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Giovedì Santo, 3 aprile 1969
Fratelli!
Noi siamo esitanti a prendere la parola, questa sera, in questa
assemblea, in questa «ecclesia», tipica in tutta la cattolicità,
ma per ciò stesso eguale ad ogni singola riunione di fedeli, raccolti
intorno ad un altare, convocati e serviti dal ministero prodigioso dei
loro pastori, quasi fossero con noi, come noi celebranti questa
misteriosa cena del Signore.
Siamo esitanti, perché temiamo di turbare l’interiorità personale
dei vostri pensieri, la quale Noi supponiamo profonda in ciascuno di
voi, e singolarmente tesa nello sforzo di concentrarsi finalmente in un
momento di più chiara coscienza, per cogliere qualche cosa del rito,
che stiamo celebrando, del suo significato, della sua misteriosa
realtà, della sua ineffabile ripercussione nella nostra psicologia,
nella nostra mentalità, nella nostra anima. Quasi istintivamente,
per il fatto che siamo qui, intervenuti a questa speciale,
specialissima cerimonia, ognuno di noi è preso da un senso di
raccoglimento e da un bisogno di ritrovare se stesso, al contatto,
alla luce di questa celebrazione.
Ebbene, Noi cercheremo con queste Nostre brevi parole, le quali
fanno anch’esse parte della celebrazione stessa, di non allentare la
vostra interiore tensione, di non distrarvi, ma di assecondare, se
possibile, il corso ovvio ed essenziale dei vostri pensieri medesimi.
A che cosa essi ora si rivolgono? qual è il loro primo contenuto?
Essi si rivolgono ad un fatto evangelico ben noto, all’ultima cena di
Gesù con i suoi discepoli. Ricordiamo bene quell’avvenimento.
Ciascuno di noi cerca di rappresentarsene il quadro, di vederlo con la
propria immaginazione; il nostro è un atto di memoria. E subito ci
accorgiamo che questa memoria assume un valore speciale; è una memoria
voluta da Cristo stesso: «Fate questo, disse proprio allora
Gesù, fate questo in memoria di me» (Luc. 22, 19; 1 Cor.
11, 24).
Tra pochi istanti noi ripeteremo alla lettera queste parole. Questa
commemorazione stabilisce perciò un rapporto storico, diretto,
premeditato fra Cristo e noi, un rapporto di ossequio al suo volere,
di fedeltà alla sua parola, una sua presenza spirituale; con questa
particolare intenzione: di trasformare noi memori, noi spettatori, in
convitati; di farci sedere a quella mensa, così semplice, ma così
carica di significati immensi e profondi.
Una memoria che diventa storia presente e storia nostra; una storia
che si attualizza per noi, in noi, quasi che noi pure fossimo ora,
come fosse allora, seduti a quella cena pasquale, in cui si consumava
la Pasqua .tradizionale, celebrativa della liberazione del Popolo
eletto dalla schiavitù, mediante l’immolazione dell’agnello (cfr.
S. GAUDENT., Primus Tractatus, PL 20, 827), e le
era sostituita la Pasqua nuova, la nostra, «in cui Cristo, come
spiega S. Paolo, è immolato Pascha nostrum immolatus est
Christus» (1 Cor. 5, 7). Lui assume la preconizzata e
tragica funzione di «Agnello di Dio, di colui che toglie il peccato
del mondo» (Io. 1, 29); e Lui inaugura quel nuovo
Testamento, in cui noi ora ci troviamo; lo inaugura dando alla sua
ultima cena, da rinnovarsi come annuncio perenne della sua morte (1
Cor. 11, 26), il valore di sacrificio, rendendo Se stesso
presente col suo Corpo e col suo Sangue come vittima immolata,
raffigurata nei segni del pane e del vino, resi per noi spirituali
alimenti, cioè mezzi di comunione e fonti di vita, della vita stessa
di Cristo, infusa in noi.
Infusa in noi, perché? oh! è chiaro: affinché noi viviamo di
Lui, di Cristo. Questo è il prodigio: «chi mangia di me, disse
Gesù, vivrà di me», e vivrà per me (Io. 6, 57; cfr. S.
AUG., In Io. tr. 26, PL 35, 1615). Ma come,
come? cioè qual è il significato essenziale, l’effetto
soprannaturale, la «res», come dicono i teologi (cfr. S. Th.
3, 73, 3), di questa alimentazione sacrificale, per la quale
Cristo si comunica a noi, e noi ci inseriamo in Lui? È una nuova,
misteriosa unità, che deve risultare appunto dalla partecipazione
all’Eucaristia, perché Eucaristia si chiamerà questa celebrazione
di amore memore e riconoscente, questa «agape», questa comunione
sacrificale; è l’unità del corpo mistico, è la Chiesa, corpo
mistico di Cristo, vivente di fede, di speranza e di carità.
Nessuna parola a questo proposito è più chiara di quella
dell’Apostolo: «noi formiamo un unico corpo pur essendo molti,
poiché tutti partecipiamo d’un unico pane» (1 Cor. 10,
17).
