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Sabato, 24 agosto 1968
Venerati, cari, carissimi Confratelli!
Benedicamus Domino! Noi benediciamo e ringraziamo il Signore Che
Ci concede questo incontro fraterno. Ognuno di voi è da Noi
salutato con la venerazione, con l’affezione, con la profondità e la
ricchezza di sentimenti, che la carità di Nostro Signore e la comune
elezione al governo pastorale e al generoso servizio della Chiesa
possono mettere nel cuore dell’umile successore di Pietro. E con voi
salutiamo e benediciamo tutti i Vescovi e tutti gli Ordinari
dell’America Latina, che voi qui rappresentate, e i sacerdoti, i
religiosi e le religiose, nonché tutti i fedeli, tutta la santa
Chiesa cattolica di questo grande continente.
Venerati Confratelli! Noi non vi possiamo nascondere la viva
emozione che invade il Nostro spirito in questo momento. Siamo Noi
stessi meravigliati di trovarci in mezzo a voi. La prima visita
personale del Papa ai suoi Fratelli ed ai suoi Figli in Terra
americana non è certamente un semplice e singolare fatto di cronaca;
è, pare a Noi, un fatto di storia, che s’inserisce nella lunga e
complessa e faticosa vicenda dell’evangelizzazione di questi immensi
territori; e che con ciò stesso la riconosce, la convalida, la
celebra, ed insieme la conclude nella sua prima epoca secolare; e,
per una convergenza di circostanze profetiche, un altro periodo della
vita ecclesiastica è qui oggi, da questa visita medesima,
inaugurato. Procuriamo d’aver esatta coscienza di questa ora
benedetta, che sembra essere, per divina provvidenza, conclusiva e
decisiva. Vorremmo dirvi tante cose circa il vostro passato
missionario e pastorale, e rendere onore a quanti hanno tracciato i
solchi del Vangelo in codesti campi, tanto vasti, tanto impervii,
tanto aperti e nello stesso tempo tanto difficili per la diffusione
della fede e per la sua sincera vitalità religiosa e sociale. È stata
piantata la croce di Cristo, è stato dato il nome cattolico, sono
stati compiuti sforzi immani per evangelizzare queste terre, sono state
compiute opere grandi e innumerevoli, sono stati raggiunti, con
scarsità di uomini e di mezzi, risultati degni d’ammirazione, è
stato insomma diffuso per l’intero continente il nome dell’unico
Salvatore Gesù Cristo, è stata costituita la Chiesa, è stato
diffuso uno Spirito, di cui sentiamo oggi il calore e l’impulso.
Dio benedica l’opera grande! Dio benedica coloro che vi hanno speso
la vita! Dio benedica voi, Fratelli carissimi, che a questa
gigantesca impresa siete consacrati!
Ma l’opera, tutti sappiamo, non è finita. Anzi il lavoro compiuto
denuncia i suoi limiti, rende evidenti i nuovi bisogni, esige qualche
cosa di nuovo e di grande. L’avvenire reclama uno sforzo,
un’audacia, un sacrificio, che mettono nella Chiesa un’ansia
profonda. Siamo in un momento di riflessione totale. Entra in noi,
come un’onda soverchiante, l’inquietudine caratteristica del nostro
tempo, e specialmente di questi Paesi, tesi verso il loro sviluppo
completo, e agitati dalla coscienza dei loro squilibri economici,
sociali, politici e morali. Anche i Pastori della Chiesa - non è
vero? - fanno propria l’ansia dei popoli in questa fase della storia
della civiltà; ed anch’essi, le guide, i maestri, i profeti della
fede e della grazia, avvertono l’instabilità, che tutti ci
minaccia. Noi condividiamo la vostra pena, Fratelli, il vostro
timore. Dall’alto della mistica barca della Chiesa, Noi pure, e
non certo in grado minore, sentiamo la tempesta che ci avvolge e che ci
assale. Ma ascoltate anche da Noi, Fratelli, voi personalmente
più forti e più bravi di Noi, la parola di Gesù, con la quale
Egli, comparendo tra i flutti burrascosi, in una notte piena di
pericoli, gridò ai suoi discepoli naviganti: «Sono io, non abbiate
paura!» (Matth. 14, 27). Sì, Noi vogliamo ripetervi
l’esortazione ricorrente del Maestro: «Non temete!» (Luc.
