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Giovedì, 1° maggio 1969
Il solenne rito, che qui svolgiamo, circondati dalla corona dei nuovi
Cardinali, da Noi creati nel recente Concistoro Segreto, e con
Noi celebranti il Divino Sacrificio, Ci offre l’occasione di
riflettere su ciò che stiamo compiendo. È un avvenimento memorabile
per la vita della Chiesa; e Noi, appunto per questo, abbiamo voluto
conferirgli più valida e mistica importanza, dando alla sua
celebrazione un significato profondamente sacro, chiamando tutti voi,
e quanti assistono per il tramite dei mezzi di comunicazione sociale, a
questa Basilica, presso la tomba del primo Pontefice Romano,
attorno all’altare dei Divini Misteri. È un’occasione che, nel
suo intimo valore, tutti ci invita a fermarci un attimo, nell’intimo
della nostra coscienza, per comprenderla appieno, e trarne l’impulso
a continuare con rinnovato impegno, con gioia più intensa, con
generosità più ardente, il servizio a cui tutti, seppure a diverso
titolo, siamo chiamati nella Chiesa.
COMUNIONE DI ANIMI
Venerabili Fratelli e diletti figli! È questo un rito di comunione:
e comunione di animi, che la vostra amplissima ed eletta presenza rende
più significativa e sentita.
Ed è un rito di celebrazione: è la festa di S. Giuseppe, lo
Sposo vergine di Maria sempre Vergine, il Patrono della Chiesa
universale, che oggi veneriamo nell’aspetto umile, inappariscente,
povero dell’operio di Galilea, sostegno valido e instancabile della
sacra Famiglia, immagine luminosa e discreta della provvidenza del
Padre Celeste.
Il pensiero, a questo richiamo così suggestivo e suadente, va
spontaneamente alla storia evangelica, inquadrata nell’umile scena di
Nazareth, ove il Figlio di Dio viveva sottomesso, crescendo in
sapienza, età e grazia (Luc. 2, 51); il pensiero va alla
condizione sociale, in cui Cristo volle essere cittadino della terra e
fratello nostro, in aperto contrasto con la mentalità corrente, con
le nostre pretese insoddisfatte, con la umana volontà di potenza:
tanto che, come ha sottolineato il testo evangelico di questa Messa,
i concittadini «meravigliati si chiedevano: "Di dove gli vengono
questa sapienza e i miracoli? Non è costui il figlio del falegname?
Sua madre non si chiama Maria?... Da dove, dunque, gli viene
tutto questo?". Ed erano scandalizzati di lui» (Matth. 13,
54-56).
Filius fabri: lo scandalo di allora, presagio e preludio dello
scandalo della Croce (cfr. Gal. 5, 11), è divenuto per la
Chiesa fonte inesausta di ammirazione e di estasi, di preghiera e di
contemplazione, di esame di coscienza e anche, talora, di
rimprovero. Ma la Chiesa, e con essa i suoi santi e le sue
istituzioni, gli umili e i sofferenti, i fedeli eredi dei «Poveri di
Jahvé» dell’Antico Testamento, è rimasta ed è fedele a questo
Vangelo testuale; essa ne fa oggetto della sua continua meditazione;
e dal Vangelo della povertà e dell’abbassamento di Cristo trae la
sua tradizione, la sua liturgia, le sue opere caritative, che
svolgono, approfondiscono, amplificano gli elementi semifinali
dell’origine evangelica, senza alterarli, senza corromperli, senza
mutarli, ma portandoli a pieno compimento, e onorandoli con suo
amoroso rispetto, come l’albero è il pieno compimento del seme.
INCESSANTE RICORSO AI. VANGELO
La povertà di Nazareth, nella sua nudità, nel suo spogliamento,
nella fatica, ha continuato ad essere la scuola per i figli autentici
della Chiesa, in tutti i secoli: ha ispirato la generosità dei suoi
Pontefici e dei suoi Vescovi, dei suoi sacerdoti e dei suoi figli,
ha fatto sorgere le sue grandi opere benefiche, tuttora caratteristiche
e operanti, ha diffuso con questa coscienza la sua attività
missionaria: evangelizare pauperibus misit me, anch’essa, come il
suo Fondatore, da Lui inviata ad annunziare il lieto annuncio ai
poveri (Luc. 4, 18; cfr. Is. 61, 1).
Ecco pertanto scaturire da queste riflessioni un primo insegnamento:
il continuo ricorso al Vangelo. È nostro dovere. È nostra forza.
