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Giovedì, 9 aprile 1964
Saluto alle Autorità
Il Santo Padre vuole innanzitutto ringraziare l’Ecc.mo Signor
Ministro e le altre Personalità per la deferente e cordiale
accoglienza, e per avergli reso possibile l’odierna visita, aprendo
le porte di questo Istituto per un affabile contatto tra la sua persona
e il suo sacro ministero con quanti dimorano in questa casa.
Ancor più sensibile è la sua gratitudine, tenendo conto che la
presenza delle Autorità fa assurgere questo gradito incontro del Papa
con i detenuti alla sua piena espressione e al suo alto valore
significativo e simbolico: si tratta, cioè, dell’opera del
ministero sacerdotale di fronte a un mandato che la società deve
compiere in rapporto ad una funzione coercitiva verso coloro che ne sono
disgraziatamente l’oggetto. Avvicinare ora queste anime è atto di
graditissimo impegno e pregio, e quindi il Papa ringrazia il Ministro
ed i suoi collaboratori per aver spianato la strada e reso possibile
l’imminente colloquio spirituale.
Tutti sanno che la visita del Successore di Pietro non è polemica,
non è contraria alla funzione che qui si esplica e, come ha detto
testé il Ministro, è così necessaria, delicata e difficile.
Certo è un compito ingrato quello del cittadino che si erige a giudice
del suo concittadino, e deve talvolta usare anche la forza per
ricondurre l’ordine là dove è stato violato e in chi l’ha violato.
Si vorrebbe quasi, infatti, essere esonerati da così increscioso
dovere, specie oggi, quando i concetti di umanità, di libertà, di
rispetto della persona umana sono, per fortuna, tanto diffusi e
benefici. Questo compito di repressione non tocca al Papa: però è
riconosciuto anche dal suo Ministero sacerdotale, poiché esso serve e
attua la giustizia. S. Paolo dichiara, parlando della superiore
potestà promanante da Dio, che «non enim sine causa gladium
portat», non può quindi essere trascurato il dovere per la tutela
dell’ordine e il rispetto del cittadino. Questa realtà richiama alla
mente di tutti la esistenza e la presenza operante di un ordine divino,
di una premessa suprema di giustizia. Si tratta di una incombenza
provvidenziale; ed è giusto che il Sommo Pontefice la onori, e
quindi saluti tutte le Autorità che concorrono ad attuarla.
Dopo aver ricordato al Ministro qualche precedente incontro con lui,
avendo avuto modo di apprezzare gli alti suoi sentimenti civili ed
umani, il Santo Padre dà vivo riconoscimento a quanti fanno capo
alla autorità del Ministro stesso: alla Magistratura, all’Ordine
Forense, ai Cappellani delle carceri e ai loro Confratelli tutti
d’Italia e del mondo, che attendono con zelo a una mansione tanto
preziosa di carità, pietà, ammonimento e consolazione presso tante
anime. Il saluto paterno è pure diretto alle altre persone che
svolgono la loro opera nelle Case di pena, a cominciare dagli Agenti
di Custodia, ai quali è commesso un ufficio di pronta vigilanza e
severità, che però sempre deve essere congiunta a grande
comprensione, umanità e misura; infine a tutti gli altri che il
Santo Padre ricorderà anche, tra poco, durante il Divin
Sacrificio.
Intanto il Santo Padre vuole confortare così elevata funzione
proprio sulle direttive che sembrano marcate in segni evidenti
dall’arte di mantenere l’ordine, di proclamare la giustizia nella
società moderna. Quanto è bella! Essa cerca di scoprire l’uomo
nei suoi aspetti più complessi; forse alcune volte si attarda; forse
talora il nerbo dell’ordine s’indebolisce in questa riflessione: ma
è tanto bello questo indirizzo, che va considerando più profondamente
l’uomo non soltanto per assicurargli l’ordine esteriore e presidiarlo
con la forza e col castigo, ma per scoprire qualche possibilità,
qualche aspirazione nascosta che noi concittadini, noi fratelli, noi
cristiani dobbiamo incoraggiare e dobbiamo confortare.