12, 32).
Questa per la Chiesa è un’ora di coraggio e di fiducia nel
Signore. Lasciate che Noi condensiamo brevemente in alcuni paragrafi
le molte cose che abbiamo nel cuore per il vostro momento presente e per
il vostro prossimo avvenire. Voi non aspettate da Noi trattazioni
complete; le riunioni di questa vostra seconda Assemblea Generale
dell’Episcopato Latino Americano, che sappiamo preparate con tanta
cura e con tanta competenza, tratteranno più a fondo i vostri
problemi. Noi Ci limitiamo a indicarvi un triplice indirizzo alla
vostra attività di Vescovi, successori degli Apostoli, custodi e
maestri della fede e pastori del Popolo di Dio.
Un indirizzo spirituale
Un indirizzo spirituale, dapprima. Diciamo innanzi tutto un
indirizzo spirituale personale. Nessuno certamente vorrà contestare
che noi Vescovi, chiamati all’esercizio della perfezione e
all’altrui santificazione, abbiamo un immanente e permanente dovere di
cercare per noi stessi la perfezione e la santificazione. Non possiamo
dimenticare le solenni esortazioni a noi rivolte nell’atto della nostra
consacrazione episcopale. Non possiamo esimerci della pratica
d’un’intensa vita interiore. Non possiamo annunciare la parola di
Dio senza averla meditata nel silenzio dell’anima. Non possiamo
essere fedeli dispensatori dei misteri divini, senza averne a noi
stessi assicurata la ricchezza. Non dobbiamo dedicarci
all’apostolato, se non- lo sappiamo suffragare con l’esempio delle
virtù cristiane e sacerdotali. Siamo molto osservati: spectaculum
facti sumus (1 Cor. 4, 9): il mondo ci osserva oggi in modo
particolare in ordine alla povertà, alla semplicità della vita, al
grado di fiducia che mettiamo per nostro uso nei beni temporali; ci
osservano gli angeli nella trasparente purezza del nostro unico amore a
Cristo, che si manifesta in modo tanto luminoso nella ferma e lieta
osservanza del nostro celibato sacerdotale; e la Chiesa ci osserva
sulla fedeltà alla comunione, che fa di noi unità, e alle leggi,
che noi dobbiamo sempre richiamare della sua visibile e organica
compagine. Benedetto questo nostro tempo tormentato e paradossale,
che quasi ci obbliga alla santità corrispondente al nostro ufficio
tanto rappresentativo e tanto responsabile, e che ci obbliga a
recuperare nella contemplazione e nell’ascetica dei ministri dello
Spirito Santo quell’intimo tesoro di personalità, da cui la
dedizione estremamente impegnativa al nostro ufficio quasi ci
estroflette!
Ma poi, facendo ponte fra noi e il nostro gregge, le virtù teologali
assumono per la nostra singola anima e quelle del prossimo tutta la loro
sovrana importanza. Noi abbiamo chiamato la Chiesa a celebrare un
«Anno della Fede», in memoria e in omaggio alla ricorrenza
centenaria del martirio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ed anche
a voi è arrivata l’eco della Nostra solenne Professione di Fede.
