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Giovedì Santo, 26 marzo 1970
Venerati Fratelli e Figli tutti carissimi,
Obbligati dal nostro ministero ad aprire le labbra in questo luogo
sacro, «magnum stratum», grande ed ornato, cenacolo per eccellenza
della Chiesa romana e cattolica, ed in questo momento, fra tutti
intenso di sentimenti e di pensieri religiosi ed umani, mentre ci
sarebbe caro ascoltare in interiore silenzio le grandi voci che salgono
dalla sublime liturgia, che stiamo celebrando, Noi offriremo alla
vostra benevola attenzione alcune elementari indicazioni, che valgano a
stimolare la nostra riflessione su gli aspetti ovvii e fondamentali di
questo rito e a mettere in sintonia i nostri animi in un comune coro
spirituale.
PIENEZZA DI COMUNIONE ECCLESIALE
E la prima indicazione è proprio questa relativa alla comunione
ecclesiale, che qui ci riunisce e che ora acquista una singolare
pienezza, un suo proprio significato. Questo è un momento
particolare di comunione fra noi, fra quanti hanno accolto il Nostro
invito e ci hanno fatto dono della loro presenza. Se mai occasione
felice ci è offerta per realizzare le parole del Signore: «Dovunque
due o tre persone sono riunite nel mio nome, Io sono in mezzo a loro»
(Matth. 18, 20), questa è per noi, mentre appunto questo suo
nome, e solo il suo nome, polarizza la nostra assistenza, ed emerge
fra noi, come se qui ora Egli fosse e tra poco sacramentalmente
sarà, e fin d’ora riempie di Sé le nostre anime, e le affratella
nella fede, nella concordia, nella pace, nel gaudio di saperci e di
sentirci « chiesa », cioè unione, suo unico ovile, suo corpo
mistico. Cada in questo momento ogni distanza fra noi, ogni
diffidenza, ogni noncuranza, ogni estraneità; cada ogni rancore,
ogni rivalità; e procuri ognuno di noi di sperimentare «quanto è
bello e quanto è giocondo che dei fratelli si trovino insieme» (Ps.
132, 1); e avverta ciascuno dentro di sé come l’aver la fortuna
d’essere, come la prima comunità dei credenti, «un Cuor solo e
un’anima sola» (Act. 4, 32) significhi realizzare la nostra
impegnativa qualifica di cristiani cattolici. La carità dentro la
Chiesa, la carità, che la raduna e la compone, la carità che la
specifica «corpo mistico» e rende fratelli tutti quelli che ne
accettano la socialità organizzata (Matth. 23, 8; Luc. 10,
16), la carità umile, amica e solidale fra di noi fedeli e seguaci
e ministri di Cristo, è il primo esigente requisito per sedere alla
mensa del Giovedì Santo (Cfr. Luc. 22, 24 ss.).
Insieme dunque, più che mai, viviamo quest’ora fugace. Ma quale
ne è lo scopo, quale l’intenzione? Perché siamo qui riuniti?
Ecco allora una seconda Nostra indicazione, anch’essa notissima.
Siamo qui per una commemorazione. Questo è un rito di memoria.
Sempre è tale una Messa, ma in questo giorno vogliamo far risaltare
il suo carattere commemorativo. Noi celebriamo il memoriale del
Signore, obbedendo alle sue parole, che possiamo dire testamentarie:
«Fate questo in memoria di me» (Luc. 22, 19; 1 Cor.
11, 25). Tutto il nostro spirito si riempie adesso del ricordo
di Lui, di Gesù: vorremmo potercelo raffigurare nella nostra
fantasia, com’Egli era, com’era la sua figura, il suo volto,
com’era il suono della sua voce, la luce dei suoi occhi, i gesti
delle sue mani . . . Nessuna immagine sensibile ci è pervenuta di
Lui; pensiamo con stupore a quella così impressionante e profonda
della sacra Sindone; pensiamo a scelta del nostro genio alle effigie
pie dei grandi artisti preferiti, alle descrizioni dei dotti e dei
santi; ma sempre con l’insoddisfazione propria di noi moderni, anche
troppo favoriti dalla civiltà dell’immagine, perché la sua non è
esibita al nostro sguardo, ma solo al nostro desiderio escatologico:
«Vieni, o Signore Gesù!» (Apoc. 22, 20). La nostra
memoria deve contentarsi d’un’altra sua presenza, quella della sua
parola! Allora tutto il Vangelo passa davanti alla nostra mente, la
quale però si arresta a quella parola che Cristo pronunciò in
quell’ultima cena notturna, e che Egli raccomandò al nostro
ricordo. Quale parola? Oh, bene lo sappiamo: «Prendete e
mangiate: questo è il mio Corpo; prendete e bevete: questo è il
calice del mio Sangue».
PRESENZA VIVA E REALE DEL SIGNORE
Il convito pasquale, perché tale era quella cena rituale (Cfr.
