SECONDA PARTE


CAPITOLO V. PRIMI TEMPI AL «CALVARIO»

Come membro del Terzo Ordine di San Francesco e nella sua qualità di Fratello Minore, Pietro risiedeva nella chiesa del «Calvario», già terminata, e tra i suoi doveri, oltre a pregare e compiere i suoi esercizi spirituali, vi era quello di ordinare e pulire l'edificio e curare il giardino, occupazioni a cui egli attendeva gioiosamente. Spazzava con cura pavimenti della chiesa, che erano di mattonelle o lastre di argilla cotta, e per non sollevare polvere al passaggio della scopa e lasciarlo fresco e profumato, previamente lo innaffiava con acqua in cui aveva mescolato foglie di pino e d'arancio. Al Calvario accadde qualcosa di meraviglioso il giorno dopo che Pietro aveva preso l'abito di fratello Terziario.

Era abitudine a quel tempo che gli amici più cari si recassero a felicitarsi con il nuovo Terziario e anche per Pietro così avvenne. Subentrando la notte, invitò i suoi amici a pregare con lui nella sacrestia, dove allora si trovava l'immagine di Gesù crocifisso, in attesa di essere pulita e restaurata. Si inginocchiarono a pregare di fronte a questa effige e, sorprendentemente, notarono che si copriva di sudore; uno dei presenti la deterse con un asciugamano e davanti agli occhi stupiti di tutti, tornò a bagnarsi. Spaventati, vollero avvisare la gente ma Pietro lo impedì pregandoli di smettere perché era per i suoi peccati che Dio stava sudando. Durante i giorni 6 e 7 luglio del 1656, l'immagine sudò davanti agli occhi stupiti dei presenti che non si mossero di lì neppure un momento, mentre Pietro di Betancur, inginocchiato in un angolo, implorava perdono.

I fiori e le sue occupazioni gli procuravano particolare piacere ed aveva «buona mano» per tutto ciò che seminava; come San Francesco d'Assisi, accanto alla chiesa, coltivava il suo giardino dove fiorivano bellissime rose, gelsomini, garofani, gigli, iris, violacciocche, pasque ed altri fiori tropicali, che nutriti da una terra ricca e grassa e dal generoso e tonificante clima della regione, oltre che dalle speciali cure delle sue mani amorose, erano tanto belli e profumati da suscitare l'ammirazione di quanti li vedevano. Non gli piaceva coglierli, tranne che per adornare gli altari della chiesa.

Disporre quei fiori di fronte all'altare della Vergine suscitava in lui una dolcissima emozione che si traduceva in parole sussurrate in preghiera:

«Non disdegnate, Signora, questi poveri omaggi del vostro umile servo, poiché la mia tenerezza ve li offre, non solo come a Regina, ma a Madre. Se forse non arriva l'effluvio degli aromi e la fragranza dei fiori naturali al purissimo altare del vostro trono, innalzate per i meriti del Glorioso Patriarca San Giuseppe, vostro carissimo sposo, i poveri sospiri della mia preghiera, la tiepidezza della mia volontà, lo scoraggiamento del mio spirito, e accoglieteli ai vostri sacri piedi, ottenendomi dal vostro divin Figlio il dono della perseveranza e la guida in tutte le mie opere».

La sua devozione alla Immacolata fu molto grande, come lo dimostra un documento trovato dopo la sua morte, scritto di suo pugno e col suo sangue:

«Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, siano benedetti e Lodati il Santissimo Sacramento dell'Altare e l'Immacolata Concezione della Vergine Maria Nostra Signora, concepita senza peccato originale, lo, Pietro di Betancourt, affermo e giuro per questa croce e per i Santi Vangeli, che Nostra Signora la Vergine Maria, fu concepita senza macchia di peccato originale; e darò la mia vita, se sarà necessario per difendere la sua Santissima Concezione. Ed in verità lo firmo col mio nome e col mio proprio sangue. Martedì otto dicembre 1654».

Ogni anno rinnovava questa promessa, poiché nello stesso documento si trova scritto: «Ogni anno confermo quanto detto: e dico che perderci mille vite per difendere la Concezione della Vergine Maria, mia Madre e Signora, ed ogni anno, nel suo giorno, lo firmerò col mio sangue.lo, Pietro di Bentacourt, peccatore, Anno 1655».

Riguardo al lavoro di Pietro come giardiniere vi sono due testimonianze che conviene qui menzionare.