La fede è la base, è la radice, è la fonte, è la prima ragione
d’essere della Chiesa, ben lo sappiamo. E sappiamo anche quanto
essa è oggi insidiata dalle correnti più eversive del pensiero
moderno. La diffidenza, che, anche negli ambienti cattolici, si è
diffusa sulla validità dei principi fondamentali della ragione, ossia
della nostra «philosophia perennis», ci ha disarmati di fronte agli
assalti, spesso radicati e capziosi, di pensatori di moda; il
«vacuum», lasciato nelle nostre scuole filosofiche dall’abbandono
della fiducia nei grandi maestri del pensiero cristiano, è spesso
invaso da una superficiale, e quasi servile, accettazione di filosofi
di moda, spesso altrettanto sempliciste che astruse; e queste hanno
scossa la nostra normale, umana, sapiente arte del pensare la
verità; siamo tentati di storicismo, di relativismo, di
soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono
uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per
avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo
rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero
della Chiesa e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù
di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico,
un cristianesimo nuovo, su misura dell’uomo, e non su misura
dell’autentica parola di Dio. Purtroppo anche fra noi alcuni teologi
non sono sempre sulla buona via. Noi abbiamo grande stima e grande
bisogno della funzione dei buoni e bravi teologi; essi possono essere
provvidenziali studiosi e valenti espositori della fede, se essi stessi
si conservano intelligenti discepoli del magistero ecclesiastico,
costituito da Cristo custode ed interprete, per virtù dello Spirito
Paraclito, del suo messaggio di eterna verità. Ma oggi taluni
ricorrono ad espressioni dottrinali ambigue, e altri si arrogano la
licenza di enunciare opinioni loro proprie, alle quali conferiscono
quell’autorità, che essi, più o meno copertamente, contestano a
chi per diritto divino possiede tale vigilatissimo e formidabile
carisma; e perfino consentono che ciascuno nella Chiesa pensi e creda
ciò che vuole, ricadendo così in quel libero esame, che ha
frantumato l’unità della Chiesa stessa, e confondendo la legittima
libertà della coscienza morale con una malintesa libertà di pensiero,
spesso aberrante per l’insufficiente conoscenza delle genuine verità
religiose.
Non vi dispiaccia, veneratissimi Fratelli, voi stessi costituiti
maestri e pastori del Popolo di Dio, se Noi vi ripetiamo e vi
esortiamo, in virtù del mandato imposto da Cristo a Pietro di
«confermare i Fratelli» (cfr. Luc. 22, 32), con la voce
stessa di Pietro: «Resistite fortes in fide» (1 Petr. 5,
9).
Voi comprendete come da questo principio scaturiscano tanti altri
criteri di vitalità spirituale, con beneficio bivalente, cioè per
noi e per il gregge a noi affidato; siano questi seguenti i
principali. Gli Atti degli Apostoli ce li ricordano, e cioè
l’orazione e il ministero della parola (Act. 6, 4). Tutto voi
conoscete a questo riguardo. Ma permettete che Noi vi raccomandiamo,
per quanto si riferisce all’orazione, l’applicazione della riforma
liturgica, nelle sue belle innovazioni e nelle norme che la
disciplinano, ma soprattutto nelle sue finalità principali e nel suo
spirito: purificare e autenticare il vero culto cattolico, fondato sul
dogma, e cosciente del mistero pasquale ch’esso racchiude rinnova e
comunica; e associare il Popolo di Dio alla celebrazione gerarchica e
comunitaria dei santi riti della Chiesa, a quello della Messa, con
familiare e profonda intelligenza, in atmosfera di semplicità e di
bellezza (il canto, il canto sacro, liturgico e collettivo,
specialmente vi raccomandiamo! ), in esercizio non solo formale, ma
sincero e cordiale, di fraterna carità, E poi, circa il ministero
della parola, tutto ciò che sarà compiuto per un’istruzione
religiosa di tutti i fedeli, un’istruzione popolare e culturale,
organica e perseverante, sarà ben fatto; non dobbiamo più avere
l’«analfabetismo» religioso fra le popolazioni cattoliche. E sarà
pure ben fatto ogni esercizio diretto della predicazione e
dell’istruzione, che voi Vescovi, come singoli e come gruppi
canonicamente costituiti, vorrete elargire al Popolo di Dio.