La giustizia, il diritto, la giurisprudenza, tutte queste discipline
delle Case di pena, se avvolte ed animate da luce superiore, dànno
motivo non di indebolire ciò che deve essere giusto e fermo e severo
anche, ma di assurgere proprio all’idea, alla legge di Dio, Sommo
Bene, per cui si deve a qualunque costo evitare il male, e per cui è
resa agevole, facile anche l’applicazione della legge positiva. Ora
il pensiero del Sommo Pontefice si effonde nel desiderio che tale
legge sia sempre umana, buona, secondo un’alta parola che la Chiesa
ci offre nella Sacra Scrittura: «de forti dulcedo», dalla fortezza
può nascere la bontà.
L’augurio paterno è quindi che quanti lo ascoltano sappiano applicare
questo binomio nella loro missione di amministratori della giustizia,
di giudici, di studiosi del diritto e di applicatori della forza
perché la giustizia trionfi nella nostra società. Dalla bontà la
forza e dalla forza la bontà! L’Augusto Pontefice conclude
assicurando che Egli conserverà il più caro ricordo per l’incontro,
ed annunciando la Benedizione Apostolica per i presenti e le loro
famiglie.
Affettuoso incontro con i detenuti
Signori, io rinnovo anche da questa sede il mio rispettoso saluto ed
il ringraziamento per avermi reso possibile la visita a questa casa. E
ora, è a voi, figliuoli carissimi, che io voglio parlare un
momento, per salutarvi con paterno affetto.
Vorrei che ciascuno di voi si sentisse destinatario di questo mio
saluto. Esso non vuol costituire un gesto convenzionale e senza
significato. Vuol essere, invece, davvero un incontro, un istante
di colloquio e di intimità con ciascuno di voi.
«VI SALUTO E VI RINGRAZIO»
Se mi fosse dato di parlare ad uno ad uno, che cosa direi? Direi
appunto, a ciascuno di voi, che sono venuto a salutarvi e a
manifestarvi la mia simpatia, il mio affetto; a portarvi la mia
benedizione. Inoltre vi ringrazio; poiché le vostre persone mi
dicono già la vostra cortesia, e mi parlano di un’accoglienza di cui
sono molto riconoscente. Questa vostra presenza, in una congiuntura
religiosa inerente al mio Ministero, mi è carissima; e perciò vi
sono molto obbligato anche per le parole che uno di voi mi ha poc’anzi
indirizzate a nome vostro: parole belle, alte, nobili e anche tanto
affettuose. Siate sicuri che io le ricorderò, poiché le accolgo
realmente quale espressione sincera dei vostri animi. Non resteranno
vane e come lanciate al vento; sono arrivate al mio cuore, e io le
custodirò come parole di figli, mentre vi ringrazio anche per averle
documentate con i vostri doni, indicibilmente preziosi. Sono i
preferiti soprattutto per il loro significato. Fatti dalle vostre mani
e presentati da voi, racchiudono un valore singolarissimo.
Voi sentite - prosegue con voce commossa il Santo Padre, e un primo
applauso si leva dai circostanti - voi sentite che io faccio fatica a
parlare perché mi pare che in questo momento le parole servano poco.
Non vorrei nascondere con delle frasi la mia grande pena. Sapete
quale è? Che non posso far niente per voi. Voi desiderate la
libertà: non tocca a me, non posso io certo concedervela. Voi
desiderate l’onore, reintegrare la vostra persona, il vostro nome,
la vostra famiglia. Che posso fare io? Cercate il benessere, e
molte cose vantaggiose, utili. So che ciascuna delle vostre anime è
ricolma di attese e sottoposta ad assillo cocente. Questa è la pena
più acuta, il non poter avere ciò a cui si anela. Ed ecco quanto
maggiormente mi affligge, poiché non spetta a me il portarvi questi
benefici, ardentemente auspicati.
NEL NOME DEL SIGNORE
Né dovete credere che io sia venuto comunque, quasi per abitudine.
Vi fece visita alla fine del 1958 - ma voi non c’eravate allora
- il mio veneratissimo Predecessore, il Papa Giovanni. È stato il
primo dei Papi in questo secolo, vero? Non vorrei che questo mio
ritorno desse come l’impressione di avvenimento abituale: perderebbe
tanto del suo contenuto, mentre nulla vuol togliere alla bellezza
incomparabile di quel primo gesto.
