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Mercoledì delle Ceneri, 24 febbraio 1971
Noi diremo antico e tradizionale questo rito, col quale intendiamo
inaugurare la quaresima, non antiquato e anacronistico, per il fatto
che esso vuol essere un rito di penitenza, e che intende tributare alla
sua annuale espressione comunitaria e liturgica, qual è la quaresima,
la debita osservanza, secondo lo spirito e le norme della Chiesa e
secondo il precetto che ne fa ai fedeli il recente Concilio (Cfr.
Sacrosanctum Concilium, 109-110).
Noi ci domanderemo perciò, in capite quadragesimae, se ai giorni
nostri si possa ancora parlare di penitenza, poiché non solo sono
ormai fuori uso le pratiche penitenziali della quaresima d’una volta,
primissima fra quelle pratiche il digiuno (rimasto d’obbligo per tutta
la comunità cattolica di rito latino solo per questo mercoledì delle
ceneri e per il venerdì santo), ma sembra obliterato il concetto
della penitenza, sostituito da una mentalità completamente contraria,
quella cioè del culto della propria persona fisica e sociale, e che va
dalla cura scrupolosa, e sempre commendevole, dell’igiene sanitaria e
della buona salute corporale, fino allo studio di evitare ogni
molestia, ogni innocuo limite al proprio benessere, fino poi
all’edonismo del costume e del pensiero, non che talora ai suoi
deplorevoli eccessi del divertimento smodato, mondano e licenzioso, e
perfino della droga esilarante e micidiale. L’uomo moderno,
parrebbe, non vuole più nemmeno sentir parlare di penitenza, come di
cosa irrazionale e inammissibile, triste reminiscenza di tempi oscuri
ed inumani; egli organizza tutta la sua vita sulla formula dello stare
bene; né la concezione cristiana della vita vi ha normalmente
obbiezione da opporre, anzi la carità che tutta la ispira, la rende
solidale e promotrice specialmente quando si tratta di procurare a chi
versa nella penuria e nel bisogno i beni necessari alla salute fisica
del legittimo benessere umano, della vera dignità della vita.
NECESSITÀ DELLA METANOIA
Ma questa severa parola «penitenza» non può tuttavia essere espunta
dal discorso programmatico cristiano. Essa è dichiarata necessaria.
Dice e ripete infatti il Signore, commentando un fatto di sangue e le
vittime del crollo della torre di Siloe: «Se voi non farete
penitenza, tutti egualmente perirete» (Luc. 13, 1-5).
Anzi, l’annuncio del regno di Dio, che apre il Vangelo, è fatto
all’insegna della penitenza. Così Giovanni, il Precursore
(Marc. 13, 1-4); così Gesù: «Fate penitenza e credete
al Vangelo» (Marc. 1, 15); e così la prima predicazione
apostolica, per bocca di Pietro, il giorno di Pentecoste, ha per
tema la penitenza: «Fate penitenza, e poi ciascuno di voi sia
battezzato . . .» (Act. 2, 38; cfr. 3, 19). È
importante risalire al significato originario di questa parola, che
cosa significa penitenza, «metanoia» in greco, nel linguaggio
scritturale? Significa conversione, come tutti sanno, significa
cambiamento di mentalità; e si riferisce questo cambiamento allo stato
dell’uomo peccatore, bisognoso di mutare vita e di rivolgersi a Dio,
e perciò desideroso di deplorare le proprie mancanze, di pentirsi e
d’invocare la divina misericordia. Perciò la penitenza è innanzi
tutto un complesso di atti interiori: è un rivolgimento di pensieri,
è una coscienza della propria anormalità morale, della propria
indegnità, un riconoscimento della propria irregolare verità
personale di fronte a Dio, la quale non può essere che una verità
umiliante. È intanto nell’essenza dell’atto religioso l’umiltà
(pensiamo al Magnificat); se poi l’umiltà deve riconoscere non
solo il motivo metafisico dell’incolmabile dislivello fra la creatura
ed il Creatore, ma anche il motivo di una indegnità morale, la
verità che essa esprime diventa o disperata o penitenziale; e chi la
esprime pronuncia su se stesso un giudizio di condanna, ovvero ha per
sé un’invocazione di misericordia: questa ultima invocazione è la
penitenza interiore; cioè un profondo senso personale di verità e di
giustizia, che fa sue le parole del pubblicano della parabola, il
quale non osava oltrepassare le soglie del tempio; e nemmeno alzava gli
occhi al cielo, ma si percuoteva il petto dicendo: «O Dio, abbi
pietà di me, che sono peccatore» (Luc. 18, 13). Questa è
la contrizione, è la conversione, è la penitenza, dalla quale,
venendo incontro all’uomo penitente la grazia, germoglia la nuova vita
dell’anima. La metamorfosi dell’uomo vecchio nell’uomo nuovo
prodigio di grazia, di psicologia, di orientamento morale, viene
proprio a maturazione mediante la penitenza (Cfr. Rom. 6, 6;
Eph. 4, 22-24; Col. 3, 9-10).
