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Giovedì Santo, 11 aprile 1974
Fratelli miei e Figli carissimi!
Dove siamo? perché siamo qui riuniti? che cosa stiamo facendo? La
celebrazione di questo rito esige da noi un momento d’intensa
concentrazione.
È pur vero: essa non è in sostanza che una Santa Messa, quale noi
celebriamo ogni giorno e moltiplichiamo in tanti luoghi diversi. Ma
oggi questo rito vuole assumere il suo pieno e originario significato.
Esso vuole ricordare, anzi rinnovare le sue ragioni costitutive, e
acquista per noi, in ogni suo aspetto, un rilievo particolare; noi
vogliamo onorare la sua misteriosa e complessa realtà; la sua
origine, ch’è l’ultima Cena del Signore; la sua natura, ch’è
il sacrificio eucaristico; i suoi rapporti con la Pasqua giudaica,
memoriale della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù e poi
segno della promessa messianica circa i futuri destini di quel popolo;
il suo aspetto innovatore, ch’è l’inaugurazione d’un nuovo
Testamento, d’una nuova alleanza, cioè d’un nuovo piano
religioso, eminentemente più elevato e più perfetto, fra Dio e
l’umanità, mediante il sacrificio d’una vittima unica e nuova,
Gesù Cristo stesso . . . Noi siamo collocati all’incrocio delle
grandi linee traiettorie dei destini storici, profetici e spirituali
dell’umanità: qui si conclude l’Antico Testamento; qui si
inaugura il Nuovo; qui l’incontro con Cristo, da evangelico e
particolare, si fa sacramentale e universalmente accessibile, qui la
intenzione fondamentale della sua presenza nel mondo, con la
celebrazione dei due misteri essenziali della sua vita nel tempo e sulla
terra, l’Incarnazione e la Redenzione, si svela in gesti ed in
parole indimenticabili: «sapendo Gesù, dice infatti il Vangelo,
che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Io.
13, 1), cioè fino all’estremo limite, fino al dono supremo di Sé.
Questo è il tema sul quale ora dobbiamo fissare la nostra attenzione.
Non ne saremo veramente capaci, come non sono capaci i nostri occhi di
sostenere lo sguardo diretto della luce del sole. Ma non dovranno
questi nostri occhi umani e fedeli stancarsi di contemplare ciò che il
misterioso fulgore dell’ultima Cena fa risplendere davanti a noi: i
gesti dell’amore che si offre e si dà, e che assumono l’aspetto e la
dimensione d’un amore assoluto, divino; l’amore che si esprime nel
sacrificio.
L’amore, nell’esperienza umana, è un termine terribilmente
equivoco, a seconda dei beni a cui si rivolge; può significare le
passioni più abbiette e più sordide, può camuffarsi nell’egoismo
più esigente e maligno, può bilanciarsi in legittime reciprocità
trovandosi pago di ciò che riceve per ciò che ha dato, e può
concedersi con calcoli di quasi inavvertito interesse; e può
finalmente darsi gratuitamente, realizzandosi nella sua essenziale
definizione, per amore, senza considerare il merito di chi lo riceve,
né il compenso che gli sarebbe dovuto.
Puro, totale, gratuito, salvifico amore; tale fu l’amore di
Cristo per noi: e quest’ultima sera della vita terrena di Lui ce ne
offre le prove commoventi e profonde.
Beati noi, se, avidi come siamo di cose grandi e singolari, sapremo
soffermarci sullo studio, sulla contemplazione inesauribile di questo
amore di Cristo, in certo modo come ci si lascia incantare dalla
visione sensibile delle cose sconfinate, del cielo profondo, del mare
senza rive, del panorama dai limiti inaccessibili! E ciò tanto più
che noi sappiamo come l’Eucaristia, che ora ci abbaglia, è la
figurazione, trasparente alla fede, della Croce: quel Gesù,
ch’è ora glorioso in cielo alla destra del Padre, vuole essere da
noi rilevato nell’atto perenne del suo sacrificio; tale infatti è il
significato cruento del Corpo e del Sangue, immolati sulla Croce, a
noi apparenti nei simboli incruenti delle specie del pane e del vino.
Il Crocifisso è davanti a noi. Dolore ed amore ci inondano. La
scena del Calvario sembra delinearsi intorno a noi. La mensa è
diventata un altare: «Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo;
prendete e bevete, questo è il mio Sangue».
Il prodigio continua e si dilata. «Fate questo in memoria di me»:
il sacerdozio cattolico nasce da questo amore e per questo amore: ogni
fedele cristiano sarà così invitato a questa mensa ineffabile, a
questa incomparabile comunione: «Noi, dirà l’Apostolo, siamo un
solo corpo, pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo dell’unico
pane» (1 Cor. 10, 17).
Qui lo spirito, fisso nello studio del mistero eucaristico, scopre il
profilo del «Cristo totale»: Gesù, il capo e le sue membra
formanti un unico mistico corpo, la sua Chiesa, vivente in Lui
animata dallo Spirito Santo: ecco i mille e mille eletti alla
partecipazione del sacerdozio di Cristo, «stirpe che il Signore ha
benedetto» , isti sunt semen cui benedixit Dominus come abbiamo letto
nella Missa chrismalis (Is. 61, 9) di questa mattina; sono i
nostri confratelli, sono i nostri collaboratori, ai quali è stato
conferito il sacerdozio ministeriale, questa specie di potestà
prodigiosa, che ci identifica, sotto certi aspetti, a Cristo
medesimo, abilitandoci ad attualizzare la sua sacramentale presenza, e
a risuscitare le anime morte per il peccato in virtù della sua operante
misericordia. Vada in questo momento a voi, sacerdoti, che qui ci
assistete, ed a tutti e ai singoli sacerdoti della santa Chiesa,
sparsi sulla faccia della terra, il gioioso .e fremente saluto, - in
osculo pacis -, della nostra comunione in Cristo, unico e sommo
Sacerdote della nuova Alleanza, da Lui sancita nella Cena
sacrificale e memoriale del Giovedì Santo.
E così subito rifulga l’altro prodigio della moltiplicazione
sacramentale dell’Eucaristia, resa accessibile, mediante il nostro
umile e sublime ministero sacerdotale, nella sua immediata pienezza di
comunione con Cristo a tutti e ai singoli fedeli, disposti
all’ineffabile incontro: a tutti, ad ognuno di questi fratelli oggi
il saluto gioioso della nostra pace.
Che cosa stiamo dicendo? che cosa anzi celebrando? tutta la Chiesa
alimentata dall’unico Cristo, vittima immolata per la nostra
salvezza, una salvezza consumata nella trasfusione in noi della sua
vita divino-umana, mediante la comunione con Lui, fattosi nostro
sacramentale alimento? «chi mangia di me, vivrà per me» (Io.
6, 56-57), proclama Cristo Gesù. È davvero così? Noi lo
ascoltiamo con fede, trasognati, estatici, quasi in un sogno
surreale; beati!
Ma il mondo, il nostro mondo, come può accogliere questo messaggio?
Non crea esso una distanza invalicabile fra la Chiesa vivente e il
mondo moderno, secolarizzato e profano? Oh! è vero! Durus est hic
sermo, è difficile questo discorso (Io. 6. 60). È
difficile, sì; ma è il discorso dell’unità, dell’amore, della
gioia, della salvezza, della verità; non è forse discorso anche per
l’uomo moderno, per l’uomo autentico, per l’uomo in perenne ricerca
di novità e di vita? Noi auguriamo che anch’esso, l’uomo moderno,
lo possa, per sua fortuna, comprendere.
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