Sapete perché sono venuto? Perché sono mandato. Inviato da chi?
Bisogna risalire molto indietro, e troveremo che se Gesù Cristo non
avesse detto un giorno a quelli che per primi l’ascoltavano: andate,
cercate i poveri, visitate i miseri, per aiutarli e consolarli,
andate ai peccatori, portatevi ovunque c’è un dolore da mitigare, io
non sarei qui. Non avrei nessun titolo e forse, nella mia pochezza,
non sentirei nemmeno il desiderio. E invece! Sono felice di essere
qui, mandato da Nostro Signore Gesù Cristo. Questo comando
divino, questa spinta che parte dal Vangelo, questa attualità della
nostra fede rendono non solo facile e bello, ma doveroso e pieno di
gaudio l’incontro con voi.
Voglio anzi spiegarvi perché il Signore che mi guida, mi dà degli
occhi, che arrivano sin nell’intimo delle anime, e vedono più
profondo di quanto non riescano a fare tutti gli occhi sapienti e
analitici della dottrina umana. Mi lascia, direi, vedere in
trasparenza i cuori, le esistenze, le vicende. Vedo forse ciò che
voi stessi tante volte non riuscite più a distinguere nel vostro
intimo. Vedo che siete più retti di quanto apparite, e che ciascuno
di voi conserva dentro di sé - sia che gema nel pianto, si risollevi
nel pentimento e sospiri silenzioso senza sapersi esprimere, oppure sia
soffocato da un senso di collera e di rancore, - un cuore, un cuore
umano. Basta questo ad annunciare un tesoro: la sorgente, la
capacità di un bene immenso, il ravvicinamento a Dio, la somiglianza
con Lui, la speranza in Lui. Prendo in mano - Sua Santità
accenna ad efficace similitudine - la candela accesa sull’altare,
collocata accanto al, Messale. Se fosse spenta, che cosa sarebbe?
Sarebbe un cero, ma senza luce. Qui può scorgersi adeguata analogia
del nostro essere. Talvolta siamo dei ceri spenti, con possibilità
non attuate, non ardenti. Ebbene io sono venuto per accendere in
ciascuno di voi una fiamma, se fosse spenta; per dire a ciascuno che
voi, ripeto, avete ancora delle possibilità di bene, grandi,
nuove, forse rese anche maggiori e più consistenti dalla vostra stessa
sventura, Ad ogni modo, sappiate che io sono venuto perché vi voglio
bene, che ho per voi illimitata simpatia. Se mai vi cogliesse la
tristezza di pensare: nessuno mi vuol bene, tutti mi guardano con
occhi che umiliano e mortificano, la società intera che qui m’ha
relegato mi condanna; forse perfino le persone care mi guardano con
insistente rimprovero: che cosa hai fatto?, ebbene ricordate che io,
venendo qui, vi guardo con profonda comprensione e grande stima.
IN OGNI ANIMA L’IMMAGINE DI CRISTO
Vi voglio bene, non per sentimento romantico, non per moto di
compassione umanitaria; ma vi amo davvero perché scopro tuttora in voi
l’immagine di Dio, la somiglianza di Cristo, l’uomo ideale che voi
ancora siete e potete essere. Scopro dentro di voi questi meriti, che
voi forse non sapete nemmeno bene riconoscere. Osservo dentro di voi
- faccio fatica; ma ci riesco, sapete! - l’immagine che vado
cercando, che è tutto il segreto del mio ministero, della mia
autorità, della mia missione e che spero un giorno in paradiso di
poter contemplare con questi stessi occhi, ora aperti sopra di voi.
Vado cercando in voi l’immagine di Cristo. E adesso vi dico una
cosa, che forse già sapete; ma a riudirla da me non vi può far
dispiacere. È un paradosso. Che cosa vuol dire paradosso? Una
verità che non sembra vera. Or dunque il Signore Gesù, il Divino
Maestro ci ha insegnato che proprio la vostra sventura, la vostra
ferita, questa vostra umanità lacerata e manchevole costituisce il
titolo perché io venga tra voi, ad amarvi, ad assistervi, a
consolarvi e a dirvi che voi siete l’immagine di Cristo, che voi
riproducete davanti a me questo Crocifisso, al quale adesso
rivolgeremo la nostra preghiera e offriremo il nostro rito sacrificale.