Parlate, parlate, predicate, scrivete, prendete posizione, come si
dice, in armonia di piani e di intenti a difesa e ad illustrazione
delle verità della fede, sull’attualità del Vangelo, sulle
questioni che interessano la vita dei fedeli e la tutela del costume
cristiano, sulle vie che conducono al dialogo con i Fratelli
separati, sui drammi, ora grandi e belli, ora tristi e pericolosi,
della civiltà contemporanea. La Costituzione pastorale del Concilio
Gaudium et spes offre insegnamenti ed incitamenti di ampia ricchezza e
di alto valore.
Un indirizzo pastorale
E siamo così all’indirizzo pastorale, che Ci siamo proposti di
presentare alla vostra attenzione. Siamo nel campo della carità.
Valga quanto ora abbiamo già detto per tracciare le prime linee di
questo indirizzo, che, di natura sua, deve svolgersi su molte linee
pratiche, secondo le esigenze della carità.
Ma Ci sembra opportuno richiamare due punti dottrinali a questo
riguardo: il primo è la dipendenza della carità verso il prossimo
dalla carità verso Dio. Voi sapete quale assalto subisca ai nostri
giorni questa dottrina di chiarissima e inoppugnabile derivazione
evangelica: si vuole «secolarizzare» il cristianesimo, trascurando
cioè il suo essenziale riferimento alla verità religiosa, alla
comunione soprannaturale con l’ineffabile e inondante carità di Dio
verso gli uomini e al dovere della risposta umana obbligata ad osare di
amarlo e di chiamarlo Padre e di poter così chiamare in verità
fratelli gli uomini; per liberare il cristianesimo stesso da «quella
forma di nevrosi che è la religione» (Cox); per bandire ogni
preoccupazione teologica e per dare al cristianesimo una nuova
efficacia, tutta pragmatica, la sola che ne possa misurare la verità
e che lo renda accettabile e operante nella moderna civiltà profana e
tecnologica.
L’altro punto dottrinale riguarda la Chiesa così detta
istituzionale, posta a confronto con un’altra presunta Chiesa così
detta carismatica, quasi che la prima, comunitaria e gerarchica,
visibile e responsabile, organizzata e disciplinata, apostolica e
sacramentale, sia un’espressione del cristianesimo ormai superata,
mentre l’altra, spontanea e spirituale, sarebbe capace di
interpretare il cristianesimo per l’uomo adulto della civiltà
contemporanea, e di rispondere ai problemi reali e urgenti del nostro
tempo. Non abbiamo bisogno di fare a voi che «Spiritus Sanctus
posuit episcopos regere ecclesiam Dei» (Act. 20, 28), la
apologia della Chiesa, quale Cristo fondò e quale la fedele e
coerente tradizione a noi ancor oggi consegna nelle sue linee
costituzionali, che descrivono il vero Corpo mistico di Cristo,
vivificato dallo Spirito di Gesù. Ma ci basterà riaffermare la
nostra certezza nell’autenticità e nella vitalità della nostra
Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, col proposito di
conformare sempre più la sua fede, la sua spiritualità, la sua
attitudine ad avvicinare ed a salvare l’umanità (tanto diversa nelle
sue molteplici condizioni ed ora tanto mutevole), la sua carità che
tutto comprende e che tutto sopporta (cfr. 1 Cor. 13, 4),
alla missione salvatrice affidatale da Cristo. E faremo, sì, uno
sforzo d’intelligenza amorosa per capire quanto di buono e di
ammissibile si trovi in queste forme inquiete e spesso aberranti
d’interpretazione del messaggio cristiano, per purificare sempre più
la nostra professione cristiana e riportare queste esperienze
spirituali, si chiamino secolari le une, carismatiche le altre,
nell’alveo della vera norma ecclesiale (cfr. 2 Cor. 14, 37:
«Si quis videtur propheta esse aut spiritalis, cognoscat quae scribo
vobis, quia Domini sunt mandata» ; ed Enc. Mystici Corporis,
circa l’abusiva distinzione fra la Chiesa giuridica e la Chiesa della
carità: A.A.S. 1943, pp. 223-225; Journet,
L’Eglise du Verbe Incarné I, intr. XII).
