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Giovedì, 21 giugno 1973
La riverenza al mistero eucaristico, che stiamo celebrando, assorbe
la nostra attenzione, e certamente la vostra; e ci impedisce di
esprimere a voi tutti, presenti a questo rito, al Parroco di questa
comunità raccolta intorno alla Chiesa di Santa Silvia, ai
Confratelli, ai fedeli qui dimoranti, ed anche alle Autorità civili
che sappiamo convenute a questa celebrazione con grande nostra
riconoscenza, di esprimere, diciamo, il saluto che abbiamo nel cuore
per tutti e per ciascuno, la gioia d’essere tra voi e di potere con
voi e per voi compiere la solenne cerimonia del «Corpus Domini», i
voti che davanti al Signore formuliamo per voi, per gli assenti
anche, per quelli che vorremmo chiamare a questo raduno di fede
comune, per gli ammalati specialmente, per i bambini, i ragazzi, i
giovani, i lavoratori, i genitori d’ogni famiglia di questo
quartiere, e gli abitanti di tutta la nostra Roma, che vogliamo
considerare spiritualmente presenti, e da voi, che ne siete una eletta
porzione, degnamente rappresentata. Ma ciò che non possiamo in
questo momento esprimere con le dovute parole, lo esprimiamo con la
nostra presenza, con la nostra tacita preghiera.
L’Eucaristia ci assorbe, e ci obbliga a concentrare in lei ogni
nostro atto, ogni nostro pensiero. Essa è ora il punto focale del
nostro animo, e noi vogliamo supporre che così sia anche per i vostri
animi. Noi tutti crediamo, noi tutti sappiamo, che qui, ora, in
mezzo a noi, Gesù Cristo è presente. Vivo e vero, il nostro
Signore, il nostro Salvatore, il nostro Maestro, Gesù Cristo è
presente. Il solo tema di questa misteriosa, ma reale presenza
trattenga per questi brevi istanti il nostro pensiero.
Per essere semplici noi lo classifichiamo sotto due congiunzioni
grammaticali: dunque e perciò.
Dunque è presente il Signore nostro Gesù Cristo; questo dice che
la celebrazione del «Corpus Domini», anzi ora meglio formulata dal
titolo di «festività del Corpo e del Sangue di Cristo», è
festività dell’Eucaristia.
A ben riflettere, questa festività noi l’abbiamo già celebrata; e
ciò fu nel Giovedì Santo. Ricordiamo tutto di quella liturgia,
estremamente realista per la sua aderenza presso che testuale al
racconto evangelico commemorato; la cena, ultima del Signore con i
suoi discepoli, tutta pervasa dalla memoria dell’immolazione rituale
dell’Agnello pasquale e dal presentimento dell’imminente tragedia che
pende sulla vita temporale del Maestro, per farne la vera vittima
d’una Pasqua redentrice; e tutta tessuta sul filo di discorsi,
pronunciati da Gesù quasi a monologo, in una incomparabile tensione
di sentimenti, di sentenze, di precetti, di atti profondi e
definitivi, che solo la sua divina consapevolezza d’una celebrazione
testamentaria, sacramentale e sacrificale, poteva dominare e riempire
di smisurati significati. Che cosa accadde in quell’ora fatidica?
Ricordate? La cena diventò un memoriale: «fate questo in memoria
di me» (Luc. 22, 19; 1 Cor. 11, 24). Memoriale di
che cosa? del sacrificio che Gesù, vero agnello di Dio immolato per
la salvezza del mondo, stava per consumare nel dolore, nel disonore,
nel sangue della sua oblazione sulla Croce; memoriale della sua
identica, se pur diversamente figurata presenza, rievocabile mediante
l’incarico, l’investitura, la potestà, in quello stesso istante
conferita agli apostoli commensali, di rinnovare in modo reale, ma
incruento, il sacrificio che faceva della vittima divina, espressa nei
segni sacramentali del pane e del vino, l’alimento del corpo e del
sangue di Gesù, dati al vertice dell’amore per la vita del mondo.
È troppo! è troppo! come comprendere? come comportarci? come
corrispondere?
Noi rimanemmo, nella celebrazione rievocatrice del Giovedì Santo,
quasi storditi e sopraffatti dall’intreccio immensamente drammatico del
racconto evangelico di quella sera suprema e dai traboccanti misteri,
concentrati nel rito, che si attestava non solo come immagine, ma come
sublime realtà. Ci parve di intravedere qualche cosa di
eccessivamente straordinario in quella liturgia per eccellenza, perché
non ci bastò di assistere alla sua immediata celebrazione, ma ci parve
doveroso d’andare subito dopo pellegrinando ai così detti
«sepolcri», cioè agli altari dove l’Eucaristia era custodita e
onorata, in un’atmosfera di tenace memoria, di desolante passione,
di atteso epilogo risolutivo d’un tanto incomportabile dramma. Come
avviene alla veglia di qualche nostro defunto, rimanemmo assorti in
un’indefinibile e pur tenera e dolce tristezza, che presagisce e
indovina il sopravvento dell’amore e della vita sopra la morte e la
disperazione.