Luc. 22, 7 ss.), doveva essere oggetto dell’indimenticabile
ricordo, ma sotto un aspetto nuovo, non già dell’uccisione e del
pasto dell’agnello, segno e pegno dell’antica alleanza, ma sotto
quello del pane e del vino, tramutati nel corpo e nel sangue di
Gesù. L’agape a questo punto si fa mistero. La presenza del
Signore si fa viva e reale. Le apparenze sensibili restano quelle che
erano, pane e vino; ma la loro sostanza, la loro realtà è
intimamente cambiata; quelle restano solo per significare ciò che le
ha definite la parola onnipotente, perché divina, di Gesù: corpo e
sangue. Noi rimaniamo attoniti. Anche perché questo prodigio è
proprio ciò che il Signore ci ha detto di ricordare; anzi di
rinnovare. Egli ha detto agli Apostoli «fate questo», cioè ha
trasmesso in loro la virtù di ripetere il suo atto consacratorio, e
non solo di ripensarlo, ma di rifarlo; il sacramento dell’Ordine
sacro, come custodia, come sorgente del sacramento dell’Eucaristia,
è stato insieme a questo, in quella sera unica, istituito. Noi
rimaniamo attoniti, e subito tentati: ma è vero? È proprio vero ?
Come si spiegano quelle sillabe sacrosante di Cristo: questo è il
mio corpo, questo è il mio sangue? Si può trovare una
interpretazione, che non faccia violenza alla nostra elementare
mentalità? Alla nostra abituale metafisica riflessione? Viene anche
alla nostra bocca il commento repulsivo degli uditori di Cafarnao:
«Questo linguaggio è duro; e chi mai può ascoltarlo?» (Io.
6, 61). Ma il Signore non ammette dubbi, né esegesi elusive
della autentica realtà delle sue testuali parole; Egli ne fa
questione di fiducia; lascerebbe disperdere il gruppo amatissimo dei
suoi discepoli, piuttosto che esimerli dall’aderire alle sue
paradossali ma veraci parole, proponendo loro con linguaggio non meno
duro: «Volete andarvene anche voi?» (Ibid. 68).
L'ORA DELLA FEDE
Dunque questa è un’ora decisiva, l’ora della fede, l’ora che
accetta nella sua integrità, anche se incomprensibile, la parola di
Gesù; l’ora in cui celebriamo il «mistero della fede», l’ora in
cui ripetiamo anche con cieco e sapiente abbandono la risposta di
Simone Pietro: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole
di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo
Figlio di Dio» (Io. 6, 69-70). Sì, Fratelli e
Figli, questa è l’ora della fede, che assorbe e consuma l’oscura e
immensa nube delle obiezioni, che la nostra ignoranza da un lato, e la
raffinata dialettica del pensiero profano, dall’altro, addensano
sopra il nostro spirito, che umilmente e beatamente si lascia fulminare
dal verbo luminoso del Maestro e gli dice tremando come l’implorante
evangelico: «Credo, o Signore; ma Tu aiuta la mia incredulità»
(Marc. 9, 24).
Ed allora la fede interroga ancora: ma che cosa significa questo modo
di ricordare il Signore? Qual è il senso, quale il valore di questo
memoriale? Di questo sacramento di presenza, di questo mistero di
fede? Qual è l’intenzione dominante del Signore, che Egli voleva
imprimere nella memoria dei suoi in quell’ultimo incontro conviviale?
Vi è chi non si pone questa domanda, quasi per non scoprire una nuova
e strabiliante verità. Ma noi non ci possiamo fermare senza
raccogliere l’ultimo tesoro del testamento di Gesù. Tutto ci
obbliga a farlo, perché tutto in quella sera ultima della sua vita
temporale è estremamente intenzionale e drammatico: basterebbe
l’osservazione di questo aspetto dell’ultima cena per non porre più
termine alla nostra estatica meditazione. La tensione spirituale quasi
toglie il respiro.
L’aspetto, la parola, i gesti, i discorsi del Maestro sono
esuberanti della sensibilità e della profondità di chi è prossimo
alla morte; Egli la sente, Egli la vede, Egli la esprime. Due
note squillano sopra le altre in questa atmosfera attonita e resa
silenziosa dagli atti e dai presagi del Maestro: amore e morte. La
lavanda dei piedi, esempio impressionante di umile amore, il mandato,
il mandato ultimo e nuovo: amatevi come Io vi ho amato; e
quell’angoscia per il tradimento incombente, quella tristezza che
traspare dalle parole e dall’atteggiamento del Maestro, e quella
effusione mistica e incantevole dei discorsi finali, quasi soliloqui di
Cristo traboccanti da un cuore che si apre alle estreme confidenze,
tutto si concentra nell’azione sacramentale, testé ricordata: corpo
e sangue! Sì, amore e morte vi sono raffigurati; una sola parola li
esprime: sacrificio. La morte vi è significata, la morte cruenta,
la morte che avrebbe separato dal corpo di Cristo il suo sangue; una
immolazione, una vittima. E vittima volontaria, vittima cosciente,
vittima per amore. Data per noi. Da ricordare come annunciatrice
della morte di Gesù, del suo sacrificio per sempre, finché Egli
non tornerà alla fine del mondo (1 Cor. 11, 26). Cristo ha
sigillato in un rito, rinnovabile dai suoi discepoli, fatti Apostoli
e Sacerdoti, l’offerta di Se stesso, vittima al Padre, per la
nostra salvezza, per nostro amore. È la Messa. È l’esempio, è
la fonte dell’amore che si dà fino alla morte.
È il Giovedì Santo, che stiamo ricordando e celebrando. È il
cuore e il paradigma della vita cristiana. È il mandato, è il
memoriale, è la passione, è la carità di Cristo, che si trasfonde
nella sua Chiesa; in noi, affinché noi di Lui e per Lui, come
Lui possiamo vivere (Io. 6, 57), offrirci in sacrificio anche
noi per i fratelli, per la salute del mondo (Cfr. Io. 12, 24
ss.), e un giorno in Lui risorgere (Cfr. Io. 6,
54-58).
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