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Domenica, 29 giugno 1969
Fratelli e Figli, tutti in Cristo carissimi!
Noi faremo di questa nostra celebrazione della festa di San Pietro
una preghiera, una preghiera principalmente per questa sua e nostra
Chiesa romana, e poi per tutta la Chiesa cattolica, e per i
Fratelli cristiani, con cui desideriamo avere un giorno perfetta
comunione, e per l’intera umanità, alla quale Il Vangelo,
mediante la predicazione apostolica, è destinato (cfr. Marc.
16, 15).
Potremmo, anzi dovremmo fare dapprima una meditazione, di capitale
importanza nel disegno della nostra fede: dovremmo ricordare ciò che
il Vangelo e altri libri del nuovo Testamento ci narrano di lui,
Simone, figlio di Jona e fratello di Andrea, il pescatore di
Galilea, discepolo di Giovanni il Precursore, chiamato da Gesù
con un nuovo nome, Cefa, che significa Pietro (Io. 1, 42;
Matth. 16, 18); e ricordare la missione, simboleggiata dalle
figure di pescatore (Luc. 5, 10) e di pastore (Io. 21,
15, ss.), affidata a lui da Cristo, che, con gli altri undici e
primo di essi, fece del discepolo l’apostolo (Luc. 6, 13); e
ricordare poi la funzione, che questo uomo, umile (Luc. 5, 8),
docile e modesto (cf. Io. 13, 9; 1 Petr. 5, 1), debole
anche (Matth. 14, 30), ed incostante e pauroso perfino
(Matth. 26, 40-45, 69 ss.; Gal. 2, 11), ma pieno
d’entusiasmo e di fervore (Matth. 26, 33; Marc. 14,
47), di fede (Io. 6, 68; Matth. 16, 17), e di amore
(Luc. 22, 62; Io. 21, 15 ss.), subito esercitò nella
nascente comunità cristiana (cfr. Act. 1 - 12, 17), di
centro, di maestro, di capo. Così dovremmo riandare la storia del
suo ministero (cfr. Vangelo di S. Marco e Lettere di S.
Pietro) e del suo martirio, e poi della successione nel suo
pontificato gerarchico, e finalmente lo sviluppo storico della sua
missione nella Chiesa, e la riflessione teologica, che ne risultò,
fino ai due ultimi Concili ecumenici, Vaticano I e Vaticano II.
Avremmo di che pensare e riflettere non più sul passato, ma sul
presente, sulle condizioni odierne della Chiesa e del cristianesimo,
e sull’istanza religiosa, ecclesiale ed ecumenica, con cui questo
Pietro, messo da Cristo a fondamento del suo edificio della
salvezza, della sua Chiesa, quasi tormentandoci e guidandoci ed
esaltandoci, ancor oggi batte alla nostra porta (cfr. Act. 12,
13).
Ma preferiamo supporre tutti questi ricordi e questi pensieri già
presenti e fermentanti nelle nostre anime; essi ci hanno qua condotti,
qua ci riempiono i cuori d’altri sentimenti, propri di noi tutti che
qui siamo per onorare l’Apostolo, che fra tutti ci assicura della
nostra comunione con Cristo, e che, per quelle Chiavi benedette, le
Chiavi, nientemeno, che del Regno dei Cieli, a lui poste in mano
dal Signore, ci ispira tanto semplice, filiale e devota confidenza.
Più che pensare, in questo momento, desideriamo pregare.
Desideriamo parlargli. Ci conforta ad assumere questo atteggiamento
di umile e fiduciosa pietà la tradizione dei secoli, che fin dai primi
albori del cristianesimo, e poi ai tempi successivi, registrò
commoventi segni della devozione alla tomba dell’Apostolo, con
iscrizioni sepolcrali, con graffiti di visitatori, con offerte di
pellegrini e con riferimenti alle condizioni civili e politiche (cfr.
ad es. HALLER, Die Quellen . . . n. 10, p. 95
ss.). La spiritualità locale romana è tutta imbevuta d’un culto
di predilezione ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, al primo
specialmente; la nostra non dovrebbe esserlo da meno. Per di più,
proprio in questi ultimi anni, gli scavi e gli studi archeologici,
compiuti sotto l’altare della Confessione in questa stessa Basilica,
hanno portato le ricerche a rintracciare non solo la tomba
dell’Apostolo Pietro (cfr. PIO XII, Discorsi, XII, p.
380), ma, secondo gli ultimi studi, le reliquie altresì (cfr.
GUARDUCCI, La tomba di Pietro, 1959; Le Reliquie di
Pietro, 1965). Questo luogo, questa basilica trovano in questi
fatti la loro superlativa storicità e la ragione della loro eccezionale
e monumentale sacralità: dovrebbe la nostra presenza trovarvi la fonte
e lo stimolo ad una viva e speciale riverenza, ad una singolare
commozione religiosa. Pietro è qui! (Pétros ëni), come si
ritiene che ci assicuri il famoso graffito sull’intonaco del così
detto «muro rosso».
IL PRIMATO DELLA FEDELTÀ
Se Pietro è qui, anche con i resti del suo sepolcro e delle reliquie
del suo corpo benedetto, oltre che con il centro della sua evangelica
potestà e della sua apostolica successione, lasciamo, Figli
carissimi, che l’istintivo desiderio di parlargli, di pregarlo,
sgorghi in semplice ed umile invocazione dai nostri cuori. Pietro è
qui. È la sua festa, la memoria del suo martirio, che, in segno di
supremo amore e di suprema testimonianza, Cristo stesso gli aveva
preannunciato (Io. 21, 18). È qui: che cosa gli chiederemo?