Questi accenni Ci portano a raccomandare alla vostra carità pastorale
alcune categorie di persone, alle quali va il Nostro appassionato
pensiero. Le indichiamo appena, per debito del comune interesse
apostolico, non certo per dire quanto esse meriterebbero; sappiamo che
esse sono già presenti alla considerazione di questa Assemblea; e
altro non facciamo che incoraggiare il vostro studio. La prima
categoria è quella dei Sacerdoti. Ci sia consentito mandare loro un
affettuosissimo pensiero anche da questa sede e in questo momento. I
Sacerdoti sono sempre presenti nel Nostro spirito, nel Nostro
ricordo. Lo sono parimente nella Nostra stima, nella Nostra
fiducia. Lo sono nella visione concreta dell’attività della
Chiesa: sono i primi e indispensabili vostri collaboratori, sono i
più diretti e più impegnati «dispensatori dei misteri di Dio» (1
Cor. 4, l), cioè della parola, della grazia, della carità
pastorale; sono i modelli viventi dell’imitazione di Cristo, sono
con voi i primi partecipi del sacrificio del Signore, sono i nostri
confratelli, i nostri amici (cfr. Io. 15, 15); dobbiamo
amarli assai, amarli di più. Se un Vescovo concentrasse le sue cure
più assidue, più intelligenti, più pazienti, più cordiali per la
formazione, per l’assistenza, per l’ascoltazione, per la guida,
per l’istruzione, per l’ammonimento, per il conforto del suo
Clero, avrebbe bene impiegato tempo, cuore, attività. Si veda di
dare ai Consigli presbiterali e pastorali la consistenza e la
funzionalità, volute dal Concilio; si prevenga prudentemente e con
paterna comprensione e carità, per quanto è possibile, ogni
pronunciamento irregolare e indisciplinato del Clero; si veda di
interessarlo alle questioni del ministero diocesano; si procuri di
sostenerlo nelle sue necessità, si ponga ogni cura nel reclutamento e
nella formazione degli Alunni seminaristi; si associno anche i
Religiosi e le Religiose, secondo le loro attitudini e possibilità,
all’attività pastorale. Cosi, concentrando sul Clero le cure
migliori, Noi siamo sicuri che questo metodo darà il frutto sperato,
quello d’una Chiesa viva, santa, ordinata e fiorente in tutta
l’America Latina.
Poi, venerati Fratelli, segnaliamo alla vostra sapiente carità; i
Giovani e gli Studenti. Il discorso non avrebbe più fine, se Noi
volessimo dire qualche cosa su questo tema. Vi basti sapere che Noi
lo consideriamo degno del massimo interesse e lo vediamo di grandissima
attualità. Del resto, Voi tutti ne siete perfettamente
consapevoli.
E questo ricordo Ci porta a raccomandarvi con non minore calore
un’altra categoria di uomini, fedeli o non fedeli che siano, i
lavoratori, sia rurali che industriali, o a questi assimilati.
Un indirizzo sociale
Siamo così al terzo indirizzo, che offriamo alla vostra
considerazione, quello sociale. Non vi aspettate un discorso, che
sarebbe anche questo interminabile, in materia sociale, specialmente
nell’America Latina. Limitiamoci ad alcune affermazioni, dopo
quelle da Noi già fatte nei discorsi di questi giorni.
