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I suoi miracoli e la sua carità si estendevano anche alla cura degli
infermi negli ospedali della città, non solo nel suo il quale, più
che un ospedale per infermi, era un centro di recupero per
convalescenti. Per la sua grande e profonda fede, egli comprendeva
che oltre alle preghiere ed ai sacrifici, era necessario fare opere di
utilità per il prossimo. Forse la migliore dimostrazione di questo
suo intento, sono le parole dirette ad un fratello terziario, suo
seguace, il quale si era applicato soltanto alle mortificazioni ed alle
penitenze, gli disse:
- «Vale di più, fratello, trasportare un povero infermo da un
letto all'altro, che tutto quello che stai facendo».
Portava agli ospedali viveri e vestiario, puliva e trasportava gli
infermi, molte volte caricandoli sulle spalle, altre, su di una sedia
speciale, che aveva fatto costruire, e per portare la quale si faceva
alcune volte aiutare da negri ed indigeni.
Poiché l'ospedale era solo per convalescenti, egli stesso si
preoccupava di trasportare gli infermi dalla loro casa all'ospedale
più vicino e, quando erano ormai guariti e già entrati nella fase di
recupero, li metteva sulla famosa sedia e li portava al suo ospedale
dove si prendeva cura di loro fino a che fossero stati in grado di
tornare alle proprie case con i loro piedi. La sua pietà non
conosceva distinzioni di classe, poiché serviva sia cavalieri che
schiavi e lo faceva tanto nel caso di semplici indisposizioni che di
malattie gravi.
Non provava ripugnanza alcuna. Agli indigeni, molte volte, estraeva
gli insetti che si conficcavano sotto le unghie dei piedi; lavava le
piaghe ed arrivò al punto, varie volte, quando non aveva tele a
portata di mano, di usare la sua lingua per medicarli. Di questo,
cui ai nostri giorni sembra assurdo credere, la storia ci offre tre
testimonianze: [33]
«Una volta mentre camminava per la strada, incontrò un indio infermo
e pieno di piaghe, il quale, per la grande miseria, era costretto a
giacere in terra, abbandonato dagli uomini. Si dolse Pietro della
sua sfortuna e poiché la sua carità non sopportava di vedere i malanni
senza applicarvi rimedio, sul momento si prostrò al suolo e sanandogli
le piaghe con la sua lingua, se lo caricò poi sulle spalle e lo portò
all'ospedale per continuare a curarlo...».
«Juan de Arévalo, Fratello del Terzo Ordine di Penitenza, ebbe
per un certo periodo una gamba piena di piaghe per la lebbra ed avendo
incontrato un amico gli raccontò con ammirazione quanto gli era
accaduto:»
- «Cosa vi sembra della carità del servo di Dio, Pietro? Ora,
in questo momento, ha appena finito di medicarmi questa gamba, usando
come bende la sua lingua».
Mentre Pietro si trovava nell'ospedale di Sant'Alessio,
praticando la sua solita assistenza agli infermi, fece il più eroico
atto di carità. Portarono un indio coperto di piaghe, ma tra tutte
ve n'era una tremenda che gli aveva gonfiato mostruosamente il piede,
causandogli molte cavità piene di pus. Nel momento in cui il chirurgo
stava pulendo quel marciume per curarlo, sopraggiunse Fra' Pietro e
disse:
- Non sarebbe meglio prendere un cane per nettare quella piaga?
In quei tempi era consuetudine infatti fare questo con i lebbrosi e con
i malati pieni di piaghe, specialmente se erano bisognosi, schiavi,
negri o indi.
Il medico quindi, senza meravigliarsi, acconsentì, e non pensò
che il cane a cui si riferiva il Fratello era lui stesso. Pietro,
allora, si inginocchiò accanto all'indigeno dolente e compì con
amore l'eroica funzione davanti all'ammirazione ed allo stupore dei
presenti. La storia racconta che quella gamba in cancrena che doveva
essere amputata, la mattina seguente apparve completamente sana.
Il giorno quattro di ogni mese Pietro si recava all'ospedale di San
Lazzaro, quello dei lebbrosi, che rimaneva fuori della città, a
portare aiuto materiale e conforto spirituale agli infermi. Nella
visita lo accompagnava il padre Bernardino Ovando che lo aiutava in
molte delle sue opere ma particolarmente in questa del lazzaretto. Si
trovavano qui due povere anziane lebbrose, tanto maleodoranti e
sgradevoli a veder si che nessuno degli infermieri voleva curarle.
Pietro, tuttavia, le puliva attentamente, portava loro biancheria
pulita e, una volta presentabili, faceva sì che si confessassero e
comunicassero con il Padre Ovando, che, officiava la messa per i
lebbrosi.
Il Vescovo Fra' Payo Enríquez de Ribera si trovava infermo,
privo di appetito e debole e nessun medico della città era in grado di
curarlo. Mandò a chiamare Pietro, il quale, vedendolo disteso sul
letto, si commosse del suo stato. Egli provava un particolare affetto
per Fra' Payo lo aiutava nelle sue opere moralmente e materialmente.
