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2 febbraio 1975
Venerati Fratelli e Sorelle in Cristo,
Figli tutti carissimi,
Una festa antica, che ha nel Vangelo ora ascoltato la sua lontana e
sempre viva radice, una festa in cui Cristo figura protagonista
nell'offerta che di Lui è fatta, Figlio dell'uomo al Padre
celeste, ed in cui la Madonna, velata e splendente nel manto d'un
rito biblico, quello della purificazione superflua alla sua divina
maternità, ma irradiante la sua sublime verginità, appare per la
prima volta nella storia ufficiale della liturgia romana (Cfr.
DUCHESNE, Liber Pont. 1, 376), ci riunisce
quest'oggi, in questo tempio grandioso e misterioso che, custode
delle spoglie mortali dell'apostolo Pietro, glorifica il volto della
Chiesa immortale: una, santa, cattolica ed apostolica, da Gesù
Signore fondata sull'umile e debole discepolo, ma divenuto solida
roccia, posto a fondamento centrale del nuovo Popolo di Dio (Cfr.
Lumen Gentium, 18 et 22), una festa antica, diciamo, si fa
attuale in questa nostra celebrazione, che raccogliendo i vari motivi
della sua preghiera, ne ricava, con le tradizionali espressioni,
questa nuovissima, che aggiunge al fervore spirituale dell'Anno
Santo un suo originale colore, e tramuta in vento pentecostale la
tempesta stessa del tempo nostro non poco minacciante d'intorno a noi.
Mettiamo ordine nei nostri pensieri. La scena evangelica si
ricomponga davanti al nostro spirito. Gesù bambino è portato al
Tempio, anzi offerto a Dio, con un atto esplicito di riconoscimento
del diritto divino sulla vita dell'uomo. La vita dell'uomo, del
primogenito (Cfr. Ex. 13, 12 ss.), come suo simbolo,
appartiene a Dio. La gerarchia religiosa delle cause e dei valori è
nella natura delle cose; la religione è una esigenza ontologica, che
nessun ateismo, nessun secolarismo può annullare; negare,
dimenticare, trascurare l'uomo potrà, a suo torto e a suo danno;
confutare essenzialmente, razionalmente, senza violenza al suo
pensiero e al suo essere non gli è alla fine possibile; riconoscerla,
la religione, al principio d'una concezione autentica, esistenziale
delle cose e della vita, è necessità, è sapienza; il
cristianesimo, senza farne una teocrazia politica, lo conferma. Dice
ad esempio, San Paolo: «Nessuno inganni se stesso: . . . sì,
tutte le cose sono vostre, ma voi siete di Cristo, e Cristo di
Dio» (1 Cor. 3, 18, 22-23). Non è forse così che
voi, Religiosi e Religiose, voi tutti Fedeli, concepite la vita?
Dio è il primo, Dio è tutto; l'atto primario, costituzionale
della nostra esistenza è l'atto religioso, l'adorazione,
l'ossequio, e noi beati che siamo invitati a fare della nostra
religione una professione d'amore.
Gesù ci appare, fin dalla sua origine nel tempo, come l'interprete
e l'esecutore della volontà del Padre. «Entrando nel mondo,
leggiamo nella lettera agli Ebrei, . . . Io dissi: ecco, Io
vengo, . . . per compiere, o Dio, la tua volontà!» (Hebr.
10, 7); «mio cibo, Egli dirà nel Vangelo, consiste nel
compiere la volontà di Colui che mi ha mandato» (Io. 4, 34);
«per questo Io sono disceso dal cielo, non per fare la mia volontà,
ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Io. 6, 38); tutta
la vita di Cristo è dominata infatti da questo collegamento con la
volontà divina, fino al Gethsemani, dove l'uomo Gesù tre volte
dirà: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice
(dell'imminente passione), ma però non ciò che voglio Io, ma
come vuoi Tu» (Matth. 26, 39); così che l'epigrafe della
sua esistenza temporale sarà riassunta da S. Paolo così:
«Umiliò Se stesso, fattosi obbediente fino alla morte, e alla
morte di croce» (Phil.2, 8). Dalla semplice scena, quasi
puramente episodica, della presentazione di Gesù bambino al Tempio,
noi intravediamo per iscorcio il tragico dramma messianico che incombe
su di Lui.