Fratelli miei! a questo pensiero Noi vorremmo che si fermasse la
nostra riflessione circa il rito, anzi circa la cena pasquale, che
stiamo celebrando. Non è certo pensiero nuovo e originale! guai se
lo fosse! è il pensiero vero, conclusivo, tempestivo della nostra
Pasqua. E cioè il pensiero dell’unione, diciamo di più:
dell’unità, della misteriosa, vitale, obbligante unità, che deve
così ravvivarsi in noi da farci poi vivere di sé, essere la nostra
luce per la nostra vita pratica e sociale, formare la qualificazione
caratteristica della nostra romanità cattolica: l’unione, l’unità
fra di noi! È quel volersi bene, l’un l’altro, quell’amarci a
vicenda, come Lui, Gesù, ci ha amati; è il suo comandamento
supremo, è il distintivo che siamo davvero suoi discepoli! (Io.
13, 34-35).
Questo richiamo ci sembra opportuno. Tanto si parla di unità nel
mondo. La storia dell’umanità, nonostante le fratture, le lotte,
le disparità che la dividono, cammina verso l’unità: vi arriverà?
o sarà conato vano il suo sforzo di solidarietà mondiale? e se vi
arrivasse, sarà sua fortuna, o sua sventura per la «unica
dimensione» che potrebbe assumere un’unità puramente tecnica ed
esteriore, cioè per la perdita delle sue libere e plurime espressioni
dell’umanità universale? L’umanità ha bisogno d’unirsi nella
solidarietà e nell’amore: e dove ne trova il tipo e la fonte?
Si parla di unità nel pluralismo delle denominazioni cristiane
nell’ecumenismo; e quando quest’unità potrà dirsi effettiva e
perfetta, se non quando sarà unanime nella confessione d’unica fede,
condizione indispensabile per la partecipazione ad una medesima
comunione eucaristica?
Si parla di un rinnovamento nella dottrina e nella coscienza della
Chiesa di Dio; ma come potrà essere autentica e persistente la
Chiesa viva e vera, se la compagine che la forma e la definisce
«corpo mistico», spirituale e sociale, è oggi così spesso e così
gravemente corrosa dalla contestazione o dall’oblio della sua struttura
comunitaria e gerarchica, contraffatta nel suo divino e indispensabile
carisma costitutivo, ch’è l’autorità pastorale? come potrà
arrogarsi d’essere Chiesa, cioè popolo unito, anche se localmente
frazionato e storicamente e legittimamente diversificato, quando un
fermento praticamente scismatico la divide, la suddivide, la spezza in
gruppi più che d’altro gelosi d’arbitraria e, in fondo, egoistica
autonomia, spesso mascherata di pluralismo cristiano o di libertà di
coscienza? come potrà essere costruita la Chiesa di Cristo da
un’attività, che vorrebbe dirsi apostolica, quando questa attività
è volutamente guidata da tendenze centrifughe, e quando sviluppa non
la mentalità dell’amore comunitario, ma quella piuttosto della
polemica particolarista, o quando preferisce pericolose e equivoche
simpatie, bisognose di irriducibili riserve, alle amicizie cristiane
fondate su basilari principii, indulgenti verso i comuni difetti, e
bisognose sempre di convergenti collaborazioni?
Si parla ancora di Chiesa, e di Chiesa cattolica, la nostra: ma
possiamo noi dire a noi stessi ch’essa, nei suoi membri, nelle sue
istituzioni, nella sua operosità è sempre e davvero animata da quel
sincero ed umile spirito di unione e di carità, che la renda degna di
celebrare, senza ipocrisia e senza consuetudinaria insensibilità, la
nostra santissima. Messa quotidiana? Non vi sono talvolta anche fra
noi quegli «schismata», quelle «scissuras», che la prima lettera
ai Corinti di S. Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura,
dolorosamente denuncia? (1 Cor. 1, 10; 12, 25; 11,
18). Abbiamo sempre bisogno di costruire quella carità,
quell’unità virtuosa di sentimenti e di rapporti, che 1’Eucaristia
presuppone ed alimenta, e che sublimerà nelle parole testamentarie di
Cristo, che tutti siano uno, «ut unum sint» (cfr. Io. 13,
34-35; 17, 21 ecc.).
E qui, in questo momento che precede immediatamente la nostra
comunione con Cristo, unificatore di noi suoi seguaci e suoi membri,
rinnoviamo la nostra, interiore maniera di pensare e di agire (cfr.
Eph. 4, 23); rinunciamo allo spirito di emulazione e di
discordia, alla sottile tentazione della maldicenza fra noi fratelli;
e, se bisogno vi fosse, allarghiamo gli animi al perdono per chiunque
ci avesse usato torto come promettiamo riconciliazione con chiunque a
cui si deve restituire rapporto di umana conversazione (cfr. Matth.
5, 23: come appressarci alla cena cristiana della carità e
dell’unità, senza questa pace nel cuore?
E una grazia domandiamo oggi a Cristo Gesù: che dia alla sua
Chiesa, a questa Chiesa di Roma chiamata a «presiedere alla
carità» (S. IGNAZIO, Epist. ad Romanos, Inscript.,
Ed. Funk, «Patres Apostolici», p . 222), di conservarsi e
di perfezionarsi sempre nell’unità interiore sua propria, come la
Pasqua del Signore lo esige. Così sia.
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