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Domenica, 30 giugno 1974
Diletti Figli,
Venerati Fratelli,
e, fra tutti, Voi, Candidati alla dignità e all’ufficio
episcopale nella Chiesa di Dio!
Il sacro rito, che noi stiamo compiendo, esige a questo punto una
pausa; una pausa di riflessione.
Come, durante l’ascensione faticosa verso la vetta d’una montagna,
l’alpinista arresta un istante il suo passo per riprendere lena e per
rendersi conto del suo cammino e del panorama, che si apre davanti al
suo sguardo, così noi sospendiamo per un breve momento preghiere,
canti e cerimonie, e cerchiamo di renderci conto, per quanto è
possibile, del nostro singolare itinerario spirituale, di riassumerne
i temi religiosi, e di chiarire al nostro confuso pensiero il senso ed
il valore dell’ordinazione episcopale, che noi, ministri di questo
sacramento, stiamo conferendo, e che voi Fratelli, destinati alla
pienezza del Sacerdozio, state ricevendo.
Quale immensa meditazione si offre al nostro spirito! Noi non osiamo
certamente pretendere di contenerla nello stretto spazio di tempo e di
studio di queste semplici parole, né di delinearla adeguatamente in
una breve sintesi, che tuttavia un rito così grave, così solenne,
così importante suggerirebbe alle nostre labbra. Noi diremo
soltanto, per desiderio di brevità e di chiarezza, che a noi, in
questo momento d’intensa attenzione interiore, è domandato un umile e
fiducioso atto di coscienza.
Di coscienza, innanzi tutto, della personale elezione, che il
conferimento di questo Sacramento mette in chiara evidenza. Noi,
già insigniti di tanta grazia, e voi, Fratelli che state per
esserlo, siamo qui, perché siamo stati chiamati. Nec quisquam sumit
sibi honorem, sed qui vocatur a Deo, non vi è alcuno che assuma da
sé questa dignità, se non è chiamato da Dio (Hebr. 5, 4).
Chi oserebbe assumere di propria iniziativa questo ufficio (anche se
le sue provvidenziali funzioni possono essere per se stesse
desiderabili, come scrive San Paolo al fedele discepolo Timoteo)
(1 Tim. 3, 1), se non fosse sicuro che la sua investitura gli
viene conferita per divino volere? e chi potrebbe essere garantito
della sua prodigiosa validità, se non sapesse ch’essa deriva, per
via apostolica, dall’originaria, insostituibile istituzione di
Cristo stesso? Non vos me elegistis, sed Ego elegi vos, non voi
avete eletto me, dice il Signore, ma Io ho eletto voi (Io. 15,
16). Qualunque sia la nostra privata vicenda biografica, che qua
ci conduce, purché canonicamente fondata, cioè secondo la legittima
economia dello Spirito, noi scopriamo un’intenzione divina che ci
riguarda ciascuno personalmente, una storia retrospettiva, analoga a
quella per cui ci è stata regalata la vita, che ci rivela un
pensiero, un’elezione, un amore di Cristo per ciascuno di noi. Nel
chiarore di un’alba evangelica, narra il Vangelo, dopo aver passato
la notte in preghiera (quale preghiera!) Gesù «chiamò i suoi
discepoli, ne scelse dodici fra di essi, e conferì loro il nome di
apostoli» (Luc. 6, 13).
Quella veglia, per il nostro tempo, quella preghiera, per la nostra
sorte, non sono concluse; come fari irradianti dal cuore divino,
nell’oscurità dei secoli, si riverberano segretamente e qui
apertamente, su ognuno di voi Fratelli; l’eco delle parole estreme
di Cristo ai discepoli arriva fino a questa scena presente, a questo
momento benedetto: «Io prego, Egli disse, non solamente per essi
(i discepoli di prima elezione, presenti all’addio del Signore alla
vigilia della sua passione), ma anche per quelli che, mediante la
loro parola, Egli soggiunse, crederanno in me, affinché siano tutti
uno; come Tu, o Padre, sei in me e Io sono in Te, anch’essi
siano uno in Noi, così che il mondo creda che Tu mi hai mandato»
(Io. 17, 20-21). Quel sacerdotale messaggio di Cristo
arriva ora fino a noi; un mistero di unità si compie; una missione
apostolica ne deriva e si protende nel tempo e nell’umanità.