Voi mi rappresentate il Signore. Per questo io sono venuto; e,
direi, per cadere in ginocchio dinanzi a voi e per dire a ciascuno che
siete degni di essere assistiti, amati e salvati; per ricordarvi -
non stiamo celebrando la Pasqua? - la legge di Dio. Essa, come il
cero acceso, diffonde la sua luce sulla coscienza. Per tale luce si
rilevano le debolezze, le miserie, i peccati, le sciagurate
deviazioni.
La legge di Dio ci dice che bisogna essere leali e buoni, che non si
deve mai violare la giustizia, pur se mancassero i carabinieri e i
codici penali. Tutti dobbiamo portare nel cuore questa giustizia,
anzi noi dobbiamo crearla con le nostre azioni e con la forza morale.
E perché quella medesima legge superi in noi ogni incertezza
nell’attuarla, ecco che si integra con un altro miracolo. Quel
Signore che ci dà i suoi Comandamenti e ne esige l’osservanza, è
l’amico che si accompagna a noi per rincorarci: coraggio, coraggio;
son qui a darti una mano, un aiuto; sono con te per renderti possibile
ciò che ti comando.
CON GESÙ È AGEVOLE OGNI DURO CAMMINO
La legge umana è scritta e ad ognuno viene intimato: osservatela!
La legge cristiana è pure scritta, precisa, chiara, salvatrice: e
il Divino Maestro proclama: osservatela, ma con me. È Lui a dare
la forza adeguata per poterla attuare. Viene, o carissimi, a
infondere vigore dal di dentro: questo è il miracolo: e lo conferma
l’esperienza di ogni cristiano, specie quando celebra la sua Pasqua.
È dunque Cristo che viene nel nostro essere per ripeterci: vieni;
vieni che operiamo insieme; sono il tuo Cireneo; ti sorreggo io,
cambio le cose davanti a te. Ciò che tu credevi disonore, può
essere la tua salute, ciò che consideravi la rottura della tua vita
può essere la ripresa, la stessa dimora in questo Istituto può
avviare la tua rinascita. Tutto sta, figliuoli miei, a convertire il
cuore. Se noi mutiamo i nostri pensieri e li allineiamo e li
compaginiamo con quelli di Cristo, la vita ci offre un altro
orizzonte.
Si compie, allora, un vero prodigio. Vi dicevo in principio di non
poter far niente per voi. Adesso invece guardate come io sono audace e
direi temerario. Io vi dichiaro che da questo vostro osservatorio
chiuso, voi potete guardare la vita con occhi nuovi e potrete un giorno
affermare: ho cominciato là a essere veramente uomo, a essere
veramente cristiano. Ho capito il valore della mia esistenza quando
ero come schiacciato da quella sofferenza. Sono stato crocifisso
anch’io, ho compreso donde veniva la sorgente della mia salvezza.
UNA INESTINGUIBILE LUCE: LA SPERANZA
Adunque - conclude Sua Santità - eccoci a riassumere tutto in una
sola frase: io vorrei immettere nel vostro cuore la capacità di buoni
intenti, di pensare, si, ma con serenità e anche con letizia.
C’è una parola molto densa e ricca nel linguaggio religioso e
cristiano; una parola anche ricorrente nel linguaggio profano, ma che
qui assurge davvero a bellezza e forza solare: è la speranza.
Abbiatela sempre nel cuore, figliuoli miei. Direi che un solo
peccato potete commettere qui: la disperazione. Togliete dalla vostra
anima questa catena, questa vera prigionia e lasciate che il vostro
cuore, invece, si dilati e ritrovi - anche nella presente costrizione
che vi toglie la libertà fisica, esteriore, - i motivi della
speranza. Io vi apro i cieli di questa speranza, che sono quelli
della vostra restituita dignità, della vostra risollevata umanità,
del vostro avvenire, non più chiuso ed oscuro, del vostro dirigervi
al destino superiore a cui il Salvatore vi chiama e vi incammina.
