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Venerdì, 30 settembre 1977
Venerabili Fratelli,
«Gratia vobis et pax a Deo Patre nostro et a Domino Iesu
Christo» (1 Cor. 1, 3).
Con queste parole dell’Apostolo delle genti ci piace oggi porgere il
Nostro saluto a voi, qui presenti, che, lasciate le consuete
occupazioni del vostro ministero pastorale, siete convenuti a Roma per
partecipare al Sinodo dei Vescovi, sul quale in questo momento si
concentrano l’attenzione e la speranza della Chiesa santa di Dio.
Godiamo insieme di questo incontro. Gustiamo quest’ora di profonda e
corroborante letizia spirituale. Il Signore che disse di voler essere
misticamente presente là dove sono alcuni congregati nel suo nome
(Cfr. Matth. 18, 20): avvolga e sigilli con la luce e
l’abbondanza della sua grazia questa nostra assemblea, stupendo
esempio di comunione ecclesiale.
L’argomento della riflessione sul quale amiamo intrattenerci con voi
in questo momento così significativo, ci viene offerto dal brano
evangelico che abbiamo or ora ascoltato, dalle parole cioè con le
quali San Marco conclude il suo Vangelo. In questo brano varie cose
richiamano la nostra attenzione, e specialmente le persone dei
discepoli e degli Apostoli del Signore; il Vangelo da predicare;
destinatari dell’annuncio evangelico: sono questi i grandi capitoli
del nostro Sinodo, che ritroveremo nel corso del Sinodo stesso come
altrettanti temi.
Fermiamo stamane la nostra considerazione sulla parte del testo
evangelico che si riferisce alle persone dei discepoli del Signore,
perché direttamente ci riguarda. Essa è per noi Vescovi; in
particolar modo per i Vescovi scelti per la celebrazione di questo
Sinodo. Che il Signore ci illumini!
A questo riguardo due aspetti intendiamo toccare, e anzitutto la
nostra coscienza personale.
Siamo scelti, siamo chiamati, siamo investiti dal Signore di una
missione trasformatrice. Come Vescovi, siamo i Successori degli
Apostoli, i pastori della Chiesa di Dio. Un dovere ci qualifica:
essere testimoni, essere portatori del messaggio evangelico, essere
maestri di fronte all’umanità. Tutto questo vogliamo ricordare,
Venerati Confratelli, per ravvivare la coscienza della nostra
elezione, della nostra vocazione, delle responsabilità dell’ufficio
grande, pericoloso, incomodo che ci è stato affidato; ma soprattutto
per riconfermare tutta la nostra fiducia nell’assistenza di Cristo
alle nostre sofferenze, alle nostre fatiche, alle nostre speranze.
Giacché pensando all’umanità di oggi, alla quale è diretta la
nostra azione pastorale - umanità che tutto ci sembra far credere
ostile, indifferente, sorda al nostro discorso, anche se in realtà
molte volte in questo atteggiamento si può intravedere un inconscio
desiderio, una ricerca autentica e sofferta di Dio - pensando a tutto
ciò, diciamo, dal punto di vista umano, l’animo è invaso da un
senso di sgomento, che quasi paralizza ogni energia. Non si tratta di
umiltà, ma di un timore che istintivamente spinge alla ricerca
istintiva di funzioni meno impegnative, meno rischiose. Sì, essere
veri apostoli di Cristo oggi è un grande atto di coraggio, e insieme
un grande atto di fiducia nella potenza e nell’aiuto di Dio; aiuto
che Iddio non potrà certamente far mancare, se il cuore
dell’apostolo sarà aperto all’influsso delicato e possente della sua
grazia. Del resto, come non ricordare a questo riguardo le parole di
San Paolo sull’armatura del cristiano, tanto più confacente
dell’apostolo? La Chiesa ha bisogno oggi di uomini coraggiosi,
combattivi, capaci di esporre se stessi per il proprio ministero,
ministero alle volte ardito, silenzioso altre volte, ma sempre
vigilante, attivo, vissuto con fiducia e perseveranza; e perciò vi
esorteremo con lo stesso San Paolo: «accipite armaturam Dei, ut
possitis resistere in die malo et in omnibus perfetti stare . . . in
omnibus sumentes scutum fidei, in quo possitis omnia tela nequissimi
ignea extinguere» (Eph. 6, 13 ss.).
Il secondo aspetto, al quale s’indirizza la nostra riflessione, è
costituito dall’estensione del nostro ministero. Il Maestro ci dice
di andare in mundum universum (Marc. 16, 15), e noi sappiamo
bene come è da questo preciso mandato che il nostro ministero si
qualifica universale e cattolico, anzi è lecito aggiungere sulla base
del termine greco - cosmico. Non ha, dunque, limiti geografici
l’evangelizzazione: potenzialmente, essa tende e deve comprendere
tutto il mondo, il mondo umano prima di tutto, ma, per la centralità
dell’uomo nella realtà della creazione, per la funzione
rappresentativa e sacerdotale ch’egli vi esercita, anche il mondo
inanimato delle cose tutte.
