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Salute Fratelli!
Ripetiamo il saluto, col quale si i: iniziata questa straordinaria
celebrazione: Gratis Domini nostri Iesu Christi et caritas Dei et
communicatio sancti Spiritus sit cum omnibus vobis (2 Cor. 13,
13).
Salute a voi, the venuti a Roma per confortare nella fede, nella
speranza, nella carità i vostri animi di Pastori della Chiesa di
Dio in un Paese grande e moderno, date a noi, e certamente anche a
voi stessi un moment0 di stupenda esperienza veramente cattolica,
nell’amore evangelico, mediante il. quale, come il nostro Capo e
Maestro ci ha insegnato in quell’ultima Cena, di cui noi ora
celebriamo la memoria e rinnoviamo la misteriosa realtà, noi
autentichiamo la nostra derivazione di discepoli del Signore, come
Egli con solenne semplicita proclami,: In hoc cognoscent omnes quia
discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Io.
13, 34; 15, 12).
E mentre noi cerchiamo ora di realizzare in noi stessi questa parola
del Signore non possiamo eludere l’impressione the noi attestiamo in
forma concreta e evidente, quasi apologetica, un aspetto della
Chiesa, ieri e ancora oggi tanto contestato da molti cristiani,
purtroppo da noi separati, e cioè la visibilità della Chiesa, la
sua concretezza umana e sociale, il suo corpo composto di persone vive
e reali, viventi in questo mondo e nella sua storia fenomenica; e poi
un altro aspetto della Chiesa risulta affermato dalla celebrazione di
questa santa Messa, come identica e autentica proiezione della Cena
del Signore; e cioè l’aspetto istituzionale, organizzato,
gerarchico della Chiesa è qui messo in una evidenza, che la difende
dalla tendenza di altri fratelli contestatori, contrari al
riconoscimento d’una Chiesa giuridica, quasi che fosse possibile
immaginare una Chiesa della carità, liberata dalle sue strutture
organiche e ministeriali.
Chiesa reale, Chiesa viva, Chiesa nostra e di tutti i suoi
aderenti, che cattolici, cioè universalisti sono chiamati, è ora
celebrata nel rito consueto, ma sempre nuovo e originale di questa
messa, resa, per di più irradiante di più pieno ed eloquente
significato dalla vostra presenza, Fratelli miei, dalla nostra
magnifica comunione.
Sono cose sublimi e semplici. Ma non sono forse meritevoli d’essere
ora e qui ricordate, quasi per inserire il cuore nello studio teologico
e spirituale, che voi, pellegrini verso questa Sede apostolica state
compiendo.
E non è forse simultaneamente esaltato l’elemento mistico e
soprannaturale della Chiesa proprio nel momento in cui noi, umili
eredi degli Apostoli, ne affermiamo la sua inequivocabile esistenza
fisica, visibile e gerarchica? La Chiesa, lo sappiamo, è il
Corpo mistico di Cristo (Col. 1, 24; Eph. 1, 22),
che, nella sua infrangibile ed armonica unità, reclama una
complessità di funzioni complementari, che, ecco, ci riguarda
direttamente, per quell’opus ministerii (Eph. 4, 12), che a
noi, Vescovi della Chiesa di Dio, è specificamente assegnato.
Qual è il ministero a noi assegnato? Ben lo sappiamo, è il
ministero dell’autorità, della exousia, della potestà, di cui
tanto spesso ci parla il Nuovo Testamento, non solo in rapporto a
Cristo, ma anche in rapporto agli Apostoli, in ordine cioè alla
missione a cui essi sono inviati, e alla opera di istruzione, di
santificazione e di guida, a cui sono destinati.
Noi daremo la massima attenzione a questa parola, potestà, che suona
capacità di agire e di reclamare l’obbedienza ecclesiale, che vuol
dire amorosa, di coloro ai quali questa parola è rivolta, perché
esprime un pensiero divino, una concezione precisa circa
l’ecclesiologia, che deve riconoscere i due quadri che la compongono:
i pastori ed il gregge; i due aspetti costituzionali, che la
definiscono: la società gerarchica e la comunità di grazia. E
ammireremo in questa realtà, che configura divinamente nell’ordine,
nella vitalità, nella bellezza, nell’amore, il volto della
Chiesa, e ne benediremo il Signore, con il proposito di riconoscere
fedelmente e coraggiosamente le conseguenze, che derivano dal disegno
divino della Chiesa.