Viveva nella città un agiato cavaliere spagnolo chiamato Giacinto Avendano, la cui casa, a tre quarti di miglio dalla cattedrale lungo la strada per San Pedro las Huertas, aveva un bellissimo cortile coltivato ad alberi da frutta e fiori. Don Giacinto provava per Pietro un affetto speciale e lo invitava frequentemente a pranzo, offrendogli cibi e leccornie portate dalla Spagna particolarmente per lui. Un giorno gli presentò a colazione un panierino pieno di datteri secchi che a Pietro piacquero molto e, mosso dall'istinto di seminare ogni cosa, conservò i noccioli, domandando a don Giacinto:

- «Crede che per questa frutta sia propizio questi clima? Se mi permette di piantare questo nocciolo nel suo cortile per vedere se nasce e prospera, sarà poi un ornamento che nessuna casa di questa città possiede».

- Seminalo fratello, ché la tua buona mano farà sì che subito germogli. I due si misero a scegliere un posto in un'aiuola e piantarono il nocciolo pochi giorni dopo videro con stupore che dalla terra spuntava una fogliolina verde: era la prima pianta da datteri che cresceva nella terra di Guatemala, forse nella terra d'America.

L'albero cresceva lentamente ma bene, di tanto in tanto il Fratello Pietro andava a controllarlo ed ammirava il suo snello fusto da palma e l'immenso ciuffo di foglie che dondolavano al vento. Gli abitanti ne parlavano perché non avevano mai visto una palma da datteri così subito si sparse la fama dell'albero conosciuto come «il dattero del Fratello Pietro».

Col tempo, la casa di don Giacinto passò in proprietà alle sorelle Trujillo che curarono l'albero con grande devozione.

Nell'anno 1881, precisamente il 4 ottobre, si verificò il famoso acquazzone annuale conosciuto coi nome di «Cordonazo de San Francisco» (burrasca equinoziale) e la sua violenza fu tale che travolse la palma da datteri le cui radici, vissute più di duecento anni, erano deboli e logore. Le sorelle Trujillo recuperarono i resti del fusto e lo tagliarono a pezzi distribuendoli a varie famiglie dell'Antigua, devote di Pietro. L'altro albero famoso che Pietro piantò è I'Esquisúchil, ancora in piedi a più di trecento anni dalla semina. Questo albero è chiamato anche «Esquisúchil» o Atzquisuchil» (in lingua pipil significa «soltanto questo fiore»), attribuendogli origine indigena, ma la storia ci dice che venne originariamente dal Perù, dove don Pietro di Alvarado, nel 1534, avrebbe condotto una spedizione da Guatemala per trovare i tesori degli Incas. Tra i soldati di don Pietro vi era Juan Godínez, cappellano dell'esercito a cui piacevano molto le piante. Le vicissitudini di questa spedizione, le sofferenze e la morte di gran parte di quei soldati, per il freddo e la fame lungo le montagne del Perù, sono una triste pagina nella storia di don Pietro di Alvaredo, conquistatore e Capitano Generale di Guatemala.

Tra quelle montagne alte e fredde, tra la paura e la morte, il padre Juan Godínez notò un albero dal verde intenso carico di fiori bianchi profumati. Pensò alla sua casa di Guatemala e promise alla Vergine che se fosse tornato vivo avrebbe piantato uno di questi alberi di fronte alla cappella. Tagliò un ramo e lo divise in rametti che ricoprì con del muschio umido per non farli seccare e così, per mesi, li portò con sé fino al ritorno a casa sua nella valle di Almolonga.

Solo uno dei germogli arrivò fresco e lo piantò nel cortile della chiesa di San Miguelito, nel quartiere che porta lo stesso nome. Lì l'albero crebbe profumando la strada ed abbellendo il paesaggio.

Trascorsero più di cento anni. Almolonga venne distrutta e la capitale trasferita nella valile di Panchoy dove, un giorno, arrivò Pietro di Betancur. Preso l'abito di Terziario francescano, egli viveva nella chiesa del Calvario e si recava, quando poteva, alla vicina «Città Vecchia» (prima Almolonga) a visitare l'immagine della Vergine della Concezione nella chiesa principale del posto. Per arrivarvi doveva passare attraverso il paese di San Miguelito. Una mattina, transitando per quel luogo, udì dei lamenti, si avvicinò e vide che ai piedi di un bellissimo albero era disteso un poveretto che soffriva la fame e il freddo. Per soccorrerlo chiese aiuto presso una casa vicina per avere dei pane e un rifugio e, mentre offriva al disgraziato qualcosa da mangiare, sentì un soavissimo profumo. Allora notò l'albero grande e frondoso, pieno di minuscoli fiorellini bianchi che emanavano quel piacevole aroma. Pensò al giardino dei Calvario di cui aveva tanta cura, alla Vergine, che amava adornare con fiori candidi e profumati e subito tagliò un rametto dell'albero.

