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Sabato, 23 aprile 1966
COMUNIONE DI ATTIVITÀ E DI PREGHIERA
Diletti e venerati Fratelli nel Sacerdozio, e carissimi Figli e
collaboratori nel servizio della Sede Apostolica Romana!
Una semplice e breve parola, dopo quelle tanto belle e degne di
memoria, che avete ascoltate nei giorni precedenti in preparazione a
questo nostro atto di penitenza e di preghiera, per l’acquisto delle
indulgenze del Giubileo, indetto con la Nostra Costituzione
«Mirifici eventus». Una parola per compiacerci con voi di codesta
partecipazione, di codesta presenza, di codesta pietà; e per dirvi
che Noi pure siamo con voi, col cuore, con la preghiera, con la
fiducia nei benefici, che speriamo ottenere dal Signore, mediante
questa uniformità alle condizioni prescritte dalla Costituzione
medesima. Ci è sempre motivo di edificazione e di consolazione il
passaggio dalla comunione del Nostro e vostro servizio alla Sede
Apostolica alla comunione nella preghiera e nella celebrazione dei
sacri riti, che insieme ci innalzano al culto di Dio e al godimento
della presenza misteriosa di Cristo fra noi. Questa occasione poi Ci
sembra particolarmente importante, perché Ci dà confidenza a
confortare negli animi di tutti i presenti sentimenti e propositi di
grande merito e destinati, se il Signore ci aiuta, a diventare
duraturi ed operanti per tutta la vita e a produrre frutti magnifici,
di cui Roma non solo, ma tutta la Chiesa dovrà compiacersi.
Questi sentimenti e propositi riguardano, niente meno, che due
riforme; una, la nostra personale, quella voluta e promossa dal
Giubileo, che dovrebbe avere efficacia di rinnovare in noi stessi la
coscienza di quanto di meglio da Dio abbiamo ricevuto: la grazia, la
vocazione, il Sacerdozio; e di quanto di meglio a Dio abbiamo
stabilito di offrire: il cuore, l’opera, la vita, e con la
coscienza la promessa d’un’assoluta, e sempre vigile, sempre
alacre, sempre generosa fedeltà. L’altra riforma, quella della
Curia e della Chiesa, voluta dal Concilio ecumenico, che nella
celebrazione del Giubileo deve attingere le enèrgie necessarie alla
sua sincera e metodica applicazione.
OFFERTA A DIO IN VIGILE ED ALACRE
FEDELTÀ
Parola consueta, la riforma. Siamo stati ad essa abituati dalla
nostra educazione cristiana ed ecclesiastica.
L’ascetica cattolica e la pratica della nostra religione, la
frequenza specialmente del sacramento della Penitenza e degli esercizi
spirituali ci ricordano continuamente questo dovere e questo bisogno di
riforma: di rinvigorire cioè in noi la grazia di Dio, di vigilare
sulla nostra fragilità, di deplorare le nostre mancanze, di
riconfermare i nostri propositi, di riparare cioè ogni anno, ogni
giorno, ogni ora la nostra inguaribile caducità, e di rimettere le
nostre anime in condizioni sempre buone e sempre nuove; il che appunto
significa attendere ad uno sforzo di riforma permanente; e Dio voglia
ch’essa sia rivolta ad un crescente profitto di grazia e ad un
progressivo esercizio di virtù, che ci portino ad un incremento di
vita soprannaturale, mentre quella naturale va declinando: «donec
occurramus . . in virum perfectum in mensuram aetatis plenitudinis
Christi» (Eph. 4, 13).
