|
Mercoledì delle Ceneri, 27 febbraio 1974
Mercoledì delle Ceneri, - così il Santo Padre nella sua Omelia
- un grande momento del calendario della preghiera : l’inizio della
Quaresima. Ancora una volta, durante la cerimonia penitenziale nella
Basilica di Santa Sabina, egli richiama l’attenzione dei fedeli sui
temi essenziali del periodo quaresimale, che ci invita a un incontro
personale più intimo con il Signore per una purificazione della nostra
vita cristiana. «Fate penitenza e allora il Regno di Dio si
avvicinerà a voi»: questa voce - aggiunge Paolo VI - «risuona
stasera ancora in quest’aula benedetta che da sé parlerebbe e parla,
dove tutto sembra ispirarci ad accogliere queste parole, questi
pensieri». «È un annuncio che riguarda non solo la profezia della
venuta del Regno di Dio, ma anche, più da vicino, il mistero che
stiamo vivendo e compiendo noi, Chiesa di Dio, noi alunni di
Cristo, noi specialmente che abbiamo a Cristo Signore consacrato la
nostra esistenza, che abbiamo ascoltato la sua voce e a Lui abbiamo
giurato tutta la nostra fedeltà». La celebrazione non è soltanto
commemorativa, ma è anche rinnovatrice del perenne mistero che la
storia cristiana prolunga e profonde a coloro che lo sanno accogliere:
il mistero pasquale.
Questo mistero, in cui si incentrano la verità, i disegni di Dio,
la teologia della nostra salvezza, i destini delle anime, le nostre
stesse sorti spirituali, l’arte con cui la Chiesa forma e guida le
anime, mette nei nostri spiriti una certa agitazione. Non possiamo
rimanere tranquilli - spiega il Santo Padre - e lasciare che questo
giorno benedetto passi senza che la nostra anima entri in un certo
tumulto di pensieri, di desideri, di propositi, di problemi e veda
subito delinearsi davanti a sé tanti precetti, indicazioni, consigli
con cui la Chiesa vuol disciplinare questo periodo.
È il tempo del digiuno. «Pratichiamo ancora la disciplina antica del
digiuno, che oggi è assai temperata ma non ha perduto nulla del suo
spirito, cioè della capacità di dominare questa nostra natura umana
così complessa, così ribelle, di dominare cioè in noi l’uomo che
la Scrittura chiama “animale” perché prevalga l’uomo
“spirituale”. Vogliamo esser capaci di padroneggiare noi stessi
frenando le esigenze della nostra vita temporale che a volte diventano
prepotenti, invadenti, prevalenti. Dobbiamo far sì che l’uomo
della ragione, l’uomo dello spirito, l’uomo della preghiera abbia in
se stesso il sopravvento».
È periodo della penitenza, cioè dell’analisi della nostra anima,
della scoperta della nostra umiltà costituzionale. «Siamo della
povera gente, siamo degli esseri imperfetti, siamo degli esseri che,
commisurati all’infinito, proprio perché abbiamo la sensazione
dell’immensità di Dio, ci sentiamo venire alle labbra le parole
della Madonna: Humilitatem ancillae suae (Luc. 1, 48).
Siamo veramente tanto più piccoli quanto tu, Dio, sei grande. In
noi poi si aggiunge un’altra sorgente di umiltà che ci confonde, che
ci disturba: è la coscienza che siamo gente peccatrice. Ci siamo
rivoltati contro Dio Padre grande e buono e misericordioso e prodigo
delle sue grazie e dei suoi benefici, il primo dei quali è che ci ha
dato la vita, la sua sembianza e la sua vocazione battesimale,
chiamandoci ad essere soci della sua esistenza. E noi ci siamo
ribellati come ragazzi indocili, come degli sciocchi ». La penitenza
è un’analisi che ci porta a delle verità amare ma salutari; e
comporta un senso di abbattimento, di umiltà, di abbassamento che
conviene a chi ha sbagliato e deve ricuperare l’amicizia, il perdono,
la misericordia di Dio.
