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Domenica, 6 giugno 1965
Venerabili Fratelli e Figli carissimi!
Due fatti, due pensieri impegnano in questo momento la nostra breve,
ma intensa meditazione.
Primo fatto, primo pensiero si è la celebrazione che noi stiamo
compiendo della festa dello Spirito Santo, la Pentecoste: «Omnium
festivitatum maximam», come fino dal IV secolo la definisce Eusebio
di Cesarea (Vita Constan., IV, 64; P.G. 20,
1219). È la festa che sta alla sorgente delle altre feste. Non
sarebbe infatti possibile celebrarne alcuna, - se festa significa
memoria giuliva di persone o di avvenimenti, che una tradizione perenne
rammenta ed onora -, qualora mancasse all’origine della tradizione il
principio vitale che la genera e la rende coerente e fiorente.
Non possiamo, in questo momento, concederci altro che uno sguardo
rapidissimo del grande avvenimento pentecostale e di ciò che lo segue.
Il nostro ricordo rievoca le parole con cui Cristo rivelò e promise
lo Spirito Santo; ripensa al mistero della sua «missione», che
parte dal seno della Trinità Santissima, e che in misura e forma
novissime lo fa precipitare sulla piccola schiera degli Apostoli e dei
discepoli, riuniti con Maria nel cenacolo; il nostro ricordo
contempla i fenomeni strani, che rendono sensibile l’avvenimento, il
soffio tempestoso e le lingue di fuoco, e poi l’erompere della
parola; e subito la nostra mente vede, come in sogno, sgorgare da
quella prima, ormai nata e fremente, comunità cristiana il ruscello
della sua vita, della sua storia; lo vede gonfiarsi e diffondersi per
tutta la terra abitata, la «oikoumène»; e, sempre turgido di
quella prima limpida linfa animatrice, scorrere attraverso i popoli,
attraverso i secoli; e con somma meraviglia, con somma gioia, lo vede
arrivare fino a noi, fino qua. Nulla la storia, a bene guardare, ci
presenta di più significativo e di più misterioso, nulla di più
umano e di più trascendente; nulla di più agitato e di più sereno;
nulla di più legato al passato e nulla di più teso all’avvenire.
Che cosa è, che cosa è questa luce, diffusa e sé movente per tutta
la terra? È Cristo, che continua Se stesso nell’umanità da Lui
vivificata di Spirito Santo; è la sua Chiesa, che passa nel tempo
e si estende nel mondo; incontra uomini mortali ed infonde in essa una
scintilla di gloriosa immortalità; li incontra agitati, infelici e
corrosi dal peccato, e li rigenera in letizia e in santità; li
incontra viandanti folli e sperduti nel deserto e nel crepuscolo della
vita presente, e li raduna, li allinea, li rimette sopra un cammino,
che sa la sua meta e non conosce stanchezza.
Il quadro è affascinante, e vorrebbe interminabile contemplazione.
Ne osserviamo l’ultimo lembo, quello che ci riguarda, e tendiamo
l’orecchio dell’anima alle parole, ben note ed arcane, che hanno
recato a noi, a ciascuno di noi, lo Spirito Santo: «Exi ab eo,
immunde spiritus, et da locum Spiritui Sancto Paraclito»: il
nostro essere, con questo primo esorcisma, compiuto su di noi dal
ministro della Chiesa, diventava capace di ospitare lo Spirito
Santo, d’essere suo tabernacolo. San Paolo ce lo ricorderà:
«Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in
vobis?» (1 Cor. 3, 16). Fu così che ricevemmo il
Battesimo, e fummo consacrati figli di Dio, membra di Cristo,
sacri al culto del Nuovo Testamento. Ritornò lo Spirito, col
sacramento della Confermazione, «ut perfectio fiat, - come dice
S. Ambrogio, - quando ad invocationem sacerdotis Spiritus Sanctus
infunditur» (De Sacram. III, 2, 8; CSEL, 73,
42): una nuova rassomiglianza a Cristo, mediante la Cresima, era
impressa nella nostra anima. E venne per quanti di noi siamo stati
ordinati Sacerdoti per il ministero del Popolo di Dio, e verrà,
Chierici e Leviti carissimi, per quanti di voi la grazia del Signore
chiamerà, nella perseveranza al suo invito, all’altare di Dio, il
momento più alto e più trasfigurante della nostra vita, quello
caratterizzato dalle parole potenti: «. . . Innova in visceribus
eorum Spiritum sanctitatis», seguite dalle altre, eco fedele della
voce evangelica: «Accipite Spiritum Sanctum . . .» (cfr.