Era il giorno di San Giuseppe, il 19 marzo del 1657, quando piantò nel suo giardino, nel luogo dove una volta esisteva un pergolato, un rametto fiorito che crebbe poco alla volta fino a trasformarsi in quel grande albero che oggi ammiriamo, e che ha più di 300 anni di vita. [25]

Questo albero, il cui nome scientifico venne classificato dal botanico Mariano Pacheco Herrante come «Ehretia guatemalensis», è una pianta rara, difficile a riprodursi e non è stato possibile trovarla in nessun altro paese.

L'«Esquisúchil» è considerata una pianta dai poteri curativi; i fiorellini bianchi che cadono dai suoi rami, vengono raccolti dalle persone le quali affermano che, preparando con essi un'infusione o un tè, si possono curare i malanni. Per questo è molto frequente vedere persone che raccolgono affannosamente i fiori caduti oppure aspettano che ne cadano altri.

Forse ciò si deve al fatto che il Fratello Pietro, oltre a curare le anime come ogni buon religioso, curava i corpi con le erbe; alla sua abitazione del Calvario giungevano molti infermi in cerca di cure, inoltre egli portava medicamenti vegetali ai numerosi malati che quotidianamente andava a visitare a domicilio o negli ospedali.

La storia ci racconta che da quando si fu stabilito nel suo Santuario, Fra Pietro, conosciuto come «l'abitante del Calvario», ebbe un ripostiglio, con una piccola farmacia, dove custodiva i rimedi per ogni tipo di indisposizione e malanno. [26]

Dal momento in cui si seppe che era entrato nell'Ordine Francescano e che si trovava al Calvario, molta gente andata a trovarlo, bisognosa di cure materiali e spirituali. Pietro sapeva, per il saggio intuito che lo guidava nelle azioni, che un'opera per essere effettiva e sostenersi, deve fondarsi su solide basi, per questo, oltre gli adulti, erano i bambini la sua maggiore preoccupazione: li attirava pertanto alla sua scuola perché più tardi potessero essere uomini capaci di compiere opere di bontà e di fede. Ideò metodi nuovi per avviarli agli studi e, per rendere più gradite le sue lezioni, escluse modi severi e duri, in uso in quell'epoca e raccontava ai fanciulli piccole storie, recitava strofette da lui stesso composte, regalava dolci e frutta, organizzava processioni rallegrate con semplici canti e passi di danza che eseguiva con sana allegria, senza che nessuno osasse criticarlo.

Fra tutte le sue iniziative, risalta in particolare la pratica religiosa del «rosario cantato» che non tardò poi a propagarsi nel mondo cattolico. È sorprendente rendersi conto di questi metodi di insegnamento di Fra' Pietro, sistemi spontanei che usava guidato da saggia intuizione e che, duecento anni più tardi, furono introdotti da maestri e psicologi nell'educazione moderna, riconoscendo l'altissimo valore psicopedagogico dell'«insegnare giocando».

Forse attraverso i quadri e i disegni dell'epoca, che esistono e che mostrano sempre Fra' Pietro in atteggiamento contemplativo e penitente, noi lo immaginiamo serio e solitario, ma non era così. Egli aveva un bel carattere, allegro, spiritoso, comunicativo. La sua voce era soave benché, quando l'occasione lo richiedesse, poteva essere anche forte e grave. Amava cantare canzoni e recitare strofette che egli stesso componeva, semplici e profonde, intuendo che gl'insegnamenti potevano in tal modo più facilmente essere ricordati.

Esso un esempio:

Vale più il grasso,
allegro ed obbediente
che il magro
triste, altero e penitente.
Obbedisci al Confessore
e sbagliare non potrai,
segui sempre il suo volere
e gradire a Dio saprai.
D'amor proprio moriremo
se schiacciarlo non sapremo.

Alcune volte per dimostrare alle persone che i cuori pieni di Dio devono mantenersi allegri, cantava e ballava agitando le braccia come fossero ali e invitando gli uccelli sfidandoli nella danza.