Ricordiamo innanzi tutto che la Chiesa ha elaborato in questi ultimi
anni della sua secolare animazione della civiltà una sua dottrina
sociale, consegnata in documenti memorabili, che faremo bene a
studiare e a divulgare. Le Encicliche sociali del Pontificato
Romano e gli insegnamenti dell’Episcopato mondiale non devono essere
dimenticati, né devono mancare di pratica applicazione. Non
giudicate parziale la Nostra indicazione, se vi ricordiamo la più
recente fra le Encicliche sociali, quella che tratta della Populorum
progressio. Meriterebbero particolare menzione anche tanti vostri
documenti, come la «Dichiarazione della Chiesa Boliviana» dello
scorso febbraio; come quella del passato novembre 1967, emanata
dall’Episcopato Brasiliano e intitolata «Missione della Gerarchia
nel mondo d’oggi»; e come la conclusione del «Seminario
Sacerdotale», indetto nel Cile nell’ottobre e nel novembre
1967; come la Lettera Pastorale dell’Episcopato Messicano
sullo sviluppo e integrazione del Paese, emanata nel primo
anniversario dell’Enciclica Populorum progressio; e ricorderemo
parimente l’ampia lettera dei Padri Provinciali dei Gesuiti,
riuniti a Rio de Janerio nel maggio di quest’anno, e il Documento
dei Padri Salesiani di tutta l’America Latina radunati recentemente
a Caracas. Le testimonianze della Chiesa alla verità nel terreno
sociale non mancano: procuriamo che alle parole rispondano i fatti.
Noi non siamo tecnici; siamo però dei Pastori, che devono
promuovere il bene dei loro fedeli, e stimolare lo sforzo rinnovatore
in atto nei Paesi, dove si svolge la nostra rispettiva missione.
Nostro primo ufficio, in questo campo, è l’affermazione dei
principi, l’osservazione e la segnalazione dei bisogni, la
dichiarazione dei valori prioritari, l’appoggio ai programmi sociali e
tecnici veramente utili e segnati dall’impronta della giustizia nel suo
divenire verso un ordine nuovo ed il bene comune, la formazione di
Sacerdoti e di Laici alla conoscenza dei problemi sociali,
l’avviamento di Laici bene preparati alla grande opera della loro
soluzione, tutto considerando alla luce cristiana, che ci fa scorgere
l’uomo al primo posto e tutti gli altri beni subordinati alla sua
promozione totale nel tempo e alla sua salvezza nell’eternità.
Avremo anche Noi dei doveri da compiere. Siamo informati dei gesti
generosi compiuti in alcune diocesi che hanno messo a disposizione di
popolazioni bisognose le loro superstiti proprietà terriere, secondo
piani bene studiati di riforma agraria, che stanno attuandosi. È un
esempio che merita lode, ed anche imitazione, là dove essa sia saggia
e possibile.
In ogni modo, la Chiesa oggi si trova davanti alla vocazione della
Povertà di Cristo. Vi è nella Chiesa chi già ne sperimenta i
disagi inerenti, per insufficienza talvolta di pane e sovente di
mezzi: sia confortato, aiutato dai fratelli e dai buoni fedeli, e sia
benedetto. È l’indigenza della Chiesa, con la decorosa semplicità
delle sue forme, un attestato di fedeltà evangelica; è la
condizione, talvolta indispensabile, per dare credito alla propria
missione; è un esercizio talora sovrumano di quella libertà di
spirito, rispetto ai vincoli della ricchezza, che accresce la forza
alla missione dell’apostolo.
La forza? Sì, perché la nostra forza è nell’amore: l’egoismo,
il calcolo amministrativo distaccato dal contesto delle finalità
religiose e caritative, l’avarizia, l’ansia del possedere come fine
a se stesso, il superfluo benessere sono ostacoli all’amore, sono
alla fine una debolezza, sono un’inettitudine alla dedizione
personale, al sacrificio. Superiamo questi ostacoli e lasciamo che
l’amore governi la nostra missione confortatrice e rinnovatrice.
Se noi dobbiamo favorire ogni onesto sforzo per promuovere il
rinnovamento e l’elevazione dei Poveri e di quanti vivono in
condizioni d’inferiorità umana e sociale, e se noi non possiamo
essere solidali con sistemi e strutture che coprono e favoriscono gravi
ed opprimenti sperequazioni fra le classi e i cittadini d’un medesimo
Paese, senza porre in atto un piano effettivo per rimediare alle
condizioni insopportabili d’inferiorità di cui spesso soffre la
popolazione meno abbiente. Noi ripetiamo ancora una volta a questo
proposito: non l’odio, non la violenza sono la forza della nostra
carità. Fra le diverse vie verso una giusta rigenerazione sociale,
noi non possiamo scegliere né quella del marxismo ateo, né quella
della rivolta sistematica, né tanto meno quella del sangue e
dell’anarchia. Distinguiamo le nostre responsabilità da chi invece
fa della violenza un nobile ideale, un glorioso eroismo, una
compiacente teologia. Per riparare errori del passato e per guarire
malanni presenti non commettiamo falli nuovi: essi sarebbero contro il
Vangelo, contro lo spirito della Chiesa, contro gli stessi interessi
del popolo, contro il genio felice dell’ora presente, che è quello
della giustizia in cammino verso la fratellanza e la pace.