Questo panorama del mondo, sul quale s’affaccia la responsabilità di
noi evangelizzatori, ci dà l’idea dell’immensità, ci fa toccare
con mano il peso della nostra missione. Quanto, quanto c’è ancora
da fare! Ne risulta a prima vista un’inferiorità schiacciante,
un’inadeguatezza da parte nostra che può sembrare insufficienza
totale. Ma è per questo che deve affermarsi e confermarsi il nostro
impegno: lo sguardo sul mondo e sull’avvenire non deve generare
l’accidia, propria dell’uomo che non attinga al fonte della grazia
apostolica il proprio giudizio sul mondo ed il metro per valutare le
reali possibilità della sua missione. Tutt’altro: lungi dal
ripiegarci in noi stessi, appunto per reagire alla tentazione
dell’inerzia, noi dobbiamo esser certi che la « virtù », ossia la
forza, l’aiuto, il soccorso del Signore è con noi. Ce lo
garantisce lo stesso Gesù nel passo conclusivo parallelo a questo del
primo Vangelo: Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus (Matth.
28, 20), e l’esame della scena mobile della storia moderna ce ne
offre la conferma. Gli uomini oggi si staccano dalla religione, e non
ascoltano facilmente il nostro messaggio perché sono convinti, a
torto, che l’immenso progresso della civiltà razionale, quale
risulta dalla tecnologia e dalla scienza, annulla il bisogno della
religione, mentre a chi ben osserva la realtà dei fenomeni umani, si
fa più chiara una duplice conseguenza di tale progresso. Da una
parte, le religioni create dall’uomo non gli bastano, mentre l’uomo
progredito si crede soddisfatto e sostituisce la fiducia nella
fecondità meravigliosa del proprio lavoro guidato dalla scienza, alla
mentalità religiosa che così è dissolta dall’ateismo.
Dall’altra, però, e nello stesso tempo egli si sente
inesorabilmente più bisognoso di conoscere il mistero, anzi i misteri
del cosmo, del pensiero, della vita, e sperimenta fatalmente la
propria delusione radicale, privo com’è della verità religiosa. E
questa, a sua volta, s’imporrebbe come enigma perenne, se essa
stessa non fosse sostenuta da una Parola misteriosa, e sola capace di
sorreggere dall’alto l’edificio della scienza umana, la quale più
progredisce e più postula il soccorso di questa Parola dall’alto,
purché vera, purché certificata da un Maestro capace d’introdurre
il pensiero umano nella sfera più elevata della Verità suprema e del
Destino «soprannaturale» dell’uomo. Il bisogno di questa Parola,
che esige la Fede da parte dell’uomo, è al giorno d’oggi più forte
e tormentoso che mai; e solo quando esso sia soddisfatto dal Vangelo,
ch’è Verità non contraria a quella scientifica, ma superiore, la
luce ritorna sulla terra. Se così è, carissimi Fratelli - come
l’esperienza pastorale ed una non difficile indagine psicologica ci
attestano - la nostra missione può tuttora trovare una felicissima
accoglienza. Ad un tale livello, non superficiale, non esterno,
questo non è da considerare tempo d’ateismo, ma piuttosto tempo di
fede, tempo della nostra fede, ch’è la vera. È, il nostro, tempo
privilegiato per l’annuncio, ed appare, pertanto, opportuna e
provvidenziale la nostra assemblea sinodale che, dopo aver centrato ed
illustrato questa urgenza cruciale e primaria dell’evangelizzazione
nell’autunno di tre anni fa, si accinge ora a ripensarne, a
studiarne, a indicarne le forme ed i metodi ponendo all’ordine del
giorno dei suoi lavori il tema della catechesi.
Bisogna, infine, tener presente che questa sicurezza nella Fede si
fortifica sotto un altro aspetto: quello comunitario. La fede,
infatti, genera l’assemblea dei credenti, ch’è la Chiesa. Non
suona forse al plurale la parola del Signore? Egli dice Euntes . .
. docete, e così associa insieme tutti i suoi discepoli in un lavoro
che, senza annullare le responsabilità personali, impone uno sforzo
collettivo, coordinato, attuato nella comunione delle intenzioni,
delle energie, delle finalità. Ecco, anche noi ora siamo insieme a
questo stesso scopo: ci siamo riuniti per approfondire, per
professare, per diffondere la fede di Cristo, in risposta alla
domanda dei nostri fratelli, che si è fatta più urgente. Ora
specialmente siamo «comunione», e noi beati se, fin da quest’assise
eucaristica iniziale e poi nei giorni del Sinodo, sapremo rinsaldare
questo vincolo santo nel comune lavoro, nello scambio fraterno delle
esperienze e dei consigli, nei reciproci contatti e, più ancora, nel
contatto con la Parola di Dio e col mistero del Corpo e del Sangue
di Cristo. «Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud»
(Luc. 11, 28): ci conforti oggi e sempre questa promessa di
beatitudine, mentre riprendiamo a pregare.
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