CAPITOLO IX. CURE AGLI INFERMI

I suoi miracoli e la sua carità si estendevano anche alla cura degli infermi negli ospedali della città, non solo nel suo il quale, più che un ospedale per infermi, era un centro di recupero per convalescenti. Per la sua grande e profonda fede, egli comprendeva che oltre alle preghiere ed ai sacrifici, era necessario fare opere di utilità per il prossimo. Forse la migliore dimostrazione di questo suo intento, sono le parole dirette ad un fratello terziario, suo seguace, il quale si era applicato soltanto alle mortificazioni ed alle penitenze, gli disse:

- «Vale di più, fratello, trasportare un povero infermo da un letto all'altro, che tutto quello che stai facendo».

Portava agli ospedali viveri e vestiario, puliva e trasportava gli infermi, molte volte caricandoli sulle spalle, altre, su di una sedia speciale, che aveva fatto costruire, e per portare la quale si faceva alcune volte aiutare da negri ed indigeni.

Poiché l'ospedale era solo per convalescenti, egli stesso si preoccupava di trasportare gli infermi dalla loro casa all'ospedale più vicino e, quando erano ormai guariti e già entrati nella fase di recupero, li metteva sulla famosa sedia e li portava al suo ospedale dove si prendeva cura di loro fino a che fossero stati in grado di tornare alle proprie case con i loro piedi. La sua pietà non conosceva distinzioni di classe, poiché serviva sia cavalieri che schiavi e lo faceva tanto nel caso di semplici indisposizioni che di malattie gravi.

Non provava ripugnanza alcuna. Agli indigeni, molte volte, estraeva gli insetti che si conficcavano sotto le unghie dei piedi; lavava le piaghe ed arrivò al punto, varie volte, quando non aveva tele a portata di mano, di usare la sua lingua per medicarli. Di questo, cui ai nostri giorni sembra assurdo credere, la storia ci offre tre testimonianze: [33]

«Una volta mentre camminava per la strada, incontrò un indio infermo e pieno di piaghe, il quale, per la grande miseria, era costretto a giacere in terra, abbandonato dagli uomini. Si dolse Pietro della sua sfortuna e poiché la sua carità non sopportava di vedere i malanni senza applicarvi rimedio, sul momento si prostrò al suolo e sanandogli le piaghe con la sua lingua, se lo caricò poi sulle spalle e lo portò all'ospedale per continuare a curarlo...».

«Juan de Arévalo, Fratello del Terzo Ordine di Penitenza, ebbe per un certo periodo una gamba piena di piaghe per la lebbra ed avendo incontrato un amico gli raccontò con ammirazione quanto gli era accaduto:»

- «Cosa vi sembra della carità del servo di Dio, Pietro? Ora, in questo momento, ha appena finito di medicarmi questa gamba, usando come bende la sua lingua».

Mentre Pietro si trovava nell'ospedale di Sant'Alessio, praticando la sua solita assistenza agli infermi, fece il più eroico atto di carità. Portarono un indio coperto di piaghe, ma tra tutte ve n'era una tremenda che gli aveva gonfiato mostruosamente il piede, causandogli molte cavità piene di pus. Nel momento in cui il chirurgo stava pulendo quel marciume per curarlo, sopraggiunse Fra' Pietro e disse:

- Non sarebbe meglio prendere un cane per nettare quella piaga?

In quei tempi era consuetudine infatti fare questo con i lebbrosi e con i malati pieni di piaghe, specialmente se erano bisognosi, schiavi, negri o indi.

Il medico quindi, senza meravigliarsi, acconsentì, e non pensò che il cane a cui si riferiva il Fratello era lui stesso. Pietro, allora, si inginocchiò accanto all'indigeno dolente e compì con amore l'eroica funzione davanti all'ammirazione ed allo stupore dei presenti. La storia racconta che quella gamba in cancrena che doveva essere amputata, la mattina seguente apparve completamente sana.

Il giorno quattro di ogni mese Pietro si recava all'ospedale di San Lazzaro, quello dei lebbrosi, che rimaneva fuori della città, a portare aiuto materiale e conforto spirituale agli infermi. Nella visita lo accompagnava il padre Bernardino Ovando che lo aiutava in molte delle sue opere ma particolarmente in questa del lazzaretto. Si trovavano qui due povere anziane lebbrose, tanto maleodoranti e sgradevoli a veder si che nessuno degli infermieri voleva curarle. Pietro, tuttavia, le puliva attentamente, portava loro biancheria pulita e, una volta presentabili, faceva sì che si confessassero e comunicassero con il Padre Ovando, che, officiava la messa per i lebbrosi.

