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Giovedì, 22 febbraio 1968
IN VISTA D’UNA MAGGIORE EFFICIENZA
DELLA VITA CATTOLICA
Venerati Fratelli e diletti Figli!
La nostra meditazione ci sia fornita dalla realtà del momento che
stiamo vivendo. Ogni circostanza è degna di riflessione; e la
riflessione ci aiuta al trapasso dalla celebrazione della liturgia, dal
pensiero all’azione, dalla comunione con la verità, che il Signore
ci offre, alla comunione con la sua vita, che il Signore attualizza
nel sacrificio eucaristico. La prima circostanza che s’impone alla
Nostra attenzione è la nostra presenza, venerati Fratelli e Figli
diletti: ecco nella sua totalità l’Episcopato Italiano; ecco in
una ristretta, ma eletta rappresentanza quel Laicato cattolico,
frutto di tanta cura e di tanto amore, che viene ora a perfezionare i
suoi rapporti con la Gerarchia della Chiesa, in vista d’una maggiore
efficienza della vita cattolica e d’una più organica solidarietà di
intenti, di responsabilità, di azione nella compagine del Popolo di
Dio. Godiamo di questo incontro. Gustiamo quest’ora preziosa
d’armonia spirituale. Lasciamo che la carità effonda i sentimenti
propri di un’assemblea come questa; l’unione materiale di questa
rara, solenne e molteplice presenza diventi, in questo istante,
spirituale. Il saluto liturgico acquisti il suo pieno significato,
e, Dio voglia, la sua efficacia: il Signore sia con voi! Quel
Signore, che disse di voler misticamente intervenire là dove alcuni
sono congregati nel suo nome (Matth. 18, 20), penetri,
avvolga, sigilli questa stupenda comunione. Un dono, un proposito
porteremo con noi da questo incontro: quello di rendere perenne
l’unità, che qui dà coscienza alla Chiesa Italiana di una sua
nuova esistenza storica, d’un suo impegno a vivere nella medesima
carità. Ripetiamo con convinzione, piena di gaudio e forte come una
promessa: «Congregavit nos in unum Christi amor».
COMUNIONE GERARCHICA, FEDELTÀ DI
SERVIZIO, AFFEZIONE PASTORALE
Un’altra circostanza di questa cerimonia da esteriore si faccia
interiore. Ci troviamo sulla tomba dell’Apostolo Pietro; ci
troviamo nella Basilica costruita con tanta monumentale ampiezza e
tanta eloquenza di arte e di spiritualità, perché più aperto, più
accogliente, più impressionante fosse l’afflusso degli oranti sul
sepolcro, umile e glorioso, del discepolo scelto per essere fondamento
d’unità e di stabilità, centro d’amore pastorale della Chiesa
cattolica di Cristo. E qui, confuso e sbalordito dall’enormità
delle sproporzioni, in cui si trova a vivere e ad agire, ma sicuro
dell’esaltante autenticità della propria missione, Colui che vi
parla deve ricordarvi che, essendo su di Lui caduta la successione
episcopale dell’Apostolo stesso, la figura e la funzione del Vicario
di Cristo è davanti a voi, tutto per voi, quale dev’essere il
Servus servorum Dei: e ciò non tanto per suscitare in voi sentimenti
di ossequio e di timore, ma piuttosto di meraviglia verso le
paradossali opere del Signore, e insieme di sicurezza, di conforto e
di fraternità. Ed ecco che un secondo dono, un secondo proposito
porteremo con noi a fecondo ricordo della presente celebrazione:
«Bonum est nos hic esse» (Matth. 17, 4); procureremo cioè
di conservare questo reciproco rapporto di comunione gerarchica, di
fedeltà di servizio, di affezione pastorale, ch’è fondamentale
nella costituzione della Chiesa universale, e che è e dev’essere
più sentito nella Chiesa Italiana: Ubi Petrus, ibi Ecclesia,
ripeteremo insieme con Sant’Ambrogio (In Ps. XL, 30: P.