Pontif., e Io. 20, 23). Sempre lo Spirito Santo! Ne
abbiamo coscienza?
La solennità che stiamo celebrando deve in noi, in noi eletti al
sacro ministero, ravvivare il ricordo, accendere la coscienza di
questa investitura particolarissima conferitaci dallo Spirito Santo:
la sua festa dev’essere celebrata nel santuario interiore delle nostre
anime; e se la religione cristiana ha il segreto di avvicinare Dio
all’uomo, la nostra vocazione deve farci comprendere e gustare più
che ad ogni altro cristiano il mistero di vicinanza, d’inabitazione,
di amicizia, di spirituale intimità, d’interi,ore ispirazione, di
dolcezza e di forza, di pace e di gioia, che lo Spirito Santo
concede alle anime mediante la grazia. E se la grazia si definisce
l’iniziativa soprannaturale di Dio elevante e santificante l’essere
umano, null’altro capace di portare all’ineffabile incontro che
l’umiltà del suo nulla, la sua fede, la sua voluta disponibilità,
quanto più il mistero di unilaterale gratuità della grazia, di
operante presenza dello Spirito Santo si realizza nell’eletto al
sacro ministero per essere egli trasformato in strumento dispensatore
dei doni divini! Il Sacerdote non solo riceve la grazia, ma la
diffonde; non solo è dalla grazia santificato, ma altresì dalla
grazia reso degno strumento di santificazione.
Il secondo fatto, il secondo pensiero, si collega pertanto col
primo; ed è quello della Santa Messa che Noi stiamo concelebrando
con i Rettori dei Seminari e dei Collegi ecclesiastici di Roma,
presenti, anzi partecipanti tutti gli Alunni di tali istituti, siano
questi Alunni già insigniti del sacerdozio, o siano nella trepida e
ardente. attesa di esserne insigniti. Se mai festa del Sacerdozio
rallegra la Chiesa romana e la Chiesa universale, questa è la più
bella, è la più piena. Se davvero è lo Spirito Santo che anima
la Chiesa e nella Chiesa Egli suscita i suoi ministri, i suoi
apostoli, che hanno missione e potere di chiamare lo Spirito Santo,
affinché vivifichi e santifichi la Chiesa medesima, questo prodigio
qui ha la sua espressione più ricca e più commovente. Non ci sfugga
la pienezza di questo momento. Qui prende significato immenso il fatto
di vivere a Roma, di compiere a Roma gli studi ecclesiastici, di
prendere a Roma coscienza dl e proprio Sacerdozio ricevuto, o da
ricevere; perché qui la comunione anzi l’unità del Sacerdozio
nostro partecipe di quello unico di Cristo è più vasta e più
profonda; qui il senso delle potestà conferite da Cristo ai
continuatori della sua opera di salvezza è più palese e più
tremendo; qui il rapporto fra Spirito e Gerarchia appare in tutto il
suo meraviglioso equilibrio: ideale, per la fedeltà che qui dimostra
al pensiero istitutivo di Cristo; potenziale, per lo sforzo che qui
più che altrove si compie, affinché tale equilibrio, tale
complementarità, tale fusione fra l’anima e il corpo della Chiesa
storicaménte si realizzi.
Noi vorremmo che questo momento spirituale avesse per ciascuno di voi,
diletti Figli, un’efficacia determinante nella vostra formazione
ecclesiastica, e avesse potere di infondere nelle vostre anime un
fervore inestinguibile, alieno dall’inquietudine che pervade tante
anime belle e generose di Sacerdoti e di Alunni ecclesiastici ai
nostri giorni; un fervore, derivante dalla certezza che la vostra
educazione è autentica e sapiente; un fervore, capace non già di
attenuare la coesione interiore ed esteriore con i vostri Vescovi e con
questa Cattedra apostolica, ma di rinvigorire piuttosto tale coesione
e di farne sorgente di energie spirituali e pastorali; un fervore, che
vi faccia altrettanto refrattari alle suggestioni profane e viziose del
mondo, quanto sensibili delle sue morali necessità e amorosi per la
sua salvezza. Noi vorremmo che la visione ora a voi offerta da questa
singolare assemblea, orante e giubilante nella celebrazione del mistero
di Pentecoste, rimanesse nelle vostre anime come una luce ispiratrice
e orientatrice; e vi ricordasse, come idonee a perpetuare il beneficio
di questo superlativo incontro liturgico, le parole, che tutto
dicono, di S. Agostino: «Habemus ergo Spiritam Sanctum, si
amamus Ecclesiam; amamus autem, si in eius compage et charitate
consistimus» (In Io. tract. 32, 8; P.L. 35,
1646).
Così sia.
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