Noi riviviamo in questo momento non soltanto la memoria del fatto
evangelico, ma il suo mistero redentore che si proietta sopra di noi,
e da noi reclama la celebre adesione dell'Apostolo: anch'io «compio
nella mia carne quello che manca alle sofferenze di Cristo» (Col.
1, 24). Difatti, Fratelli e Sorelle votate a Cristo, per voi
questo rito propone una domanda, la cui risposta qualifica e impegna la
vostra vita; la domanda della rinnovazione dei vostri voti religiosi.
E da codesta risposta, a cui fa eco certamente quella che in cuor loro
ripeteranno i Fedeli presenti, memori delle loro promesse
battesimali, noi confidiamo che scaturisca, integra e nuova, totale e
felice, la vostra offerta, unita a quella di Gesù: «Eccomi,
manda me»! (Is. 6, 8) Grandeggia così con quello di Cristo
il vostro destino. Volete? Osservate ancora. Maria è presente,
nella memoria del rito a cui Ella, la purissima, l'immacolata,
umilmente si uniformò, quello della purificazione prescritta dalla
Legge mosaica (Lev. 12, 6), silenziosa custode del suo segreto
prodigio: la divina maternità aveva lasciato intatta la sua
verginità, dando a questa il privilegio d'essere di quella
l'angelico santuario. Qui il fatto si fa mistero, e il mistero
poesia, e la poesia amore, ineffabile amore. Non già un risultato
sterile e vacuo; non sorte inumana, ma sovrumana quando la carne sia
sacrificata allo spirito, e lo spirito sia inebriato d'amore più
vivo, più forte, più assorbente di Dio, «contento ne' pensier
contemplativi» (DANTE, La Divina Commedia, III, 21,
127).
E nell'incontro odierno con Maria, la Vergine Madre di Cristo,
s'illumina nella nostra coscienza la scelta, libera e sovrana, del
nostro celibato, della nostra verginità; anch'essa, nella sua
ispiratrice origine, più carisma che virtù; possiamo dire con
Cristo: «Non tutti comprendono questa parola, ma solo coloro a cui
è concesso» (Matth. 19, 11). «Vi sono nell'uomo, insegna
S. Tommaso, delle attitudini superiori, per le quali egli è mosso
da un influsso divino», sono i «doni», i carismi, che lo guidano
mediante un interiore istinto di ispirazione divina (Cfr. S.
THOMAE Summa theologiae, I-II, 68, 1). È la
vocazione! la vocazione alla verginità consacrata al celibato sacro,
la quale vocazione, una volta compresa ed accolta, così alimenta
d'amore lo spirito, che questo tanto ne è sovrabbondante da essere,
con sacrificio, si ma un sacrificio facile e felice, affrancato
dall'amore naturale, dalla passione sensibile e da fare della sua
verginità una «inesauribile contemplazione» (Cfr. Ibid.
I-II, 152, 1), una religiosa sazietà, sempre superiormente
tesa e affamata, e capace, come nessun altro amore, di effondersi nel
dono, nel servizio, nel sacrificio di sé per fratelli ignoti, e
bisognosi appunto d'un ministero di carità che imiti, e, per quanto
possibile, eguagli, quello di Cristo per gli uomini.
Questo più si vive, che non si esprima. Voi, Fratelli e
Sorelle, a Cristo immolati, ben lo sapete. E se oggi qui siete
convenuti per esprimere in preghiera ed in simboli questo superlativo
programma di vita in Cristo, con l'espressione incisiva di San
Paolo: «mihi vivere Christus est» la mia vita è Cristo (Phil.
1, 21), noi, noi stessi, invece che riceverlo, come di solito
in questa occasione, dalle vostre mani, lo daremo a voi il cero
benedetto, simbolo d'un'immolazione che consumandosi effonde luce
d'intorno a sé. Lo daremo appunto per Onorare la vostra oblazione
al Signore e alla sua Chiesa, per confermare la vostra gioiosa
promessa, per accendere in voi quella carità, che nemmeno la morte
può spegnere (Cfr. 1 Cor. 13, 13).
Con la nostra Apostolica Benedizione.
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