Dal che si vede, Fratelli e Figli carissimi, che la penitenza,
lungi dal farci paura, dovrebbe stimolare il nostro coraggio e la
nostra speranza. Essa non è fine a se stessa, anche se sempre avremo
bisogno della penitenza interiore durante tutto il corso della nostra
tempestosa navigazione nel tempo. Dice S. Tommaso: «Tale
penitenza deve durare fino alla fine della vita» (S. TH. III,
84, 8); come sempre chi guida una barca in un mare agitato deve
continuamente manovrare il timone per conservare la rotta sulla linea
giusta; ma sta il fatto che la penitenza intende corroborare, non
deprimere chi ne intraprende il coraggioso e austero esercizio, e
conduce alla pace e alla gioia interiore, non alla tristezza. È una
pedagogia agonistica dello spirito quella cristiana, come c’insegna
S. Paolo, il quale, paragonando i fedeli all’atleta che ambisce
giungere primo al traguardo, così li esorta: «Correte in modo da
prendere il premio» (1 Cor. 9, 25; 2 Tim. 2, 5;
ecc.).
LA RINUNCIA ALLE COSE SUPERFLUE
E questo viene a proposito anche nel nostro tempo, nel quale una certa
fobia per la tradizione ecclesiastica e una certa simpatia per la
secolarizzazione ha fatto perdere a tanti cristiani, e perfino ad
alcuni ambienti religiosi la stima ed il gusto dello stile austero e
penitenziale adottato dalla Chiesa con certe sue osservanze ascetiche,
di per sé non indispensabili, ma utili e comprovate dalla esperienza
per conservare allo spirito il suo primato nel complicato e disordinato
(a causa del peccato originale) complesso organismo umano, per dare
all’atteggiamento penitenziale interiore il suo esercizio esteriore e
la sua testimonianza sociale, e per neutralizzare la tentazione mondana
oggi tanto insinuante e diffusa: non solo il digiuno, per la
comprensione, che la madre Chiesa ha dei bisogni dei suoi figli e dei
costumi dei tempi, è praticamente quasi del tutto scomparso, ma è
scomparsa in molti settori della disciplina ecclesiastica l’usanza
dell’abito clericale e religioso, l’ossequio ad una regola puntuale e
severa, la rinuncia alle cose superflue e all’esibizione spesso
equivoca e infida che i mezzi di comunicazione sociale offrono
dell’opinione pubblica e della dissipazione mondana. Insensibilmente
anche noi seguaci di Cristo e classificati come fedeli cattolici
tendiamo spesso ad una vita cristiana comoda e conformista, e piano
piano escludiamo praticamente la mortificazione, il sacrificio, la
croce dal nostro costume. Molti oggi desiderano un cristianesimo
facile, affrancato da leggi canoniche e da obbedienze comunitarie;
preferiscono, come qualcuno dice, scegliere la libertà, sviluppare
la personalità propria, concedere alla curiosità non solo una
prudente e legittima conoscenza, ma talora l’esperienza delle forme
riprovevoli o discutibili della vita profana: letture, conversazioni,
spettacoli, frequenze, divertimenti, taluni criteri amorali . . .
. che certo non riflettono la valorosa, coerente e perseverante
sequela del Signore, il Quale ha predicato la via stretta (Matth.
7, 13), la semplicità (Cfr. Matth. 10, 10) e la
povertà, e la legge del morire per vivere (Cfr. Io. 12,
24-26).
L'ESERCIZIO DELLA CARITÀ
Non vogliamo con questo rendere artificialmente difficile la pratica
della vita cristiana, né vogliamo dare soverchia importanza al
formalismo esteriore, in cui essa può cadere, né vogliamo censurare
le riforme che la Chiesa promuove ed approva. Vogliamo piuttosto un
cristianesimo logico e forte, un’adesione filiale e virile alle
esigenze istituzionali e comunitarie della Chiesa, un’abitudine
studiosa e sollecita nel compiere la volontà di Dio, una
valorizzazione morale e spirituale della fedeltà volonterosa e lieta al
quotidiano dovere, una spiritualità bivalente, orante cioè e
operante.
E, per dir tutto, due altri punti meritano menzione in questa rapida
apologia della penitenza, che l’apertura della quaresima ci suggerisce
: l’esercizio della carità, per primo, verso i poveri e i
sofferenti, verso le opere della beneficenza e dell’assistenza
cristiana, verso le missioni cattoliche e lo sviluppo del così detto
terzo mondo, verso le nostre scuole e la nostra stampa, verso le
necessità della comunità ecclesiale e sociale, e sono tante; la
carità, voi sapete, è multiforme; si esplica nella larga raggiera
delle opere di misericordia corporali e spirituali; è multiforme,
come lo sono i bisogni dei nostri fratelli; nessuno può dire di non
essere in grado di effondere per loro qualche tesoro di carità: di
preghiera almeno, dato che la quaresima aumenta le dosi e le forme
della preghiera (sarebbe questo altro discorso da fare!). E poi,
secondo punto, la riconciliazione con il dolore! vogliamo dire: lo
sforzo per comprendere quale valore possa avere per la gloria di Dio e
per la nostra e altrui salvezza la sofferenza: espiazione,
purificazione, rigenerazione, redenzione, amore, amore che vince la
morte possono essere i tesori nascosti nel dolore umano, anche e
soprattutto in quello naturalmente per noi inesplicabile e assurdo: il
dolore innocente. Non è forse con l’amore e col dolore che Cristo
ci ha redenti? e non era Egli innocente? Mistero drammatico, alla
cui contemplazione e partecipazione la quaresima ci conduce: in fondo
al suo faticoso itinerario sta il Crocifisso, sta Gesù risorto.
Procediamo con fiducia. Egli ci precede con la sua parola, il suo
esempio, la sua grazia. Procedamus in pace.
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