Imparate in questa dura scuola di «Regina Coeli» a sperare, a
sperare nel nome di Cristo.
E lasciate che, mentre guardo voi, carissimi, il mio occhio, la mia
anima arrivi a tutte le case di pena del mondo e lanci da qui,
dall’altare del Signore, un saluto paterno e questo medesimo invito
alla grande speranza cristiana per quanti, come voi, soffrono e sono
capaci di ascoltare l’eco di questa mia voce.
È la voce di Cristo, appunto, che invita ad essere buoni, a
ricominciare, a riprendere vita, a risorgere; che sollecita,
figliuoli miei, a sperare. E così sia.
* * *
Nel medesimo giorno il Santo Padre detta la seguente Preghiera da
recitarsi dai detenuti:
Signore!
Mi dicono che io devo pregare.
Ma come posso io pregare che sono tanto infelice? come posso io
parlare con Te nelle condizioni in cui mi trovo?
Sono triste, sono sdegnato, alcune volte sono disperato. Avrei
voglia di imprecare, piuttosto che di pregare. Soffro profondamente:
perché tutti sono contro di me e mi giudicano male; perché sono qui,
lontano dai miei, tolto dalle mie occupazioni, senza libertà e senza
onore. E senza pace: come posso io pregare, o Signore?
Ora guardo a Te, che fosti in croce. Anche tu, Signore, fosti
nel dolore; sì, e quale dolore!
Lo so: Tu eri buono, Tu eri saggio, Tu eri innocente; e Ti
hanno calunniato, Ti hanno disonorato, Ti hanno processato, Ti
hanno flagellato, Ti hanno crocifisso, Ti hanno ucciso.
Ma perché? dov’è la giustizia?
E Tu sei stato capace di perdonare a chi Ti ha trattato così
ingiustamente e così crudelmente? Sei stato capace di pregare per
loro? Anzi, mi dicono, che Tu ti sei lasciato ammazzare a quel modo
per salvare i Tuoi carnefici, per salvare noi uomini peccatori: anche
per salvare me?
Se è così, Signore, è segno che si può essere buoni nel cuore
anche quando pesa sulle spalle una condanna dei tribunali degli uomini.
Anch’io, Signore, in fondo al mio animo mi sento migliore di quanto
gli altri non credano: so anch’io che cosa è la giustizia, che cosa
è l’onestà, che cosa è l’onore, che cosa è la bontà.
Davanti a Te mi sorgono dentro questi pensieri: Tu li vedi? vedi
che sono disgustato delle mie miserie? vedi che avrei voglia di gridare
e di piangere? Tu mi comprendi, o Signore? è questa la mia preghiera?
Sì, questa è la mia preghiera: dal fondo della mia amarezza io
innalzo a Te la mia voce; non la respingere. Almeno Tu, che hai
patito come me, più di me, per me, almeno Tu, o Signore,
ascoltami. Ho tante cose da chiederti!
Dammi, o Signore, la pace del cuore, dammi la coscienza
tranquilla; una coscienza nuova, capace di buoni pensieri.
Ebbene, o Signore, a Te lo dico: se ho mancato, perdonami!
Tutti abbiamo bisogno di perdono e di misericordia: io Ti prego per
me! E poi, Signore, Ti prego per i miei cari, che mi sono ancora
tanto cari! Signore, assistili; Signore, consolali; Signore di’
a loro che mi ricordino, che ancora mi vogliano bene! Ho tanto
bisogno di sapere che qualcuno ancora pensa a me e mi vuol bene.
Ed anche per questi compagni di sventura e di afflizione, associati in
questa casa di pena, Signore, abbi misericordia.
Misericordia di tutti, sì, anche di quelli che ci fanno soffrire;
di tutti; siamo tutti uomini di questo mondo infelice. Ma siamo, o
Signore, Tue creature, Tuoi simili, Tuoi fratelli, o Cristo;
abbi pietà di noi.
Alla nostra povera voce aggiungeremo quella dolce e innocente della
Madonna; quella di Maria Santissima, che è la Tua Madre, e che
è anche per noi una madre di intercessione e di consolazione.
O Signore, da’ a noi la Tua pace; da’ a noi la speranza.
E così sia.
PAULUS PP. VI
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