Oggi specialmente ci deve interessare il mistero della povertà di
Cristo. Ne ha parlato il Concilio, quando ha detto che «è
necessario che la Chiesa, sempre sotto l’influsso dello Spirito di
Cristo, segua la stessa strada seguita da Cristo, la strada cioè
della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di
sé» (Ad Gentes, 5); e che lo spirito di povertà e d’amore
sono «la gloria e il segno della Chiesa di Cristo» (Gaudium et
spes, 88). Ne abbiamo parlato Noi, fin dalla Nostra prima
Enciclica Ecclesiam suam, insistendo sul dovere che abbiamo di
«proporre alla vita ecclesiastica quei criteri direttivi, che devono
fondare la nostra fiducia più su l’aiuto di Dio e sui beni dello
spirito, che non su i mezzi temporali» (A.A.S. 56,
1964, 634); e proponendo come ideale da perseguire,
nell’Enciclica Populorum progressio, «l’orientarsi verso lo
spirito di povertà» (n. 21, AAS, 59, 1967, 267).
Ne parlano altresì coloro che desiderano il rinnovamento della
Chiesa. Noi dobbiamo profittare di queste disposizioni, che sono
tanto favorevoli alla povertà della Chiesa e alla formazione del
cristiano moderno allo spirito di povertà. In un momento in cui le
ricchezze economiche del mondo crescono immensamente, noi, Chiesa,
ritorniamo più fedelmente discepoli della povertà di Cristo! Non
per contestare al mondo il suo progresso, ma per una duplice
finalità: anzitutto per ricordare a noi stessi che solo nelle forze
spirituali, nella grazia, nella imitazione di Cristo, dobbiamo porre
la nostra fiducia, secondo il monito del Vangelo: «Guardatevi da
ogni avidità, perché non dipende la vita di alcuno dall’abbondanza,
dai beni che possiede» (Luc. 12, 15); in secondo luogo per
adoperarci al buon uso della ricchezza, che dev’essere impiegata per
il pane dei poveri, per la migliore distribuzione dei beni temporali,
per il servizio dell’uomo: il che VUOI dire, in una parola,
secondo la felice espressione del Nostro Predecessore Giovanni
XXIII, «permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri
il meglio di se stessi» (Pacem in terris; A.A.S. 55,
1963, 266).
Ma il pensiero si allarga, si fa più complesso: la povertà, nella
storia del mondo, è stata strettamente legata alla condizione del
lavoro, specie del più umile, spregiato, esposto all’arbitrio e
all’abuso. È una legge misteriosa, conseguenza del peccato primo,
per il quale è entrata nel mondo la pena fisica, la fatica manuale,
il sudore della fronte, la miseria spirituale e materiale. Ora,
benché Figlio di Dio, Cristo non volle sottrarsi a tale legge:
anche in questo egli è stato veramente il «Figlio dell’uomo».
Alla scuola di San Giuseppe, Cristo fu lavoratore: penò, sudò,
faticò durante i trent’anni della sua vita nascosta. Ma con
quell’accettazione del lavoro da Lui fatta, l’antica condizione di
umiliazione e di fatica si è trasfigurata: e il lavoro, pur
conservando l’elemento bivalente di sana attività e di penosa fatica,
può perciò essere riportato - se vissuto alla luce della nuova
economia della grazia - alla sua antica funzione di collaborazione
prestata a Dio (cfr. Gen. 1, 28), facendoci partecipare
altresì ai sentimenti di Cristo, e seguire i suoi esempi.
LA CHIESA ONORA IL LAVORO
Nella luce e con l’insegnamento di Cristo lavoratore, la Chiesa
considera pertanto il lavoro nella sua vera, nobile, elevante
utilità: sia come attività e sviluppo e pedagogia dell’uomo, sia
come conquista e dominio della terra, secondo il primigenio piano di
Dio. Per questo la Chiesa onora il lavoro, ogni lavoro, nel quale
vede riflettersi la gloria del primo uomo, creato a immagine di Dio,
e, soprattutto, l’umiltà mite e nascosta del Cristo. La Chiesa
onora il lavoro sia esso manuale, o artigianale, o artistico, o
tecnico, o scientifico, lo incoraggia e lo benedice, perché vede in
esso lo strumento della mutua collaborazione umana, l’espressione
visibile dei vincoli di fraternità e di aiuto, che uniscono il genere
umano, come in un immenso abbraccio. La Chiesa vede nel lavoro una
grande scuola di carità, oltre che il tessuto connettivo dell’umano
progresso: e per questo lo incoraggia e lo benedice, ripetendo con
Paolo apostolo la seria, virile, severa esortazione: «Chi non vuoi
lavorare, non mangi neppure» (2 Thess. 3, 10).
Tutti gli uomini devono perciò essere impegnati nel lavoro: si
dividono le funzioni, si distinguono le competenze, si ripartiscono le
conquiste. Purtroppo, il germe di divisione, portato nel mondo dal
peccato, continua a operare in modo nefasto e, specialmente in questo
campo, spesso con patente nequizia. Da queste naturali divisioni
che, come abbiam detto, dovrebbero essere fonte di equilibrio, di
completamento e di cooperazione vicendevoli, sorgono purtroppo invece
dolorose sperequazioni: ecco che le varie classi, che pur un tempo
furono concordi, nel segno della vissuta civiltà cristiana, si sono
contrapposte l’una con l’altra; ecco che la classe lavoratrice
risultò meno fortunata, anzi, in certe situazioni, oppressa e
umiliata. Di qui le lotte, che hanno lasciato un segno di profondo
turbamento nel nostro tempo, da esse caratterizzato, e che, tuttora,
pur con gli innegabili miglioramenti, dividono spesso gli animi, con
reale detrimento del bene comune.
