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Cappella Sistina - Sabato, 11 ottobre 1969
Fratelli!
Come ben sapete, il recente Concilio ha messo in migliore evidenza il
carattere comunitario della Chiesa, quale aspetto costitutivo
fondamentale di essa. Questo, considerato da solo, non dice tutto
della Chiesa, che in una più adeguata osservazione appare come corpo
mistico di Cristo, compaginato in unità e in distinzione di organi e
di funzioni; ma tuttavia la comunione, nel suo duplice riferimento di
comunione in Cristo con Dio e di comunione in Cristo con i credenti
in lui e virtualmente con tutta l’umanità, ha interessato in modo
particolare la meditazione del Concilio, specialmente quando ha messo
in rilievo la comunione che intercede nell’Episcopato; e ricordando
che l’Episcopato legittimamente succede agli Apostoli, e che questi
costituivano un ceto particolare, scelto e voluto da Cristo, è parso
felice proposito riprendere il concetto e il termine di collegialità,
riferendoli all’ordine episcopale. «Come San Pietro e gli altri
apostoli, dice il Concilio, per volontà del Signore, unum
Collegium apostolicum constituunt, pari ratione Romanus Pontifex,
successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se
coniunguntur» (Lumen Gentium, n. 22).
Così che noi per primi abbiamo desunto un grato dovere da questa
rievocazione del disegno divino circa l’ufficio apostolico, che al
Popolo di Dio annuncia il messaggio della fede e conferisce i misteri
della grazia, e lo guida nel suo cammino sulla terra e nel tempo, il
dovere, diciamo, di conferire più ampia e più operante efficienza al
carattere collegiale dell’Episcopato, essendo in ciò guidati dalla
concezione basilare della fraternità, che unisce in comunione tutti i
seguaci di Cristo, e che nei Vescovi si arricchisce di maggiore
pienezza, quali eredi di quei titoli, che Cristo stesso attribuì ai
discepoli eletti, da lui chiamati Apostoli (Luc. 6, 13),
confidenti del mistero del regno di Dio (Marc. 4, 11), suoi
amici (Io. 15, 14-15), suoi testimoni (Act. 1, 8),
e destinati alla grande missione d’annunciare e d’attuare il Vangelo
(Mt 28, 19), in spirito d’umiltà (Io. 13, 14) e di
servizio (Luc. 22, 26), «in opus ministerii, in
aedificationem corporis Christi» (Eph. 4, 12).
Noi crediamo d’aver già dato prova di questa nostra volontà di dare
pratico incremento alla collegialità episcopale, sia istituendo il
Sinodo dei Vescovi, sia riconoscendo le Conferenze Episcopali, sia
associando alcuni Fratelli nell’Episcopato e Pastori residenti nelle
loro Diocesi al ministero proprio della nostra Curia Romana; e, se
la grazia del Signore ci assiste e la fraterna concordia faciliterà i
nostri mutui rapporti, l’esercizio della collegialità in altre forme
canoniche potrà avere più ampio sviluppo. Le discussioni ‘del
Sinodo straordinario, definendo la natura e i poteri delle Conferenze
Episcopali, e i loro rapporti, sia con questa f Sede apostolica,
sia fra loro stesse, potranno illustrare l’esistenza e l’incremento
della Collegialità episcopale in termini canonici opportuni, e nella
conferma della dottrina dei Concili Vaticano I e Vaticano II circa
la potestà del successore di S. Pietro e di quella del Collegio dei
Vescovi con il Papa suo Capo.
VINCOLO SPECIALE
Ma prima d’iniziare i lavori del prossimo Sinodo, sostiamo un
momento, Fratelli, nella celebrazione del mistero eucaristico, punto
culminante dell’unità del corpo mistico, per ricordare a noi stessi
non tanto l’aspetto giuridico della collegialità, né le espressioni
in cui essa si è storicamente manifestata, e nemmeno - ciò che più
conta, ma che noi supponiamo presente alle nostre anime, il pensiero
di Cristo, che la concepì e la istituì -, ma il valore morale e
spirituale, che la collegialità deve assumere in ciascuno di noi, e
di noi tutti insieme.
Ecco, riflettiamo: esiste fra noi, eletti alla successione degli
Apostoli, un vincolo speciale, il vincolo della collegialità. Che
cosa è la collegialità se non una comunione, una solidarietà, una,
fraternità, una carità più piena è più obbligante di quanto non
sia il rapporto di amore cristiano fra i fedeli o fra i seguaci di
Cristo associati in altri diversi ceti? La collegialità è carità.
Se l’appartenenza al mistico corpo di Cristo fa dire a San Paolo:
«si quid patitur unum membrum, compatiuntur omnia membra: sive
gloriatur unum membrum, congaudent omnia membra» (1 Cor. 12,
26), quale dev’essere la vibrazione spirituale della comune
sensibilità per l’interesse generale ed anche particolare della
Chiesa in coloro che nella Chiesa hanno maggiori doveri? La
collegialità è corresponsabilità. E quale più chiara
manifestazione del carattere di suoi discepoli autentici volle il
Signore che avesse il gruppo degli Apostoli assisi alla cena
dell’ultimo addio se non quello d’una mutua dilezione : «in hoc
cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad
invicem» (Io. 13, 35). La collegialità d una palese
dilezione che i Vescovi devono alimentare fra loro. E siccome la
collegialità inserisce ciascuno di noi nel circolo della struttura
apostolica destinata alla edificazione della Chiesa nel mondo, essa ci
obbliga ad una carità universale. La carità collegiale non ha
confini. A chi, finalmente, se non agli Apostoli fedeli, il
Signore ha rivolto le sue estreme raccomandazioni, sublimate
nell’orazione estatica che conclude i discorsi finali dell’ultima
cena: «ut unum sint» (Io. 17, .23)? La collegialità è
unità.