I RICHIAMI E LE ESIGENZE DEL GIUBILEO
Ma anche parola difficile e molesta, la riforma. La nostra debolezza
prevale spesso sulle migliori disposizioni, e genera una tacita
acquiescenza alla misura morale ch’è stata raggiunta, con la
persuasione in alcuni d’avere ormai conseguita una perfezione
sufficiente, ovvero con lo scetticismo in altri di poterne conseguire
una migliore. Viene questo Giubileo; e ci parla d’una più
volonterosa rinnovazione spirituale, e rivolge il suo invito, quasi
indiscreto, anche a quelli che già sono sulla buona via, così che
«christianos optimos ad altiora quaeque impellat, bonos vero ad
acriorem alacritatem commoveat» (Const. Mir. eventus). Non
lascia tranquillo alcuno il Giubileo, né alcuno il richiamo alla
riforma interiore. Bisogna riprendere l’esame della coscienza,
bisogna riconsiderare i benefici ricevuti da Dio, bisogna ricordare le
tante promesse fatte, bisogna ripensare ai propri doveri, bisogna
modificare tanti modi preferiti di pensare e di agire, e bisogna alla
fine credere che è ancora possibile, con l’aiuto divino, diventare
migliori. Non indugiamo di più. Voi conoscete tutte queste cose;
alcuni di voi ne sono perfino maestri.
A SERVIZIO DELLA MISSIONE UNIVERSALE
DELLA CHIESA
E noi oseremo compiere questo umile e coraggioso atto di revisione
interiore in ordine specialmente alla posizione che la Provvidenza ci
ha assegnata nella santa Chiesa. Non è dubbio che tale posizione
deve considerarsi privilegiata, nel senso che l’essere membri della
Chiesa romana, e l’essere in questa destinati al servizio della sua
missione universale, al servizio cioè della Santa Sede, costituisce
una particolare fortuna, che si connette con l’elezione di Pietro, e
che tanto più aumenta la nostra responsabilità, quanto più gode
della fiducia di Cristo e vuole, per vocazione di Cristo stesso,
essere commisurata ad un maggiore amore. A ciascuno di noi, in quanto
facenti parte della Santa Sede, cioè del ministero di Pietro, è
da Cristo domandato: «Mi ami tu più degli altri?» (cfr. Io.
21, 15). Al primato di autorità deve corrispondere un primato
di carità, cioè di servizio, di esempio, di dedizione, di
santità.
Questa considerazione dovrebbe essere prolungata nell’indagine dei
nostri doveri specifici circa la verità cristiana, che a Roma ha la
sua cattedra più autorevole, la sua custodia più fedele, la sua
diffusione più apostolica; e ciò nel senso d’una nostra adesione
sempre ferma e cordiale, a quella Parola di Dio, che la Chiesa ci
ripete e ci spiega; e d’un’umiltà sempre sincera e a tutti palese,
per il fatto che il saperci favoriti dal possesso della Verità vera,
della Verità che salva, ci deve rendere trepidanti ed esultanti,
sì, per tanto dono, ma tanto più solleciti a dirlo gratuito quel
dono, a sentirlo interiormente esigente di fedeltà e di santità, a
trasmetterlo apostolicamente con ansia che tutti ne abbiano parte. Non
mai l’ortodossia di cui ci è dato godere sia per noi motivo di
orgoglio e di prestigio, argomento per la vana polemica o contro la
carità, pretesto alla pigrizia egoista dei fortunati, sì bene
stimolo a maggiore studio, e a più fervorosa orazione, come pure a
fraterna comprensione, a zelo maggiore.
Se riusciamo a riformare noi stessi, o meglio ad uniformare noi stessi
in ordine ai grandi doveri che l’esercizio del supremo magistero
ecclesiastico reclama da quanti, in qualsiasi forma e misura nel
servizio della Sede Apostolica, vi sono addetti, abbiamo compiuto,
Noi pensiamo, opera molto coerente con la tradizione romana, molto
rispondente a ciò che il Signore vuole da noi, e molto conforme ai
bisogni della Chiesa che ci guarda e del mondo che attende. Sempre,
ed oggi dopo il Concilio più che mai, deve potersi ripetere l’elogio
dell’Apostolo Paolo alla prima comunità della Chiesa romana:
«Fides vestra annuntiatur in universo mundo» (Rom. 1, 8).
