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Giovedì Santo, 19 aprile 1973
Fratelli,
Siate i benvenuti a questa cerimonia del Giovedì Santo, alla quale
sentiamo di dovere tutti assistere con totale adesione. Il fatto
stesso che la celebriamo in questa basilica, cuore della Chiesa
cattolica, e che siamo volutamente insieme, tutti penetrati del senso
interiore della solennità del rito, e avidi di congiungere in noi
stessi la partecipazione alla comprensione di ciò che stiamo facendo,
ci mette alla ricerca, quasi ansiosa, fervorosa certamente, del suo
significato.
Diremo molto brevemente, concentrando la nostra attenzione su alcune
parole di Gesù, l’ospite protagonista di quell’ultima cena. Che
per Lui fosse l’ultima lo disse Egli stesso (Luc. 22,
15-16), e lo fece comprendere lungo tutti i discorsi di quella
intima e mestissima riunione conviviale, motivata dalla celebrazione
della pasqua rituale ebraica (Cfr. Io. 16, 5-7; etc.), la
quale culminò, come sappiamo, nelle misteriose parole
dell’istituzione della santissima Eucaristia, concluse con quelle
precettive ed esse stesse istitutive d’un altro sacramento, l’Ordine
sacro, generatore ministeriale dell’Eucaristia medesima: «Questo
fate in memoria di me» (Luc. 22, 19; 1 Cor. 11,
24-25). Egli disse. È in virtù di queste parole che noi
questa sera siamo qui riuniti. Sono parole testamentarie. Saranno
vere ed efficaci fino all’ultima sua venuta, al termine del presente
ordine temporale, alla fine dei secoli: donec veniat, fino a quando
Egli, Gesù, non abbia a ritornare, dichiara S. Paolo. È
dunque l’atto memoriale per eccellenza che noi ricordiamo e ripetiamo
in questo momento, adempiendo il precetto che lo rende perenne durante
lo svolgimento della storia; è la presenza del Signore che accompagna
il cammino della sua Chiesa nel tempo, nel «mistero della fede», il
quale suppone la presenza reale di Gesù nell’involucro sacramentale,
ed esige un’intelligenza obbediente, una accoglienza di fede da parte
nostra, l’omaggio amoroso d’una nostra qualificata memoria.
Questo sforzo di memoria è essenziale alla nostra celebrazione. La
prodigiosa facoltà della memoria è posta in esercizio come stimolo
della nostra capacità recettiva dell’Eucaristia. Essa influisce su
chi la riceve per virtù propria ex opere operato, ma la sua azione è
orientata all’esercizio del nostro ricordo, cioè all’accoglienza di
Cristo ricevuto e pensato dentro di noi, alla sua permanenza
personale, viva e reale dentrodi noi, ma insieme concettuale e
rispecchiata nella nostra mente, nella nostra psicologia, nel nostro
cuore, secondo l’attitudine nostra ad assimilarlo, ad accettarlo, ad
amarlo, a coincidere, per così dire, con lui: donec formetur
Christus in vobis, fino a che Cristo si formi in voi, dice S.
Paolo (Gal. 4, 19). Una intenzione fondamentale di permanenza
domina il mistero dell’Eucaristia; di permanenza cioè di Gesù fra
noi oltre il limite abissale della sua passione e della morte, di
permanenza vera, ma sotto lo schermo sacramentale, che mentre toglie a
noi la gioia della sua visione sensibile, offre a noi la sicurezza
della sua effettiva presenza, ed insieme l’altro inestimabile
vantaggio della sua indefinita e univoca moltiplicabilità, nei tempi e
nei luoghi, quanto occorra per saziare la fame di coloro che rimarranno
nella sua fede e nel suo amore. Rimanere è l’intenzione sacramentale
dell’Eucaristia, cioè riguardo a Gesù; rimanere è l’intenzione
morale, cioè riguardo a noi, ai quali Gesù vuol essere per tutto il
nostro pellegrinaggio nel tempo il viatico, il compagno, l’alimento:
dobbiamo rimanere cos1 nella sua dilezione. Vedete a suffragio di
questa affermazione, quante volte la parola «rimanere» è ripetuta
nei discorsi di Gesù in quell’ultima cena (Cfr. specialmente Io.
15).
Perciò un dovere, Fratelli, dobbiamo ravvivare nei nostri animi,
quello di «ricordare» Gesù, com’egli ha voluto esserlo; ed ecco
che da questo nostro specifico memoriale sgorga con impetuosa, cioè
amorosa abbondanza il nostro culto eucaristico, al quale la Chiesa,
con indefessa premura, ci invita e ci esorta.
Poi, sempre limitando la nostra ricerca al significato essenziale di
quel convito pasquale, con cui Cristo volle congedarsi dai suoi
discepoli, noi non potremo preterire il trapasso dalla figura
dell’agnello alla realtà della vittima vera per la nostra Pasqua,
ch’è Cristo medesimo immolato (Cfr. 1 Cor. 5, 7), trapasso
operato con la istituzione dell’Eucaristia, che nella figura del pane
e del vino, rappresenta e rinnova in modo incruento il sacrificio
redentore di Gesù. Come discorrere in questo troppo breve momento di
così alta e drammatica teologia? beati noi se alla deficienza del
nostro discorso e ancor più del nostro pensiero, supplisce, dopo
l’atto di fede a cui abbiamo accennato, supplisce l’amore.
L’Eucaristia è il punto privilegiato dell’incontro dell’amore di
Cristo verso di noi; un amore che si rende disponibile per ciascuno di
noi, un amore che si fa agnello sacrificale e cibo per la nostra fame
di vita, un amore che si esprime nella forma e nella misura della sua
specifica e più alta ed esclusiva autenticità, cioè un amore che
tutto si dona: dilexit me - dice l’Apostolo - et tradidit
semetipsum pro me, amò me e sacrificò se stesso per me (Gal. 2,
20; Eph. 5, 2; 5, 25); e dell’incontro del nostro povero
e vacillante amore per Lui, che a tanta sua incalzante carità trova
finalmente l’ardire di superare ogni timidezza, ogni debolezza e di
rispondere con Pietro: «Signore . . . Tu sai che io ti amo!»
(Io. 21, 15-17). L’amore avrà la fortuna di penetrare in
qualche suo mistico intuito e con qualche sua anticipata pienezza
(Cfr. Eph. 3, 17, 19) nel mistero di carità, che
oltrepassa ogni intelligenza, il mistero del sacrificio eucaristico, e
d’inabissarvi se stesso partecipando a quell’umile, incommensurabile
rito, ch’è la nostra santa Messa.
Fratelli, non vi diciamo di più. Ma non concluderemo queste
balbettanti parole senza confidarvi che un’altra ne teniamo nel cuore,
desunta anche essa da quelle indimenticabili della Cena del Signore,
ed è questa: «Io vi do il comandamento nuovo: amatevi gli uni con
gli altri, come Io ho amato voi» (Io. 13, 34; 15,
12). Quell'«Io» è Gesù, il Cristo, nostro Signore; quel
«voi» sono gli Apostoli, sono tutti i fedeli che hanno creduto a
Lui, «secondo la loro parola» (Ibid. 17, 20); siamo noi,
Chiesa Romana e Chiesa Cattolica, noi, figli della terra e del
secolo, che oggi, Giovedì Santo, dobbiamo tutti sentirci folgorati
dall’amore crocifisso ed eucaristico di Cristo; e dobbiamo ancora
tanto imparare ad amarci gli uni gli altri, secondo il suo esempio e il
suo precetto.
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