Sì, fedelmente e coraggiosamente. Perché sappiamo che nel
linguaggio umano, e poi nella realtà storica quel nome di exousia, di
potestà, si dimostra equivoco, nella sua duplice traduzione
possibile, di dominio, e di servizio. E sappiamo che nostro Signore
ha dato una soluzione molto chiara al possibile equivoco, per quanto
riguarda i discepoli rivestiti d’autorità: qui maior est in vobis,
fiat sicut minor; et qui praecessor est sicut ministrator (Luc.
22, 26). Così noi abbiamo ascoltato adesso la sua voce nella
lettura del Vangelo. La nostra potestà non è un potere di dominio,
è una potestà di servizio; è una diakonia, è una funzione
destinata al ministero della comunità. È ben noto lo slogan di S.
Agostino, riferito alla potestà ecclesiale: non tam praeesse quam
prodesse delectet (PL, 38, 14841; che con S. Benedetto e
S. Gregorio diventa una norma ricorrente nel linguaggio
ecclesiastico; la riafferma il nostro venerato Predecessore Pio
XII, a riguardo di questa Sede Romana (cfr. AAS 1951,
p. 641; e cfr. CONGAR, L’Episcopat, Cerf 1962,
p. 67 ss. e p. 106 ss.; S. Th. III, 80, 10. ad
5; ecc.).
E davanti all’interpretazione evangelica ed ecclesiale della nostra
autorità nella comunità dei fedeli il nostro animo potrebbe rimanere
timoroso e paralizzato: come potremo esercitare la nostra funzione se
il senso suo proprio sembra capovolto? sarà la Chiesa governata dai
fedeli, al cui servizio i Vescovi sono obbligati? No, lo sappiamo:
i Vescovi sono posti dallo Spirito Santo per pascere la Chiesa di
Dio. Pascere, poimaînein, parola risolutiva, che nella densità
del suo significato fonde meravigliosamente il carisma giuridico
dell’autorità con il carisma sovrano della carità, e dà al Pastore
la sua vera fisionomia evangelica, quella della bontà, provvida e
forte, e quella del discepolo di Cristo, posto nell’esercizio della
cura animarum, che esige un completo dono di sé, un inesauribile
spirito di sacrificio.
Questa è la carità nella sua più alta e piena espressione: la
carità della verità (cfr. 2 Thess. 2, 10), mediante il
docete omnes gentes (Matth. 28, 19) e la vigilanza sul «
deposito » della fede da custodire (1 Tim. 4, 6; 6, 20; 2
Tim. 1, 14); la carità dispensatrice dei misteri di Dio (1
Cor. 4, 12; Eph. 3, 8); la carità che riversa l’amore
sommo dovuto a Cristo nella guida saggia e indefessa al suo gregge
(cfr. Io. 21, 15 ss.).
Nulla di nuovo per voi, venerati Fratelli, nel richiamo a questi
insegnamenti; ma non è mai vano il loro ricordo, specialmente se esso
avviene nelle circostanze, come quelle vostre presenti, mentre state
ricercando di ravvivare nelle vostre anime la luce dello Spirito
Santo, ricevuto al momento dell’ordinazione episcopale (2 Tim.
1, 6), e mentre state mettendo la vostra missione pastorale al
confronto con le vostre benedette Chiese locali, e con il mondo
immenso e fremente del nostro tempo.
Approfittiamo di questa lieta occasione per estendere altresì il
nostro saluto nel Signore alle vostre popolazioni. Mediante le vostre
persone, inviamo la nostra Benedizione Apostolica alle vostre chiese
locali, e ringraziamo il vostro clero, i religiosi e il laicato per la
loro viva comunione ecclesiale con voi e con noi e per la sollecita
solidarietà che mostrano verso i fratelli e le sorelle delle altre
Chiese locali sparse nel mondo. Come Successore di Pietro e in
adempimento del nostro ufficio di servizio, noi vogliamo confermarvi
nella fede in Cristo.
Così tutti ci assista e ci benedica Gesù Cristo, il Pastore dei
Pastori!
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