L. 14, 1082).
LA FESTA DEL «NATALE PETRI DE CATHEDRA»
E poi, venerati Fratelli e carissimi Figli, oggi è festa che tutti
questi pensieri rinnova ed esalta; celebriamo precisamente la festa
della Cattedra di San Pietro; è il «Natale Petri de Cathedra»
, che, lasciando ad altra data la commemorazione del martirio
dell’Apostolo, vuole oggi onorare l’episcopato romano di Pietro,
il suo ministero, il suo magistero (cfr. J. Ruysschaert). Non
vi pare che questo aspetto dell’odierna festività ci offra un ovvio
collegamento con la professione della nostra fede, che proprio la
memoria centenaria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo ci ha
indotto quest’anno a rinnovare, ad approfondire, a proclamare? Ed
il Vangelo, di cui ora abbiamo ascoltato la lettura, non ci obbliga a
far nostra, personalmente e coralmente, la confessione di Pietro
circa la divina messianità di nostro Signor Gesù Cristo: «Tu es
Christus Filius Dei vivi!» (Matth. 16, 16)? Circostanza
anche questa degna di nota, in ordine all’importanza spirituale e
storica, alla bellezza trascendente, che acquista una espressione di
fede cattolica genuina, cosciente e collettiva dell’intero Episcopato
Italiano, insieme con il Laicato cattolico qui rappresentato, nella
corona degli Alunni dei Seminari Romani di lingua italiana, il
Lateranense col Seminario minore di Roma, il Collegio Capranica,
il Seminario Lombardo e gli altri Collegi ecclesiastici italiani in
Roma. Circostanza degna di nota, in ordine parimente alla fase
critica nella quale la fede, sia circa la psicologia dell’atto in cui
si esprime, sia circa il contenuto dottrinale che la definisce, è
venuta a trovarsi nella presente evoluzione della cultura, nella
problematica radicale che mossa da alcuni critici l’ha investita,
nello sforzo di rinnovamento teologico che un po’ dappertutto la
travaglia e la stimola, nel confronto del dialogo ecumenico, nel
pluralismo ideologico che la libertà religiosa favorisce, nel distacco
dalla razionalità tradizionale nel nostro pensiero speculativo, e in
tante altre difficoltà e crisi e tentazioni, che turbano ed esaltano
lo spirito moderno, fuori e dentro la Chiesa.
INSCINDIBILE ARMONIA DELLE TRE VIRTÙ
TEOLOGALI
Perciò la professione di fede che oggi scaturisce da questa assemblea
assume l’aspetto d’un’affermazione decisiva: noi crediamo in Dio,
noi crediamo in Gesù Cristo, noi crediamo, anzi, in un certo
senso, noi sentiamo lo Spirito Santo che ci rende audaci e felici
nell’emissione del nostro atto di fede, che arrivando unanime ai piedi
di questo altare si conclude nell’abbandono fidente a quella santa
Chiesa, che qui ha nella pietra apostolica il suo fondamento; e
senz’ombra di trionfalismo, ma nella sincerità d’una vissuta
testimonianza sperimenta la verità della parola dell’evangelista
Giovanni: «Haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra»
(1 Io. 5, 4).
Se Ci è consentito d’indugiare un istante sul senso di pienezza di
questo atto di fede, che sembra suggerito da Pietro stesso oggi da noi
venerato, quando scrive «resistite fortes in fide» (1 Petr. 5,
9), Noi vi esorteremo, venerati Fratelli e diletti Figli, a
secondare nell’atto medesimo il movimento teologale, che gli è
proprio, a tradurlo cioè nella virtù della speranza, sorella seguace
di quella fede, che ha ricevuto l’estrema rivelazione del mondo
divino: Deus caritas est (1 Io. 4, 16); «e noi alla carità
abbiamo creduto» (ib.). Si, «Dio è Amore. La speranza è la
risposta spontanea dell’anima a questa certezza, una volta che sia
accolta e misurata. Essa erompe al punto preciso, all’istante
preciso, in cui la fede in Dio si rivela una fede nella carità»
(Card. Garrone, Que faut-il croire?, p. 284). Del resto
nessuno di noi ha dimenticato la definizione scritturale della fede,
coessenziale alla speranza : «Est autem fides sperandarum substantia
rerum» (Hebr. 11, 1); «Fede è sostanza di cose sperate»
(Dante, Par. 24, 64).
