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OMELIA DI PAOLO VI
Domenica, 28 maggio 1978
Venerati Fratelli e Figli carissimi,
Con paterna effusione di sentimento noi vogliamo innanzitutto rivolgere
il nostro saluto a tutti voi, che, spinti dalla fede e dall’amore,
siete convenuti in questa Basilica per celebrare con noi la festa del
Corpo e del Sangue di Cristo, per tributare cioè a Gesù
eucaristico un atto di culto pubblico e solenne, in Lui riconoscendo
il Pastore buono che ci guida sulle strade dell’esistenza, il
Maestro sapiente che dispensa luce ai nostri cuori ottenebrati, il
Redentore, che con tanta prodigalità di amore e di grazia viene a noi
incontro e si fa ineffabilmente il Pane di vita per questo nostro
cammino nel tempo verso l’eterno possesso di Dio. Noi vorremmo
raggiungere ciascuno di voi con una parola personale ed affettuosa,
come si conviene tra persone che sono animate dalla medesima gioia,
perché chiamate ad assidersi alla medesima mensa festiva. Non lo
possiamo, purtroppo, e dobbiamo perciò affidarci alla vostra
intuizione sollecita e cordiale, che saprà raccogliere nelle parole
rivolte a tutti l’intenzione nostra sincera di accostarci, con
tenerezza rispettosa e partecipe, alla situazione particolare di ognuno
per invitarvi ad essere attenti, coscienti, esultanti della realtà
del mistero eucaristico.
Figli carissimi, la solennità che oggi celebriamo è stata voluta
dalla Chiesa, voi ben lo sapete, perché i suoi figli potessero
tributare al sacramento dell’Eucaristia, che abitualmente resta
nascosto nel silenzio raccolto dei tabernacoli, quella pubblica
testimonianza di gioiosa riconoscenza di cui ogni cuore conscio della
realtà di questa misteriosa presenza di Cristo non può non sentire
l’impellente bisogno. Per questo oggi la fede dei cristiani
prorompe, con sobria giocondità, nell’esultanza di preghiere corali
e di canti festosi, che si riversa anche all’esterno dei templi
portando ovunque una nota di letizia e un annuncio di speranza.
E come potrebbe essere diversamente, se sotto i bianchi veli
dell’Ostia consacrata, sappiamo di avere con noi il Signore della
vita e della morte, «Colui che è, che era e che viene»? (Apoc.
1 , 4) Noi celebriamo una festa della gioia perché, malgrado
tutto, Egli è con noi tutti i giorni sino alla fine (Cfr. Matth.
28, 28), una festa del passato, che è presente nella memoria
della cena e della morte del Signore, al di là di ogni distanza
temporale, una festa del futuro, perché già adesso sotto i veli del
sacramento è presente Colui che porta con sé ogni futuro, il Dio
dell’eterno amore (Cfr. K. RAHNER, La Fede che ama la
terra, 1968, p. 114).
Quale messe di considerazioni suggestive e corroboranti si offre allo
sguardo pensoso dell’anima in preghiera! È una meditazione che
preferiremmo condurre nel silenzio di una contemplazione adorante,
piuttosto che consegnare alle parole. Noi vogliamo proporvi, più
suggerendo che sviluppando, qualche rapido spunto di riflessione.
Innanzitutto circa il valore di «memoria» del rito che stiamo
celebrando. Voi sapete il perché delle due specie eucaristiche.
Gesù volle restare sotto le apparenze del pane e del vino, figure
rispettivamente del suo Corpo e del suo Sangue, per attualizzare nel
segno sacramentale la realtà del suo sacrificio, di quella immolazione
sulla croce, cioè, che ha portato al mondo la salvezza. Chi non
ricorda le parole dell’apostolo Paolo: «Ogni volta che mangiate di
questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del
Signore finché Egli venga» ? (1 Cor. 11, 26) Nella
Eucaristia, dunque, Gesù è presente come «l’uomo dei dolori»
(Cfr. Is. 5 3 , 3), come 1’«agnello di Dio», che si
offre vittima per i peccati del mondo (Cfr. Io. 1 , 29).
Comprendere questo significa vedersi spalancare dinnanzi prospettive
immense: in questo mondo non c’è redenzione senza sacrificio (Cfr.