Diciamo questo, o Fratelli eletti all’Episcopato, affinché una
nuova mentalità, una nuova psicologia, un nuovo spirito si formi in
voi, ed anche in noi si riformi, quasi fossimo tutti insieme investiti
e magnetizzati dal cono di luce e di virtù emanante dallo Spirito
Santo, abilitandoci al ministero superiore di reggere, servendola,
la Chiesa di Dio (Cfr. Act. 20, 28). Diciamo questo,
Fratelli eletti, affinché invasi da questa sovrumana coscienza siate
lieti, siate forti, siate fiduciosi sempre (Cfr. Phil. 1,
20), e possiate voi stessi essere sorgenti di consolazione per gli
altri fedeli nelle loro tribolazioni (Cfr. 2 Cor. 1, 4).
Ed ecco allora che la tensione di questa nuova coscienza ci apre una
successiva interiore visione, quella d’essere noi portatori
qualificati di un tesoro, fragile e prezioso (Cfr. 2 Cor. 4,
7), messo nelle nostre mani, per dispensarlo, accrescerlo,
custodirlo e difenderlo. Qual è questo tesoro? è il Vangelo vivo
ed eterno di Cristo; è la sua Verità liberatrice e salvatrice; è
il famoso e geloso «deposito» della fede da salvaguardare e da
autenticare nella sua sempre viva integrità, mediante lo Spirito
Santo (Cfr. 1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14).
Sì, Fratelli, una grande responsabilità sarà anche vostra,
quella del ministero della parola, proclamante la divina verità,
quella del magistero autorevole e fedele nella Chiesa di Dio, quella
dell’annuncio missionario della dottrina cristiana, quella della
tutela e della crescita del patrimonio della cultura cattolica. Sarà
l’esercizio di tale responsabilità magisteriale uno dei doveri
principali della funzione episcopale, reso oggi tanto più grave e
salutare quanto maggiori sono la diffusione e lo smarrimento del
pensiero speculativo moderno.
La cultura umanistica, abbandonata la sperimentata sapienza della
tradizione, preferisce, oggi e spesso esclusivamente, compiacersi
nella scienza del calcolo e della osservazione sperimentale,
limitandosi alla conoscenza del mondo esteriore, empirica e sensibile,
per cui è tanto difficile alla mente dell’uomo contemporaneo assurgere
alla conoscenza razionale e metafisica, e tanto di più a quella, pur
sempre ragionevole, della religione e della fede. L’arte del
pensiero veramente umano e vitale esigerà dal vostro ministero uno
sforzo pedagogico particolare e perseverante. Troverete anche voi,
nella professione del vostro irrinunciabile ministero dottrinale, che
una inquieta e talvolta ribelle ricerca è preferita al possesso sicuro
e fecondo della verità conosciuta, un’opinione spesso servile e
volubile è preferita alla coerenza positiva e dinamica della ragione,
un’ipotesi gratuita e di moda è preferita alla esigenza sempre valida
del senso comune, e così una critica aprioristica ed eversiva
prevarrà facilmente alla analisi obiettiva della realtà, come pure
uno stato di dubbio sistematico all’adesione equilibratrice e feconda
della certezza.
Ben sappiamo che il possesso e lo studio della verità religiosa,
quale la rivelazione cristiana offre al nostro spirito, si affermano e
si sviluppano, oltre che nella sfera razionale, nel regno del
mistero, di quel «pietatis sacramentum» di cui scrive San Paolo, e
che contiene in sintesi il disegno trascendente della nostra salvezza
(Cfr. 1 Tim. 3, 9 e 6); ma sappiamo altresì che tale
mistero, lungi dal fiaccare la nostra nativa e divina facoltà di
pensare «in spirito e verità» (Cfr. Io. 4, 24), la esige e
la corrobora.
Grande responsabilità, dunque, è quella del Vescovo che avverte
nell’urgenza della sua coscienza il dovere d’essere al tempo stesso
discepolo, il più fedele, e maestro, il più zelante, della divina
dottrina (1 Tim. 4, 13 e 16).