DARE AGLI UOMINI SPERANZE BUONE, VERE E
NUOVE
Perciò sembra a Noi che la vostra professione di fede, resa solenne
dalle ricordate circostanze, se vuol essere fissa alle verità di cui
essa ci fa dono infallibile ed ineffabile, debba lasciarsi trasportare
negli orizzonti escatologici, che sono la realtà di quel regno di
Dio, da noi pregustato nel tempo, da noi predicato nel nostro
divenire storico, da noi ambito mediante tutta la disciplina della vita
cristiana, da noi preferito a quell’ordine temporale, di cui pur
siamo cittadini, ma pellegrini verso quei «nuovi cieli, e quella
nuova terra, che noi attendiamo secondo la promessa di Cristo»
(cfr. 2 Petr. 3, 13).
Né si dica che così orientati e liberi da aspirazioni temporali, noi
diventiamo forestieri in questa terra, in cui la Provvidenza ci ha
dato di vivere, né incapaci di colloquio col mondo profano, tutto
teso verso le realtà terrene, diventate nel tempo nostro estremamente
feconde e seducenti. Tutta la Costituzione conciliare Gaudium et
spes è là per dimostrare il contrario e per risolvere il problema dei
rapporti del cristianesimo con l’umanesimo. E concludiamo piuttosto
che la nostra missione, e proprio in quest’ora inquieta e confusa, è
quella di infondere speranze buone, speranze vere, speranze nuove agli
uomini a cui si rivolge il nostro ministero; e ciò - sia detto con le
cautele del caso - anche per la vita temporale dei nostri fratelli
(tali infatti sono per noi gli uomini, che la vita vissuta rende a noi
prossimi).
Tocca a noi, credenti, speranti ed amanti, portare, secondo l’arte
nostra, continuamente all’uomo cieco la luce, all’uomo affamato il
pane, all’uomo adirato la pace, all’uomo stanco il sostegno,
all’uomo sofferente il conforto, all’uomo disperato la speranza, al
fanciullo la gioia della bontà, al giovane l’energia del bene. Se
crisi oggi nel mondo vi è, essa è quella della speranza, quella
dell’ignoranza dei fini per cui valga la pena d’impiegare l’enorme
ricchezza di mezzi, di cui la civiltà moderna ha arricchito, ma
altresì appesantito, la vita umana. Noi siamo le guide. Noi siamo
coloro che hanno la scienza dei fini. Noi dobbiamo essere maestri
della speranza. E questo sia detto per voi, Pastori, a cui appunto
è dato condurre il gregge umano ai pascoli della vera vita; sia detto
per voi, Laici cattolici, che con i Pastori apportate alla Chiesa e
al mondo il pensiero e l’opera della salvezza cristiana.
CONFERMA DI STIMA D’INTERESSAMENTO DI
VOTI
E qui fermiamo il Nostro discorso.
Non abbiamo parlato di quanto si riferisce alla vostra Assemblea
Generale e alle molte questioni concrete, in cui oggi si svolge il
vostro ministero pastorale; ma la lettera che, a Nostro nome, vi è
stata indirizzata in proposito dal Nostro Cardinale Segretario di
Stato, e le ampie ed autorevoli comunicazioni fatte all’Assemblea
stessa dal Cardinale Presidente, il Patriarca di Venezia, come
dagli altri Oratori, hanno già dato il dovuto rilievo a codesti fatti
ed a codesti problemi. Ci basti ora assicurarvi del Nostro vivissimo
interesse e del Nostro proposito di assecondare quanto meglio possibile
le aspirazioni, le ansie, le fatiche dei Nostri venerati Confratelli
nell’Episcopato, e rinnovarvi l’espressione della Nostra
venerazione e della Nostra stima per la mirabile vostra operosità,
che ben di cuore auguriamo sempre più organicamente ed efficacemente
compresa, condivisa, sorretta dal nostro valoroso Laicato cattolico.
E valga a convalidare questi sentimenti e questi voti la Nostra
Benedizione Apostolica.
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