Hebr. 9, 22) e non c’è esistenza redenta che non sia al tempo
stesso un’esistenza di vittima. Nell’Eucaristia è offerta ai
cristiani di tutti i tempi la possibilità di dare al quotidiano
calvario di sofferenze, incomprensioni, malattie, morte, la
dimensione di un’oblazione redentrice, che associa il dolore dei
singoli alla passione di Cristo, avviando l’esistenza di ognuno a
quella immolazione nella fede, che nell’ultimo compimento si apre sul
mattino pasquale della risurrezione.
Come vorremmo poter ripetere ad ognuno personalmente, e soprattutto a
chi è attualmente oppresso dalla tristezza, dalla malattia, questa
parola di fede e di speranza! Il dolore non è inutile! Se unito a
quello di Cristo, il dolore umano acquista qualcosa del valore
redentivo della stessa passione del Figlio di Dio.
L’Eucaristia - è questa la seconda riflessione che vorremmo
sottoporvi - è evento di comunione. Il Corpo e il Sangue del
Signore sono offerti come nutrimento che ci redime da ogni schiavitù e
ci introduce nella comunione trinitaria, facendoci partecipare alla
vita stessa di Cristo e alla sua comunione con il Padre. Non a caso
la grande preghiera sacerdotale di Gesù è intimamente connessa col
mistero eucaristico e la sua appassionata invocazione «ut unum sint»
(Io. 17) è situata proprio nell’atmosfera e nella realtà di
questo mistero.
L’Eucaristia postula la comunione. Lo aveva ben capito l’Apostolo
a cui è dedicata questa Basilica, il quale, scrivendo ai cristiani
di Corinto, domandava loro: «il calice della benedizione che noi
benediciamo, non è forse comunione con il Sangue di Cristo? E il
pane che noi spezziamo non è forse comunione con il Corpo di
Cristo?». Intuizione fondamentale, dalla quale l’Apostolo, con
logica stringente, traeva la ben nota conclusione: «Poiché c’è un
solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti
infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor. 10,
16-17).
L’Eucaristia è comunione con Lui, Cristo, e perciò stesso si
trasforma e si manifesta in comunione nostra con i fratelli: essa è
invito a realizzare fra noi la concordia e l’unione, a promuovere ciò
che insieme ci affratella, a costruire la Chiesa, che è quel mistico
Corpo di Cristo, del quale il sacramento eucaristico è segno, causa
e alimento. Nella Chiesa primitiva l’incontro eucaristico diventava
la sorgente di quella comunione di carità, che costituiva uno
spettacolo di fronte al mondo pagano. Anche per noi cristiani del
ventesimo secolo, dalla nostra partecipazione alla mensa divina, deve
scaturire l’amore vero, quello che si vede, che dilaga, che fa
storia.
IN MEZZO AGLI UOMINI
C’è un terzo aspetto poi di questo mistero: 1’Eucaristia è
anticipazione e pegno della gloria futura. Celebrando questo mistero
la Chiesa pellegrina si avvicina, giorno dopo giorno, alla Patria
e, camminando sulla via della passione e della morte, si approssima
alla risurrezione e alla vita eterna. Il pane eucaristico è il
viatico che la sorregge sulla strada, piena d’ombre, di questa
esistenza terrena e che la introduce, in qualche modo già fin d’ora,
alla esperienza dell’esistenza gloriosa del cielo. Ripetendo il gesto
divino della Cena, noi costruiamo nel tempo fuggevole la città
celeste, che permane. Spetta dunque a noi cristiani di essere, in
mezzo agli altri uomini, testimoni di questa realtà, annunciatori di
questa speranza. Il Signore, presente nella verità del sacramento,
non ripete forse ai nostri cuori in ogni Messa: «Non temere! Io
sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente»? (Apoc. 1,
17-18) Ciò di cui il mondo odierno ha forse più bisogno è che
i cristiani levino alta, con umile coraggio, la voce profetica della
loro speranza. Sarà precisamente da una vita eucaristica intensa e
consapevole, che la loro testimonianza deriverà la calda trasparenza e
la capacità di convinzione, che sono necessarie per far breccia nei
cuori umani.
Fratelli e figli carissimi, stringiamoci dunque intorno all’Altare!
Qui è presente Colui che, dopo aver condiviso la nostra condizione
umana, regna ora glorioso nella gioia senza ombre del cielo. Lui,
che un tempo domò le onde minacciose del lago di Tiberiade, quindi la
navicella della Chiesa, sulla quale tutti noi siamo, attraverso le
tempeste del mondo, fino alle sponde serene dell’eternità. Noi a
Lui ci affidiamo, confortati dalla certezza che la nostra speranza non
sarà delusa.
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