Il Vescovo Fra' Payo Enríquez de Ribera si trovava infermo, privo di appetito e debole e nessun medico della città era in grado di curarlo. Mandò a chiamare Pietro, il quale, vedendolo disteso sul letto, si commosse del suo stato. Egli provava un particolare affetto per Fra' Payo lo aiutava nelle sue opere moralmente e materialmente. Dalle sue famose bisacce tirò fuori una ciambella dolce e gli disse:

- «Fratello, prenda questa ciambella».

Fra' Payo, la mangiò, più per far piacere a Pietro che per fiducia nelle proprietà curative di quel semplice dolce, ma non appena l'ebbe mangiata si sentì meglio, poté immediatamente alzarsi dal letto e nel giro di poche ore si era totalmente ristabilito, al punto che egli stesso fu poi in grado di raccontare a tutti che solo quella ciambella e nessun'altra medicina lo aveva guarito.

La mano di Pietro guariva uomini ed animali, poiché come San Francesco d'Assisi, Pietro di Betancur provava affetto e tenerezza per gli animali, che chiamava fratelli. Questi, a loro volta, diventavano mansueti davanti a lui e lo seguivano come agnellini. Egli portava quelli ammalati, che trovava per le strade, nel suo ospedale dove li curava con molta attenzione. Don Andrés Franco era un abitante della città e contribuiva alle opere di Fra' Pietro. Una notte questi si recò da lui a ritirare un regalo, ma nell'aprire la porta, mentre teneva in mano una candela per far luce, Don Andrés fu assalito da un cane che teneva incatenato perché furioso al punto da attaccare persino il suo stesso padrone. Per lo spavento, cadde al suolo con la candela in mano, che si spense quasi nello stesso momento in cui il cane lo avventava. Pietro che gli era accanto, non si spaventò, guardò il cane fissamente e disse queste parole:

- «Fermati, fratello, guardiamoci negli occhi».

Il cane rimase immobile, Pietro raccolse la candela, che con un soffio tornò ad accendersi, ed alla luce esaminò l'animale che si lasciò accarezzare senza il minimo atteggiamento rabbioso, davanti allo stupore di don Andrés che a mala pena credeva a ciò che i suoi occhi vedevano. Pietro prese un pezzo di pane dalla sua bisaccia e lo porse al cane che lo mangiò nella sua mano. Poi lo accarezzò sulla testa e gli disse:

- «Ricorda, fratello, che dobbiamo essere sempre amici».

E raccontano le cronache che da quel giorno, ogni volta che Pietro andava a casa, il cane gli correva incontro a riceverlo festosamente, agitando la coda, e lo accompagnava durante tutta la sua visita, mettendosi mansuetamente ai suoi piedi quando Pietro si sedeva.

La sua fede era inalterabile, credeva fermamente nell'aiuto divino... e lo riceveva. Una volta, nel prestare le sue cure ai convalescenti, trovò che non vi era nulla da mangiare per quel giorno. Le scarse risorse si erano esaurite e durante quella giornata non era arrivato nessuno ad offrire qualcosa. I fratelli che lo aiutavano non vollero preoccuparlo rivelandogli la mancanza di cibo, ma qualcuno dei pazienti si lamentava per la fame ed allora egli, conosciuta la situazione, disse:

- «Aspettate, che ora ricorriamo alla Provvidenza».

Si inginocchiò in mezzo alla sala a recitare un Padre Nostro ed aveva appena terminato la preghiera, quando si sentì bussare e fu annunciato l'arrivo di un domestico di una ricca famiglia che portava, per incarico dei suoi padroni, una coscia di montone ed un bel pezzo di vitella.

Pietro aveva mandato a fare una scultura di Cristo risorto per collocarla nell'oratorio dell'ospedale, era terminata ed egli non aveva denari per ritirarla, perciò chiese in prestito sessanta pesos ad un conoscente, il Dr. Maurizio de Losada, il quale si offrì di darglieli in cambio di una garanzia.