Ma non è tutto. Il processo dell’interiore consapevolezza di ciò
che un Vescovo è, non finisce a questo per quanto amplissimo limite
soggettivo, ma piuttosto si apre ad una nuova esigenza, che potremmo
dire costitutiva, della personalità di lui. Il Vescovo, come il
Sacerdote, ed in grado superiore, non è tale per se stesso, lo è
per il Popolo di Dio. L’Episcopato non è una semplice dignità
per colui che ne è investito; è una funzione, un ministero, un
servizio per la Chiesa. «Devi sapere, scrive San Cipriano, fin
dalla metà del terzo secolo, che il Vescovo è nella Chiesa, e la
Chiesa è nel Vescovo» (Eph. 66, 8; cfr. Lumen Gentium,
23, nota 31); e ciò non soltanto per celebrare un mistero di
unità, ma un dovere, una dedizione, un sacrificio di carità. Il
Vescovo è pastore. Ora «il buon pastore, dice Cristo di se
stesso, personificando ed esemplificando in sé chiunque sia chiamato
ad assumere la sua figura e la sua funzione nella Chiesa di Dio, il
buon pastore dà la propria vita per il suo gregge» (Io. 10,
11). Dono totale, dono supremo, dono gaudioso.
Deriva, come sappiamo, dall’amore: se mi ami, disse Gesù a
Pietro, pasci il mio gregge (Cfr. Io. 21, 15 ss.); e
certo tale consegna vale per ogni vero pastore.
Pensate, anzi sempre penserete, alle conseguenze d’un tale principio
: lo svuotamento da ogni egoismo, da ogni proprio interesse, da ogni
riserva di qualche cosa di proprio. La carità pastorale assurge al
primato dell’amore: «Nessuno, insegna Gesù, ha un amore più
grande di quello di uno che dia la vita per i suoi amici» (Io.
15, 13).
E ciò che Gesù disse per gli Apostoli, vale per i loro
Successori, i Vescovi.
Chi sono gli amici d’un Vescovo? sono persone di due categorie; ben
tutti lo sappiamo. La prima categoria è quella dei Vescovi stessi,
dei membri cioè del collegio episcopale, ai quali, nelle persone
degli Apostoli, è stato dato, per eccellenza, il comandamento
nuovo, quello di amarsi gli uni e gli altri. «Come Io, dice ancora
Gesù, ho amato voi, così voi amatevi a vicenda. Da questo tutti
conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente»
(Io. 13, 34-35): unità, solidarietà, collaborazione,
generosità faranno, sulla scorta di così esplicite e solenni parole
del Signore, di tutti i Vescovi della Chiesa cattolica una comunione
di fratelli (Cfr. Lumen Gentium, 23).
L’altra categoria è composta da tutti gli uomini. Sia perché la
collegialità, come già insegnava il nostro venerato Predecessore
Pio XII, rende ogni Vescovo corresponsabile « della missione
apostolica della Chiesa, secondo le parole di Cristo ai suoi
apostoli: “Come il Padre ha mandato me, così Io mando voi”
(Io. 20, 21). Questa missione, che deve abbracciare tutte le
nazioni e tutti i tempi non è cessata con la morte degli Apostoli;
essa permane nella persona di tutti i Vescovi in comunione col Vicario
di Cristo» (Fidei Donum, 1957). E sia perché ogni Vescovo
è deputato al ministero pastorale d’una Chiesa determinata,
realmente organizzata nelle sedi residenziali, simbolicamente e
virtualmente rispetto alla Chiesa intera nelle sedi titolari. Non si
concepisce un Vescovo che non sia votato al servizio e all’amore del
Popolo di Dio in tutta la sua più larga accezione. Il Vescovo è
un cuore, dove tutta l’umanità trova accoglienza. Non senza
certamente l’osservanza di norme sapienti, di cui la Regula
Pastoralis di San Gregorio Magno, sepolto esso pure in questa
Basilica, ci detta, con tanti altri maestri, l’unica ispirazione
nella carità e l’indefinito pluralismo psicologico e pedagogico della
sua applicazione.
Povero cuore d’un Vescovo! Come farà ad assumere tanta ampiezza e
come potrà esprimersi con tanta sapienza? No, povero, Fratelli!
felice piuttosto il cuore d’un Vescovo che è destinato a plasmarsi
sul cuore di Cristo e a perpetuare nel mondo e nel tempo il prodigio
della carità di Cristo. Sì, felice così! e tale sia il cuore di
ciascuno di voi, nuovi Vescovi della Chiesa di Cristo!
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