infinito, il Creatore.
Ma di fronte allo sgomento che può prenderci, Gesù ci invita a
parlare con colloquio vero e vivo. Ed ecco che ci ricordiamo
l’atteggiamento del povero pubblicano del Vangelo che non ardisce
entrare nel tempio e riconosce la propria pochezza e debolezza e
indegnità. Vero atteggiamento religioso questo del senso della
propria indegnità e dell’incapacità di prendere contatto con il
Creatore. La preghiera suppone quindi la realtà di Dio e la realtà
dell’io, e deriva dal contatto fra le due realtà.
La parola di Gesù: pregate nel Nome mio, risolve ogni
difficoltà. E allora la preghiera diventa dolce, diventa facile,
bella, consueta, nostra. E questa preghiera si chiama liturgia e il
Santo Padre ricorda quanto se ne è parlato durante il Concilio. La
liturgia è mistero di presenza di Dio dinanzi a noi e formula di
soluzione del rapporto fra l’anima e Dio. Da ciò la felicità di
parlare con Dio sapendo di esser ascoltati: non c’è al di là il
vuoto o la sordità, ma la bontà e l’amore; c’è il Padre, felice
Lui stesso di amarci e di venire incontro a noi.
Se comprendessimo che cosa è la preghiera non ci peserebbe questa
mezz’ora settimanale, ma saremmo desiderosi e felici di questo
incontro con Dio, di quest’appuntamento che ogni settimana Egli ci
dà, per la celebrazione dei suoi misteri, per dilatare la nostra
anima nella infinita confidenza della sua bontà, e per accogliere
nella nostra pochezza la ricchezza immensa del suo amore, della sua
sapienza, delle sue promesse.
Il Santo Padre esorta a ricordare che la preghiera non distrugge i
nostri rapporti col mondo ma li sublima e li trasforma, li vivifica,
li santifica e li indirizza ai destini veri della nostra vita. Così
da questo contatto attingiamo energia per poter «inter mundanas
varietates» dirigerci verso le felicità supreme che il Cielo ci
prepara. Accogliamo dunque l’invito della Chiesa che ci ammonisce a
pregare insieme onde trasformare nell’unione con Cristo la nostra vita
nella Sua. E Gesù, facendosi presente dinanzi a noi,
sull’altare, ci dia la sua grazia e la gioia di partecipare alla vita
infinita di Dio.
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