Pietro non aveva nulla ma promise di provvedere subito, tuttavia non riuscì ad incontrare nessuno che gli desse qualcosa di sufficiente valore da lasciare in garanzia del denaro. Ritornò il giorno seguente, ma portava appena venti pesos che un conoscente gli aveva donato e pregò il medico che gli procurasse i quaranta rimanenti, proponendo che sarebbe andato in galera se non avesse pagato il suo debito. Il medico, ancora diffidente, accettò a condizione che li restituisse nel termine di otto giorni e Pietro gli promise che li avrebbe portati non in otto, ma in cinque giorni, altrimenti egli stesso sarebbe andato a costituirsi. Cosa fece Pietro? Non si sa con certezza ma è indubbio che pregò ferventemente e che la sua incrollabile fede gli ottenne che qualcuno andasse a donargli la somma necessaria, che, dopo due giorni, consegnò al medico usuraio. Questi, commosso dalla fede e dalla puntualità di Fra' Pietro, gli donò la metà come aiuto per le sue opere.

Gli anni migliori della vita, Pietro li consacrò al bene del prossimo per guadagnare anime a Dio. La sua carità si estendeva a tutti. Ingrandì l'ospedale con un guardaroba ed una dispensa per i poveri ed è consuetudine, ancora oggi, che la Congregazione Betlemita segua questa tradizione. Gli abiti che gli davano, se avevano bisogno di essere accomodati, egli stesso li rammendava e li rimetteva in ordine poiché diceva che si doveva dare sempre con dignità.

Coloro che per qualche motivo non potevano andare a chiedergli aiuto direttamente venivano soccorsi là dove abitavano, così faceva con i prigionieri nelle carceri, con gli schiavi e con gli infermi negli ospedali.

L'amore che nutriva verso Dio era tanto grande che gli dava la forza di soffrire qualsiasi pena o dolore con rassegnazione e pace. Quando gli chiedevano come facesse a resistere tanto, diceva:

- «Se alcuni uomini patiscono prigionie e fatiche perché sono debitori verso altri, perché non dovrei patire io uguali pene se sono tanto debitore verso Dio?».

Se alcune persone gli chiedevano elemosine o qualsiasi altra carità, supplicandolo per la loro vita o per qualsiasi altro motivo temporale, le congedava senza soccorrele, dicendo:

- «Andate fratelli, voi non sapete chiedere!»

Se poi domandavano in nome di Dio, egli immediatamente prestava loro attenzione facendoli riflettere che quella era la maniera giusta di chiedere.

Raccontano che una volta mentre si recava a fare la sua solita visita agli infermi dell'ospedale per portare loro un po' di «atol», cioè una bevanda particolare che considerava un ottimo alimento per i convalescenti, si fermò prima in una ricca casa dove vi era un malato. Arrivò frattanto la domestica di una distinta signora del vicinato a chiedere un po' di atol per la sua padrona, anch'ella delicata di salute, ma la servetta, che era giovane e civetta, invece di fare la sua richiesta correttamente e con umiltà, con un sorriso sfacciato e maliziosamente lo chiese «per amore del suo bel viso». Pietro trovò la richiesta tanto irrispettosa, che alzò la mano e le diede uno schiaffo, dicendole che non era quello il modo di chiedere, perché le richieste dovevano farsi per amore di Dio. Le diede tuttavia I'atol per la sua padrona, avvertendola che si ricordasse che sul suo volto portava impresso il segno indicatore che l'amore verso Dio doveva essere l'unico motivo delle sue richieste.

Sulla pentola di atol si raccontano molte cose, dicono che quella bevanda bastasse per tutti i malati e che sembrava non avesse mai fine...

Era una pentola di terracotta, di quelle che da sempre usano le indigene e la gente di campagna per cucinare, non aveva nulla di particolare ma con essa si ripeteva costantemente il miracolo della moltiplicazione dei viveri ed accadevano altri fatti meravigliosi.

Una volta mentre Pietro andava per la strada con la sua pentola sulla spalla, essendo le strade selciate e forse egli un po' stanco, inciampò e la pentola rotolò al suolo... tuttavia, come raccontarono gli abitanti stupiti, la pentola di terracotta non si ruppe né si sparse in terra una sola goccia di atol.




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