Noi cattolici, noi romani specialmente, gli chiederemo ciò ch’è
proprio del suo particolare carisma apostolico, la fermezza, la
solidità, la perennità, la capacità di resistere all’usura del
tempo e alla pressione degli avvenimenti, la forza di essere nella
diversità delle situazioni sempre sostanzialmente eguali a noi stessi,
di vivere e di sopravvivere, sicuri d’un Vangelo iniziale, d’una
coerenza attuale, di una meta escatologica. La fede, voi direte.
Sì dobbiamo domandare a Pietro la fede, quella che da lui e dagli
Apostoli ci deriva, quella che lo scorso anno abbiamo, in questa
stessa ricorrenza, apertamente professata, quella di tutta la
Chiesa. Sì, la fede: che saremmo noi, cattolici di Roma, senza
la fede, la vera fede? Ma a noi è richiesto qualche cosa di più,
se vogliamo essere i più vicini e i più esemplari cultori di San
Pietro; è richiesta la fedeltà. La fede è di tutto il Popolo di
Dio; ed anche la fedeltà; ma tocca principalmente a noi dare prova
di fedeltà. «Siate forti nella fede», ci ammonisce San Pietro
stesso, nella sua prima lettera apostolica: «Resistite fortes in
fide» (5, 9). Cioè non potremmo dirci discepoli e seguaci e
eredi e successori di San Pietro, se la nostra adesione al messaggio
salvifico della rivelazione cristiana non avesse quella fermezza
interiore, quella coerenza esteriore, che ne fa un vero e pratico
principio di vita. Roma deve avere anche questo primato: quello,
ripetiamo, della fedeltà, che traduce la fede nella sua vita, nella
sua arte, un’arte di santità, di dare alla fede un’espressione
costante e coerente, uno stile d’autenticità cristiana. E questa
fedeltà, mentre nel cuore la promettiamo, oggi nella nostra orazione
a S. Pietro la domandiamo, a lui, che come uomo ne sperimentò la
difficoltà e la contraddizione, ma, come capo degli Apostoli, e di
quanti gli sarebbero stati associati nella fede, ebbe da Cristo
l’incomparabile favore della preghiera da Lui stesso assicurata
proprio per la resistenza nella fede: «Ut non defìciat fides tua»;
e insieme ebbe l’infallibile mandato di confermare, dopo l’ora della
debolezza, i suoi fratelli: «Confirma fratres tuos» (cfr. Luc.
22, 31-32).
MISSIONE PASTORALE
E noi vorremmo che questa fedeltà fosse da noi considerata non
soltanto nella sua immobile adesione alla verità, da noi ricevuta da
Cristo ed evoluta e fissata nel magistero della Chiesa, convalidato
da Pietro, ma nella sua intrinseca capacità diffusiva ed apostolica;
una fedeltà cioè non così statica ed immobile nel suo linguaggio
storico e sociale da precludere la comunicazione agli altri, e agli
altri l’accessibilità; ma una fedeltà che trovi nella genuinità del
contenuto sia la sua intima spinta evangelizzatrice (cfr. 1 Cor.
9, 16: «Guai a me, scrive San Paolo, se non predicassi il
Vangelo»), sia la sua autorità per essere dagli altri accettata
(cfr. Gal. 1, 8: «Anche se noi stessi - scrive ancora S.
Paolo - o un angelo del cielo venisse ad annunziarvi un altro vangelo
diverso da quello che vi abbiamo annunziato noi, sia egli anatema»),
e sia il carisma dello Spirito Santo che accompagna la voce del
Vangelo (cfr. Io. 15, 20).
E chiederemo a S. Pietro un’altra fedeltà, anche questa
superlativamente sua, quella dell’amore a Cristo, che si effonde in
concreto e generoso servizio pastorale (cfr. Io. 21, 15
ss.). Abbiamo noi a Roma, proprio per la missione di Pietro qui
stabilita e da qui irradiata, grandi doveri, maggiori doveri di quanti
ne abbia qualsiasi altra Chiesa.
SERVIRE PER AMORE
Bisogna servire per amore. Questa è la grande legge del servizio,
della funzionalità, dell’autorità della Chiesa. Ed è la legge,
che noi siamo felici di vedere praticata, con tanta generosità e
assiduità, nel cerchio romano, e diffuso nel mondo, dei
collaboratori che sorreggono ed eseguiscono il nostro ministero
apostolico.
Ma non sarà mai vano per noi, che vi parliamo, né per voi, che ci
ascoltate, rinnovare cento volte il proposito di adempiere in
perfezione questa legge di amore evangelico; e non sarà inutile
perciò che anche di questa fedeltà, di questo carisma supremo della
carità, noi facciamo oggi preghiera all’Apostolo, che sull’invito
e sul favore di Cristo, ebbe l’audacia di rispondere che sì, alla
domanda di Gesù se egli lo amava di più degli altri. Lo amava di
più! Aveva il primato dell’amore a Cristo, e perciò quello
pastorale verso il suo gregge.
O San Pietro! ottieni anche a noi di essere forti nella fede e di
amare di più. Fa’ che questa tua Roma, in codesti doni si affermi
ed anche a beneficio, ad esempio dei fratelli che sono nel mondo essa
si distingua.
O Santi Pietro e Paolo («ipse consors sanguinis et diei» S.
AG., Serm. 296; P.L. 38, 1354) «in mente
habete»! Ricordatevi di noi! Così sia!
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