La pace, i poveri, la famiglia
La pace! Voi ricordate certamente quanto essa sta a cuore alla
Chiesa, a Noi personalmente, che, con la fede, ne abbiamo fatto
uno dei motivi salienti del Nostro Pontificato. Ebbene, qui,
durante la celebrazione del Sacramento Eucaristico, simbolo e fonte
di unità e di pace, ripetiamo il Nostro augurio per la pace; per la
pace vera, che nasce dai cuori credenti e fraterni; la pace fra le
classi sociali nella giustizia e nella collaborazione; la pace fra i
popoli nella celebrazione d’un umanesimo illuminato dal Vangelo; la
pace dell’America Latina; la vostra pace.
La trasformazione profonda e lungimirante di cui, in molte situazioni
ancor oggi, ha bisogno la società, la promoveremo amando più
fortemente ed insegnando ad amare, con energia, con sapienza, con
perseveranza, con pratica operosità, con fiducia, negli uomini, con
sicurezza nell’aiuto paterno di Dio e nell’insita forza del bene.
Il Clero già Ci comprende. I giovani Ci seguiranno. I Poveri
accoglieranno volentieri la buona novella. Ed è da sperare che gli
operatori economici e politici, che già intravedono la giusta via,
non saranno più di freno, ma di stimolo, all’avanguardia.
Abbiamo dovuto dire una grave, una buona parola in difesa
dell’onestà dell’amore e della dignità del matrimonio, con la
Nostra Enciclica. La grande maggioranza della Chiesa l’ha accolta
con favore e con fiduciosa obbedienza, non senza comprendere che la
norma da Noi riaffermata comporta un forte senso morale e un coraggioso
spirito di sacrificio. Dio benedirà questo degno atteggiamento
cristiano. Esso non è una corsa cieca alla sovrappopolazione; esso
non diminuisce la responsabilità, né la libertà dei coniugi, a cui
non vieta un’onesta e ragionevole limitazione delle nascite; non
impedisce ogni legittima terapia e il progresso della ricerca
scientifica. Esso è una educazione etica e spirituale coerente e
profonda; esso esclude l’uso di mezzi che profanano i rapporti
coniugali e che intendono risolvere i grandi problemi della popolazione
con troppo facili ripieghi; esso, in fondo, è un’apologia della
vita, ch’è il dono di Dio, la gloria della famiglia, la forza del
popolo.
Noi vi esortiamo, Fratelli, a ben comprendere l’importanza della
delicata e difficile posizione che, in omaggio alla legge di Dio,
Noi abbiamo creduto doveroso riaffermare; e vi preghiamo di voler
usare ogni possibile premura pastorale e sociale, affinché tale
posizione sia tenuta come si conviene da gente guidata da vero senso
umano; e Dio voglia che anche la vivace discussione suscitata dalla
Nostra Enciclica conduca ad una migliore conoscenza della volontà di
Dio, ad un modo di procedere senza riserve, e che, in queste grandi
difficoltà pastorali ed umane, possiamo compiere il nostro servizio a
beneficio delle anime con cuore di Buon Pastore. Per terminare:
l’Episcopato dell’America Latina, nella sua seconda Assemblea
Generale, al posto che gli compete, davanti ad ogni problema
spirituale, pastorale e sociale, presterà il suo servizio di verità
e di amore, per la costruzione d’una nuova civiltà, moderna e
cristiana.
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