Il Papa si rivolge, quindi, in modo particolare ai giovani che hanno
risposto alla vocazione cristiana. « Beati voi che avete compreso la
vita cristiana non come una formalità qualsiasi, non come una teoria
che si può avere o non avere, non come una semplice speculazione che
può avere delle belle giustificazioni culturali, artistiche e
spirituali ma che non impegna la vita, che non la stringe nelle sue
esigenze assolute. Beati voi che avete compreso che la autenticità
della vita cristiana, esige un grande coraggio. Non possiamo essere
cristiani se non con coraggio pieno, con forza. Il nostro non deve
essere un cristianesimo molle, un cristianesimo nell’accezione che
ricorre abusivamente nel linguaggio comune, un cristianesimo borghese
che cerca di evitare le angolosità dei sacrifici e persegue la vita
comoda, onorata, tranquilla, goduta. Il cristianesimo conosce tutte
le dolcezze dello stile della bontà, della carità, ma in se stesso
è uno stile forte, severo, vuol essere vissuto in pienezza, con un
potenziale di eroismo che risponde di sì, senza mettere condizioni o
limiti alla chiamata di Dio e che vive in una totalità che perpetua
per tutta la vita la sua risposta d’amore: «Sì, o Signore, ti
voglio servire senza risparmio, senza nessun infingimento e nessuna
ipocrisia».
Dobbiamo dare alla nostra vita cristiana la sapienza che la conduce
sulle vie del Vangelo che sono vie, sì, dolci, amabili, piene di
senso umano, di carità, ma anche piene di forza e di quella legge che
tutto pervade il cristianesimo, e alla quale andiamo incamminandoci con
questo periodo di preghiera e di penitenza: la legge della Croce.
La Parola del Vangelo viene a confortare quanti hanno compreso tutto
ciò, e anche a correggere alcune possibili deviazioni a cui la nostra
vita anche cristiana, anche consacrata potrebbe essere esposta. Del
brano del Vangelo ascoltato poco prima il Papa sottolinea in proposito
due precetti. Il primo consiste in un’esigenza di intensità,
contenuta principalmente nei versetti che precedono il brano letto.
Con una sincerità che deve essere stata per quei tempi e per
quell’ambiente veramente indisponente, pericolosa, vi si dice: se la
vostra giustizia non è maggiore di quella dei professionisti della
giustizia (vale a dire i Farisei), non entrerete nel Regno dei
Cieli.
Quella giustizia non basta. Per il cristiano, una giustizia
qualsiasi davanti alle esigenze del Signore non è sufficiente. È
questo il grido della Quaresima: non basta vivere in qualche modo, in
qualche misura la vita cristiana, come se si trattasse soltanto di
pagare una tassa di una data pratica, di una data formula, di un dato
ossequio. O la si vive in pienezza, e allora è gioia («Un gaudio
grande», dice San Basilio, proprio annunciando la Quaresima);
oppure è ben misera cosa.
La seconda indicazione del Vangelo che la Chiesa mette «in capite
ieiunii» è questa: anche la vita cristiana, la vita religiosa, può
avere in sé una congenita deviazione. Può essere tradita dalla sua
stessa professione, cioè dall’esteriorità, dal farsi vedere, dal
farsi riconoscere. È la vanagloria della pietà, la vanagloria
dell’essere buoni, del sentirsi degni della stima degli altri,
perdendo così quello che al Signore preme di più. «Entra in te
stesso – conclude il Papa -. È lì che deve vivere il tuo colloquio
con Dio, non nell’esteriore manifestazione e nell’esteriore
pubblicità oggi tanto di moda. Questa non può dare la ricompensa che
è il Signore stesso ad attribuire. Hai già avuto la tua ricompensa
. . . Bisogna avere il segreto della coscienza, la cella interiore
della propria preghiera e del proprio raccoglimento, avere questo
colloquio a tu per tu che soltanto il Padre celeste ascolta e con il
quale noi ci apriamo. E il resto? Il resto che sia semplice . . .
. Basti la disciplina della nostra regola di vita cristiana, come il
costume della Chiesa l’ha stabilita. Per il resto, che l’esteriore
sia sereno, calmo, bello, che sia - dice il Signore - profumato,
che sia sorridente. Ciò che ci preme è l’interiorità,
l’autenticità, la spiritualità personale con cui il nostro colloquio
con Dio deve essere condotto direttamente, nell’intimità della
nostra meditazione e della nostra preghiera».
|
|