Quando camminava per le strade, le persone e specialmente i bambini, appena lo vedevano apparire, facevano il gesto d'inginocchiarsi al suo passaggio, in segno del rispetto che gli portavano, cosa che a lui, nella sua umiltà, non piaceva. Per evitare questo, insegnò ai bambini alcuni versetti e chiedeva loro di recitarli ad alta voce mentre egli si inginocchiava in mezzo ad essi godendo di essere burlato:

Voglion sapere, signori,
chi è fratello Pietro?
lo vedran sempre fuori
andar avanti e indietro.
Perde tempo in conversare
più che il male a riparare
Per le strade, avanti e indietro
senza affatto lavorare
Pensa andare, fratel Pietro
anche in cielo a passeggiare.

Indubbiamente la strofa più conosciuta e anche la più bella e profonda di tutte, è quella che recitava con voce grave fermandosi ad ogni angolo della strada suonando la sua famosa campanella. La diceva in spagnolo, naturalmente, e in quella lingua ha un suono particolare; era così:

Acordaos, hermanos,
que un alma tenemos
y si la perdemos
no la recobramos...
Limpiad el pensamiento
temed el mal que haceis
vivid considerando
que de morir habeis...

La figura di Fra' Pietro non è stata giustamente valutata riguardo alle capacità intellettive. Forse per il suo insuccesso negli studi alcuni lo hanno considerato stolto o poco intelligente, cosa che è dimostrata falsa a giudicare dall'opera che realizzò e che assunse stabilità nel tempo. Molte volte succede che si confonda la semplicità con la stupidità. Pietro non aveva facilità nel ricordare a memoria (si consideri che il sistema d'insegnamento dell'epoca era basato soprattutto sulla memorizzazione); non gli era facile neppure apprendere le lingue, il latino poi costituì una delle sue principali difficoltà e si consideri che in quel tempo le principali lezioni si impartivano sempre in latino; tuttavia, ciò non è indice di scarsa intelligenza poiché esistono persone di talento che non posseggono queste qualità.

Pietro di Betancur aveva una intelligenza normale, chiara e pratica; non fu un talento straordinario né un genio ma sotto un certo aspetto lo si può considerare tale, per molti dei suoi atti e delle sue intenzioni che non potrebbero logicamente avere spiegazione che nelle sue particolari illuminazioni interiori.

Degno di essere ricordato è il fatto che dopo il suo ingresso al Terzo Ordine, la sua memoria migliorò al punto tale che in breve tempo, circa in quindici giorni, imparò a memoria i venti capitoli della regola.

La sua intelligenza e la sua capacità di apprendimento erano tanto grandi nel periodo dei suo apostolato che, come racconta la storia, in un'occasione in cui si chiese a Fra' Payo Enríquez de Ribera, allora Vescovo di Guatemala, la sua opinione su questo aspetto di Fratel Pietro, si espresse così:

«Le sue qualità sono tutte preziose, ma quella dell'apprendimento la giudico la più singolare». [27]

Il suo biografo Vásquez - che citiamo con frequenza in questo libro -disse di lui che «Il Signore gli comunicò tanta luce per intendere il Vangelo che pur non conoscendo la grammatica, non solo capiva le parole ma ne penetrava lo spirito...».

Una volta abbracciata la vita religiosa, divideva il suo tempo tra le occupazioni in chiesa e le visite agli infermi negli ospedali, ai lebbrosi ed ai prigionieri. Portava loro ciò che poteva: abiti, pane, frittelle, ecc., che distribuiva mentre confortava spiritualmente.

Non abbandonava nessuno che avesse necessità, nemmeno quelli che per certe condizioni speciali provocavano ripugnanza o repulsione negli altri, come il caso di alcune anziane lebbrose ricoverate all'ospedale di San Lazzaro, la cui infermità, in grado avanzato di decomposizione, faceva sì che nessuno volesse curarle. Lo seppe Pietro ed una volta alla settimana accorreva a medicarle con le proprie mani.

Una mattina, agli inizi della sua vita di Terziario, ricorse a Fra' Payo, chiedendogli l'autorizzazione di cambiare il nome, cosa che voleva fare già da molto tempo. Frate Payo firmò personalmente l'autorizzazione su un documento, che diceva così: [28]

«Mi ha riferito Fra' Pietro di Betancur, che per sua grande devozione e desiderio intende cambiare nome, e chiamarsi «Pedro di San José» ed inoltre che gli sarebbe di conforto che io per primo lo chiamassi così... Frate Payo, vescovo di Guatemala».

Ritornando alla sua casetta Pietro raccontò quanto era successo, chiedendo a tutti di essere chiamato sempre da quel momento in poi: «Hermano Pedro de San José». (Fra' Pietro di San Giuseppe).




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