In tale stato di cose la Chiesa ha preso la sua nota posizione: le
Encicliche sociali dei Pontefici dell’era moderna, dalla Revum
novarum in poi, sono là a testimoniare la difesa che essa ha fatto, e
fa, dei lavoratori, per una migliore giustizia sociale. Ma tale
difesa del lavoro, in nome della dignità della persona umana, ha
tuttora bisogno dell’opera nostra. I motivi son noti: esistono oggi
troppi popoli non ancora convenientemente sviluppati; le classi
lavoratrici sono tuttora escluse, in larga misura, dal benessere e
dalla sicurezza sociale; risorgono, con preoccupante allarme, già
risolte disuguaglianze economiche; l’uomo è usato talora come
strumento, secondo i calcoli spietati delle leggi economiche. È
dunque necessaria, da parte nostra, un’azione che sia instancabile,
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sia senza timori e senza remore, che sia compiuta anch’essa in Nomine
Domini, nel nome del Signore, perché è Lui che lo vuole. Come
abbiamo sottolineato nella Nostra Enciclica Populorum progressio, lo
sviluppo è il nuovo nome della pace.
Da tale consapevolezza, davanti alla quale nessuno deve ritenersi
esente da un serio esame di coscienza, nascono i propositi, che la
grazia divina, scaturiente dal Sacrificio Eucaristico, deve
suscitare nei nostri cuori come da un terreno ben preparato.
Dobbiamo amare la povertà, perché l’ha amata Cristo, il quale
«ricco qual era, per noi si è fatto povero per arricchirci con la sua
povertà» (2 Cor. 8, 9). Dobbiamo metterla in pratica,
rendendoci poveri e vuoti davanti a Dio, perché egli «colma di bene
gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi» (cfr. Luc. 1,
53), distaccandoci dai beni terreni, e dando il superfluo a chi è
nel bisogno (cfr. Luc. 11, 41). Dobbiamo amare i Poveri,
in certo modo sacramento di Cristo, perché in essi - negli
affamati, negli assetati, negli esuli, negli ignudi, negli
ammalati, nei prigionieri - Egli ha voluto misticamente identificarsi
(cfr. Matth. 25, 31-46); dobbiamo aiutarli, soffrire con
loro, e anche seguirli, perché la povertà è la strada più sicura
per il pieno possesso del Regno di Dio.
IL DOVERE DI FAVORIRE I POPOLI
BISOGNOSI
Accanto a questi propositi personali, ecco quelli che devono sorgere
dalla coscienza delle nazioni, nel senso di responsabilità che tutte
le coinvolge per il bene e per la pace del mondo: è il dovere
indilazionabile di favorire i popoli bisognosi di maggiore sviluppo. E
questo non con la violenza, ma con la mitezza del Vangelo; ma con la
forza morale della giustizia; ma con la carica dirompente dell’amore.
Sia questo modernissimo programma l’impegno della Chiesa del tempo
presente; sia l’impegno nostro di noi persone, di noi istituzioni,
di noi popoli, affinché il Vangelo sia veramente annunziato a tutte
le anime, e non trovi ostacoli nella ostinazione o nell’insensibilità
di nessuno, specie di quanti portano il nome cristiano.
O San Giuseppe, Patrono della Chiesa; tu che, accanto al Verbo
incarnato, lavorasti ogni giorno per guadagnare il pane, traendo da
Lui la forza di vivere e di faticare; tu che hai provato l’ansia del
domani, l’amarezza della povertà, la precarietà del lavoro: tu che
irradii oggi, nel giorno della tua festa liturgica, l’esempio della
tua figura, umile davanti agli uomini ma grandissima davanti a Dio:
guarda alla immensa famiglia, che ti è affidata. Benedici la
Chiesa, sospingendola sempre di più sulla via della fedeltà
evangelica; proteggi i Lavoratori nella loro dura esistenza
quotidiana, difendendoli dallo scoraggiamento, dalla rivolta
negatrice, come dalle tentazioni dell’edonismo; prega per i Poveri,
che continuano in terra la povertà di Cristo, suscitando per essi le
continue provvidenze dei loro fratelli più dotati; e custodisci la
Pace nel mondo, quella pace che sola può garantire lo sviluppo dei
popoli, e in pieno compimento delle umane speranze: per il bene della
umanità, per la missione della Chiesa, per la gloria della Trinità
Santissima. Amen.
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