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Mercoledì delle Ceneri, 11 febbraio 1970
Con un richiamo alla potenza espiatrice del dolore, il Santo Padre
invita i fedeli a offrire, in questa Quaresima, le loro sofferenze
perché la Chiesa possa sentire in se stessa la virtù redentrice di Cristo.
Voi sapete in quali condizioni oggi la Chiesa si trova. Fervore,
novità, fermenti molto belli. Ma si trova anche in grande crisi.
Si stupisce tante volte la nostra avvertenza di cose inaudite che
avvengono intorno a noi. La Chiesa ha bisogno anch’essa di essere
salvata da qualcuno che soffre, da qualcuno che porta dentro di sé la
Passione di Cristo.
La Passione di Cristo deve avere un complemento nella nostra
passione. Sarà una piccola porzione, ma anche noi avremo qualche
cosa da offrire per la redenzione del mondo se impariamo quest’arte che
è esclusiva della scuola del Signore: saper soffrire: l’arte di
soffrire per la redenzione, per il bene, per la restaurazione
dell’ordine divino, per riportare la vita dove è la morte.
Fate bene questa Quaresima proprio per la Santa Chiesa, perché la
Santa Chiesa possa sentire in se stessa la virtù redentrice di Cristo.
All’inizio del discorso, Sua Santità sottolinea come la Chiesa
dia grande importanza alla distribuzione del tempo e al suo impiego e
come fra i vari periodi del calendario quello quaresimale sia il più
intenso per le anime. Accenna poi al rito del mattino e al segno delle
Ceneri: «Ricordati che non sei che polvere anche tu e in polvere sei
destinato a ritornare». Pone quindi l’accento sull’utilità della
pratica del digiuno, sulla necessità di astenersi e liberarsi dalla
schiavitù dei bisogni esteriori e materiali per un arco di tempo pari a
quello che Gesù stesso si impose.
Nel quadro della « pedagogia forte e sublime » della Quaresima,
Paolo VI invita quindi a riflettere sulle implicazioni teologiche che
la liturgia di questo tempo porta con sé, a riconsiderare ciò che la
Chiesa pensa dell’uomo, del suo essere, della sua storia, del suo
dramma, dei suoi destini, e come in questo dramma intervengano la
giustizia e la severità di Dio. Siamo immagine di Dio, riflessi
della sua infinità, della sua sapienza, della sua bellezza. Se
fossimo ancora come Dio ci ha creato, dovremmo essere sue fedeli
immagini. Ma venne il grande dramma, l’uomo cadde, ruppe in se
stesso lo specchio in cui si riverbera la vita di Dio. Si spezzò nel peccato.
Il Papa osserva come l’uomo di oggi sia troppo abituato a incontrare
il peccato dentro di sé e al di fuori di sé. È un momento in cui la
ribellione sembra confondersi con la libertà: quanto più grande e
inqualificabile è l’offesa, tanto più si ritiene che l’uomo abbia
guadagnato se stesso. Occorre una rinascita interiore; dobbiamo
ricostruire in noi questo senso perduto, il senso, la cognizione,
almeno il barlume del dramma che è il peccato.
Facciamo diagnosi di tutte le nostre malattie, abbiamo medicine
meravigliose ma stiamo dimenticandoci la scienza della nostra sorte.
Tutta la storia del peccato dovrebbe diventare oggetto di meditazione
quaresimale. Dovremmo meditare sull’inesorabile sfortuna della nostra
sorte. Come potremo riavere il sorriso, la pace, la bontà, la
misericordia, la vita che è Dio? Compare sul nostro cammino
Cristo, che entra nella storia dell’uomo. Il periodo quaresimale
suppone e mette in moto la Cristologia. Gesù viene come fratello,
come uno di noi. Viene ad assumere su di sé tutto il peso, tutta la
responsabilità, tutte le conseguenze del disordine umano. Ecco la
vittima. Avviene l’incontro tra noi e il Benefattore. Il Figlio
di Dio è venuto. Il Vangelo offre elementi di meditazione sublime
alle nostre povere menti.
Come incontrarsi con questo Salvatore che è necessario più
dell’aria? Paolo VI indica la pedagogia della Chiesa come l’arte
con la quale ci si approssima al Cristo. Pedagogia della parola,
pedagogia della penitenza. Tutti sono soggetti alla grande tentazione
di assimilarsi agli altri, e alle mode che ci circondano. Si dice che
ieri l’uomo si convertiva a Dio, mentre oggi si converte all’uomo:
nel cinema, nell’abito, nella letteratura. Integrarsi?
Allontanarsi dall’alienazione religiosa? Non così ci parla la
Chiesa. Bisogna separarsi dalla turba, cercare qualche distinzione
- anche sociale, se occorre - per marcare questa intenzione.
Mettersi in condizione di essere preferiti, amati da Dio. Farci
vedere da Cristo, porsi sotto il cono della sua luce. Convertirci
non al secolo, ma al Signore.
Il Papa esorta, perciò, a coltivare nella Quaresima questo grande
capitolo dell’antropologia cristiana, prima di arrivare al capitolo
trionfale della Risurrezione. Nulla di utopistico in tutto ciò.
Crediamo che la perfezione sia ancora possibile. La santità non è
una utopia. È un livello difficile da raggiungere, ma non è
un’illusione, è, anzi, una realtà che noi stessi dobbiamo creare.
La seconda esortazione del Papa, dopo quella a riflettere su questa
grande lezione della Quaresima, riguarda la necessità di
partecipare, e non soltanto di assistere, a questa importante stagione
di grazia. Il Concilio ci ha invitato a seguire passo passo la Via
Crucis. In questa partecipazione dobbiamo impegnare tutta la nostra
personalità, tutto il nostro essere. Lasciamo - egli dice - che
questa stagione ci commuova, che metta in moto oltre alla volontà
anche la nostra sensibilità. Si tratta di ritornare alla Croce, di
ricordare che il Signore ci ha salvato non con un colpo di bacchetta
magica, ma dando il suo sangue per noi, il suo amore, il suo tutto.
Ricordiamo la parola di San Paolo: Adimpleo ea quae desunt passioni
Christi in carne mea pro corpore Eius quod est Ecclesia e
soffermiamoci, con il Divino Paziente, sul mistero e sulla potenza
espiatrice del dolore.
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