Così che, noi pensiamo, trattando dei rapporti dei Vescovi
raggruppati in queste nuove associazioni territoriali, alle quali è
dato il nome di Conferenze Episcopali, come pure delle relazioni
delle Conferenze stesse con la Sede apostolica e fra di loro, una
considerazione deve sulle altre primeggiare nei nostri animi, quella
della carità, che nella unità della fede deve informare la comunione
gerarchica della Chiesa.
FRATERNA COMUNIONE
Siano pertanto su questi due principi, la carità e l’unità,
orientate le linee direttive del progresso Post-conciliare della
comunione ecclesiale a quel superiore livello ch’è segnato dalla
collegialità episcopale. Due sembrano a noi queste linee: una
intende tributare onore e fiducia all’ordine episcopale; e sarà
nostro studio riconoscere in più equa misura ai nostri Fratelli
nell’Episcopato quella pienezza di prerogative e di facoltà che loro
deriva dal carattere sacramentale della loro elezione alle funzioni
pastorali nella Chiesa e dalla loro effettiva comunione con questa
Sede apostolica; né questa linea sarà frenata o interrotta, se
l’applicazione del criterio di sussidiarietà, a cui essa è rivolta,
sarà moderata con umile e saggia prudenza in modo che il bene comune
della Chiesa non sia compromesso da molteplici e soverchie autonomie
particolari, nocive all’unità e alla carità, che devono fare della
Chiesa «un Cuor solo ed un’anima sola» (Act. 4, 32) e
fautrici di emulazioni ambiziose e di chiusi egoismi; come nemmeno
sarà smentita se l’altro criterio del pluralismo dovrà essere
precisato in modo ch’esso non tocchi la fede, che non può
ammetterlo, né la disciplina generale della Chiesa, che non consente
l’arbitrio e la confusione a danno della armonia fondamentale del
pensiero e del costume nella compagine del Popolo di Dio, e della
stessa impegnativa collegialità.
CORRESPONSABILITÀ
L’altra linea, generata anch’essa dall’alta stima, che dobbiamo
alla riconosciuta collegialità episcopale, che sarà parimente da noi
lealmente perseguita, conduce l’Episcopato ad una sua più organica
partecipazione e ad una sua più solidale corresponsabilità nel governo
della Chiesa universale. Noi confidiamo che ciò avvenga, come con
gaudio e fiducia sentiamo da molti ripetere, a comune vantaggio, a
sollievo e sostegno della nostra accresciuta e gravosa fatica
apostolica, e più chiara testimonianza dell’unica fede e della
sincera carità, che devono essere al vertice gerarchico della Chiesa
più che altrove ed oggi più che mai testimoniate in nuovo splendore e
in maggiore vigore. E già, come dicevamo, noi siamo incamminati per
questa via, e per essa, con l’aiuto di Dio e col vostro favore,
venerati Fratelli, proseguiremo. Ma sia chiaro anche a questo
proposito che il governo della Chiesa non deve assumere gli aspetti e
le norme dei regimi temporali, oggi guidati da istituzioni
democratiche, talvolta eccessive, ovvero da forme totalitarie
contrarie alla dignità dell’uomo che vi è soggetto: il governo della
Chiesa ha una sua forma originale che mira a riflettere nelle sue
espressioni la sapienza e la volontà del suo divino Fondatore. Ed è
a questo riguardo che noi dobbiamo ricordare la somma nostra
responsabilità, che Cristo ci ha voluto affidare consegnando a
Pietro le chiavi del regno e facendo di lui la base dell’edificio
ecclesiastico, a lui commettendo un delicatissimo carisma, quello di
confermare i Fratelli (Lc. 22, 32), da lui ricevendo la più
alta e più ferma professione della fede (Mt. 16, 17; 10.
6, 68), e a lui domandando una singolarissima e triplice
confessione d’amore da tradursi in primaria virtù di carità pastorale
(Io. 21, 15 ss.). Responsabilità, che la Tradizione e i
Concili imputano al nostro specifico ministero di Vicario di Cristo,
di Capo del Collegio apostolico, di Pastore universale e di Servo
dei servi di Dio, e che non potrà essere condizionata dall’autorità
pur somma del Collegio Episcopale, la quale noi per primi vogliamo
onorare, difendere e promuovere, ma che tale non sarebbe se ad essa
mancasse il nostro suffragio.
Carità e unità. Ecco la nostra meditazione all’apertura del
Sinodo straordinario sul quale con questa concelebrazione del
sacrificio eucaristico imploriamo il lume e l’assistenza dello Spirito
Santo.
Non è forse questo il momento, dedicato alla riflessione e
all’affermazione della collegialità, nel giorno della Divina
Maternità di Maria Santissima, di raccoglierci con animo
intimamente commosso nel ricordo degli Apostoli nel Cenacolo, i
quali, in attesa del Paraclito, erano «assidui e concordi nella
preghiera insieme . . . con Maria, Madre di Gesù» (Act. 1,
14)? E, in tale unione di spiriti, non è ancor questo il momento
di far nostre le acclamazioni della Liturgia del Giovedì Santo?
«Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Congregavit nos in unum
Christi amor. Exsultemus et in Ipso iucundemur. Timeamus et amemus
Deum vivum. Et ex corde diligamus nos sincero».
Amen. Amen.
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