ATTUARE CON GENEROSO SLANCIO I DECRETI
DEL CONCILIO
E che diremo della riforma della Curia romana e della Chiesa intera,
a cui il Concilio ecumenico ci guida ed il Giubileo ci esorta? Nulla
in questa sede ed in questo momento: per quanto riguarda le operazioni
esterne e giuridiche, nelle quali la riforma dovrà concretarsi.
Qui ci basta confermare e conformare i nostri animi alle disposizioni,
che il Concilio rimette alla nostra accettazione e alla nostra
applicazione.
Qualunque sia stata la nostra opinione circa le varie dottrine del
Concilio, prima che ne fossero promulgate le conclusioni, oggi la
nostra adesione alle deliberazioni conciliari dev’essere schietta e
senza riserve, volenterosa anzi e pronta a darvi suffragio di
pensiero, di azione e di condotta. Il Concilio è stato una grande
novità; non tutti gli animi erano predisposti a comprenderla e a
gradirla. Ma bisogna ormai ascrivere al magistero della Chiesa le
dottrine conciliari, anzi al soffio dello Spirito Santo; e dobbiamo
con fede sicura ed unanime accettare il grande «tomo», cioè il
volume, il testo degli insegnamenti e dei precetti, che il Concilio
trasmette alla Chiesa. Noi, Chiesa romana, per primi; anche in
questo a tutti amichevole stimolo e fraterno esempio, mentre di questa
effettiva accettazione dobbiamo essere autorevoli promotori ed
interpreti.
È stato, dicevamo, una grande novità, ma non difforme alla nostra
autentica tradizione; anzi, per molti aspetti, il Concilio ha voluto
essere un ritorno alle fonti, un restauro di forme originarie di
culto, di pensiero, di prassi, uno studio di preferire, come disse
il Signore, il «mandatum Dei» alla consuetudine invalsa nel corso
del tempo (cfr. Matth. 15, 2). Ecco una riforma
psicologicamente e praticamente non facile.
LA CONVINTA E FATTIVA ADESIONE ALLE
VERITÀ DEL VANGELO
Non facile è pur quella che comporta qualche sviluppo nella dottrina
e, di conseguenza, nella prassi; come non facile è anche la
riaffermazione della tradizione autentica di verità e di costume, che
il Concilio porta con sé; non sembra questa riaffermazione, a prima
vista, una riforma, perché invece di mutamenti produce rinnovazione,
ma la rinnovazione è, per molti riguardi, la più vera riforma, è
quella che si compie negli animi più che nelle cose; negli animi
immemori, negli animi dubbiosi, negli animi stanchi, negli animi
superficiali, negli animi fluttuanti ad ogni vento di moderna opinione
(cfr. Eph. 4, 14), e ricorda che la verità divina non muta e
che sempre è feconda di luce e di vita, per chi docilmente la
accoglie; ed era questa, nell’intenzione del Nostro venerato
Predecessore Giovanni XXIII la principale riforma, non delle
dottrine, ma degli animi, chiamati dal Concilio a più convinta e
fattiva adesione alle verità del Vangelo, custodite e insegnate dal
magistero ecclesiastico.
A tutto questo ci chiama l’atto profondamente religioso che stiamo
compiendo; e ci darà sicurezza della sua sincerità e della sua
efficacia l’amore che qui, nella sua prima Basilica, professiamo
solennemente a Gesù Cristo nostro Signore, nostro Salvatore,
nostro Maestro, nostro Alimento, nostro misterioso e silenzioso
Compagno di via nel pellegrinaggio che da questa terra crepuscolare e
tormentata ci conduce alla patria eterna luminosa e felice, dove
Egli, Cristo Signore, vive e regna insieme col Padre e con lo
Spirito Santo, per tutti i secoli.
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