E così il Giovedì Santo passò lasciando in noi l’impressione che
noi non avevamo né tutto capito, né tutto raccolto della sua
ineffabile eredità. Ed ecco allora la festività presente, il
«Corpus Domini», la quale ben si può considerare un ripensamento,
un ritorno a quell’ultima cena, a quella misteriosa notte, a quella
non bene valutata eredità.
Abbiamo perduto la presenza sensibile di Gesù, ma Egli ci ha
lasciato la sua presenza sacramentale. Come sono vere le parole di
Lui, pronunciate proprio in quella notte di commiato: «Io non vi
lascerò orfani; Io verrò a voi» (Io. 14, 18). Parole
convalidate dalle ultime pronunciate da Gesù risorto, prima della sua
scomparsa dalla scena temporale di questo mondo: «Ecco Io sono con
voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Matth. 28,
20).
Dunque Gesù è con noi! Ecco la nostra conclusione, che dà
ragione di questa nostra celebrazione, come di tutte quelle che il
«Corpus Domini» suscita nella Chiesa cattolica.
Dunque Gesù è con noi! L’aveva detto l’Angelo in sogno a S.
Giuseppe (Ibid. 1, 23), ripetendo la profezia d’Isaia: «.
. . la Vergine darà alla luce un Figlio, che sarà chiamato
Emmanuele, che vuol dire: Dio con noi». Gesù è rimasto fra noi
uomini! Noi, suoi seguaci e credenti, noi lo sappiamo: Gesù è
ancora presente! Finché un Sacerdote celebrerà una Messa su questa
terra, Gesù, quel Gesù del Vangelo e quello stesso Gesù che ora
è in cielo, e siede nella gloria alla destra del Padre, è
presente, è qui.
Dobbiamo ravvivare in noi stessi il senso di questa meravigliosa
presenza. Gesù è con noi. Dove, come? ora non diciamo. Ci
basta affermare e quasi sentire questa presenza: una presenza che i
nostri sensi non possono avvertire, ma, per via di fede, l’anima
sì. È il «mistero della fede» che ci obbliga a esercitare con
convinta energia questa virtù fondamentale di tutto il nostro sistema
religioso. Crediamo sulla Parola di Cristo: «questo è il mio
Corpo, questo è il mio Sangue». Trepidiamo ed esultiamo: è
presente.
Un altro ordine di conseguenze scaturisce allora da questa misteriosa
realtà. È presente: perciò? perciò io lo cerco, io lo trovo, io
lo adoro, io lo amo. La nostra religione personale e comunitaria
prende fuoco da questa scoperta eucaristica. Se Cristo ci invita
personalmente alla sua mensa, come potremo rifiutare la sua bontà?
accogliere l’invito vuol dire partecipare al rito sommo e centrale
della nostra fede, vuol dire partecipare alla santa Messa.
L’obbligo diventa un diritto. Un diritto che ci deve incantare: noi
acquistiamo la possibilità di fare di Cristo non solo nostro
commensale, ma - chi lo direbbe? - nostro alimento: chi ne mangia,
è detto, vivrà; vivrà per la vita eterna.
Perciò - ecco la logica dell’Eucaristia che continua - perciò
ciascuno di noi deve sentire la fame d’un tale sacramento, principio
vero ed operante di vita, la quale, nutrita da Cristo stesso, non
indarno potrà dirsi vita cristiana.
Perciò ancora le conseguenze dell’Eucaristia sono immense per
l’esistenza spirituale d’ogni individuo, come per l’esistenza
spirituale d’una vera comunità cristiana e cattolica. Si forma così
il Popolo di Dio, dapprima nella sua unità interiore, poi nella sua
carità sociale. L’unità del Corpo mistico di Cristo, ch’è la
Chiesa, è la grazia specifica - la res - dell’Eucaristia (Cfr.
S. TH. III, 73, 3). Nessun senso di solidarietà, e
quindi di progresso civile, potrebbe essere più autentico, più pieno
e più operante di quello che nascesse dalla coscienza comunitaria
dell’Eucaristia. Il mistero diventa luce, diventa forza. E quanto
ancora potremmo dirvi continuando il discorso della fecondità vitale
dell’Eucaristia presente fra noi: quale sorgente di bontà
collettiva, quale conforto per le comuni sofferenze, quale splendore
per il costume pubblico, quale speranza per la nostra giustizia e per
la nostra pace!
Se Egli è presente, così deve essere! così può essere! Ecco
perché celebriamo la festa del «Corpus Domini» fuori delle nostre
Chiese: ne ha diritto la sua carità; ne ha bisogno la nostra
umanità. Ricordiamolo. Amen.
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