Dalle sue famose bisacce tirò fuori una ciambella dolce e gli disse:
- «Fratello, prenda questa ciambella».
Fra' Payo, la mangiò, più per far piacere a Pietro che per
fiducia nelle proprietà curative di quel semplice dolce, ma non appena
l'ebbe mangiata si sentì meglio, poté immediatamente alzarsi dal
letto e nel giro di poche ore si era totalmente ristabilito, al punto
che egli stesso fu poi in grado di raccontare a tutti che solo quella
ciambella e nessun'altra medicina lo aveva guarito.
La mano di Pietro guariva uomini ed animali, poiché come San
Francesco d'Assisi, Pietro di Betancur provava affetto e tenerezza
per gli animali, che chiamava fratelli. Questi, a loro volta,
diventavano mansueti davanti a lui e lo seguivano come agnellini. Egli
portava quelli ammalati, che trovava per le strade, nel suo ospedale
dove li curava con molta attenzione. Don Andrés Franco era un
abitante della città e contribuiva alle opere di Fra' Pietro. Una
notte questi si recò da lui a ritirare un regalo, ma nell'aprire la
porta, mentre teneva in mano una candela per far luce, Don Andrés
fu assalito da un cane che teneva incatenato perché furioso al punto da
attaccare persino il suo stesso padrone. Per lo spavento, cadde al
suolo con la candela in mano, che si spense quasi nello stesso momento
in cui il cane lo avventava. Pietro che gli era accanto, non si
spaventò, guardò il cane fissamente e disse queste parole:
- «Fermati, fratello, guardiamoci negli occhi».
Il cane rimase immobile, Pietro raccolse la candela, che con un
soffio tornò ad accendersi, ed alla luce esaminò l'animale che si
lasciò accarezzare senza il minimo atteggiamento rabbioso, davanti
allo stupore di don Andrés che a mala pena credeva a ciò che i suoi
occhi vedevano. Pietro prese un pezzo di pane dalla sua bisaccia e lo
porse al cane che lo mangiò nella sua mano. Poi lo accarezzò sulla
testa e gli disse:
- «Ricorda, fratello, che dobbiamo essere sempre amici».
E raccontano le cronache che da quel giorno, ogni volta che Pietro
andava a casa, il cane gli correva incontro a riceverlo festosamente,
agitando la coda, e lo accompagnava durante tutta la sua visita,
mettendosi mansuetamente ai suoi piedi quando Pietro si sedeva.
La sua fede era inalterabile, credeva fermamente nell'aiuto
divino... e lo riceveva. Una volta, nel prestare le sue cure ai
convalescenti, trovò che non vi era nulla da mangiare per quel
giorno. Le scarse risorse si erano esaurite e durante quella giornata
non era arrivato nessuno ad offrire qualcosa. I fratelli che lo
aiutavano non vollero preoccuparlo rivelandogli la mancanza di cibo, ma
qualcuno dei pazienti si lamentava per la fame ed allora egli,
conosciuta la situazione, disse:
- «Aspettate, che ora ricorriamo alla Provvidenza».
Si inginocchiò in mezzo alla sala a recitare un Padre Nostro ed
aveva appena terminato la preghiera, quando si sentì bussare e fu
annunciato l'arrivo di un domestico di una ricca famiglia che portava,
per incarico dei suoi padroni, una coscia di montone ed un bel pezzo di
vitella.
Pietro aveva mandato a fare una scultura di Cristo risorto per
collocarla nell'oratorio dell'ospedale, era terminata ed egli non
aveva denari per ritirarla, perciò chiese in prestito sessanta pesos
ad un conoscente, il Dr. Maurizio de Losada, il quale si offrì di
darglieli in cambio di una garanzia.
Pietro non aveva nulla ma promise di provvedere subito, tuttavia non
riuscì ad incontrare nessuno che gli desse qualcosa di sufficiente
valore da lasciare in garanzia del denaro. Ritornò il giorno
seguente, ma portava appena venti pesos che un conoscente gli aveva
donato e pregò il medico che gli procurasse i quaranta rimanenti,
proponendo che sarebbe andato in galera se non avesse pagato il suo
debito. Il medico, ancora diffidente, accettò a condizione che li
restituisse nel termine di otto giorni e Pietro gli promise che li
avrebbe portati non in otto, ma in cinque giorni, altrimenti egli
stesso sarebbe andato a costituirsi. Cosa fece Pietro? Non si sa
con certezza ma è indubbio che pregò ferventemente e che la sua
incrollabile fede gli ottenne che qualcuno andasse a donargli la somma
necessaria, che, dopo due giorni, consegnò al medico usuraio.
Questi, commosso dalla fede e dalla puntualità di Fra' Pietro,
gli donò la metà come aiuto per le sue opere.
Gli anni migliori della vita, Pietro li consacrò al bene del
prossimo per guadagnare anime a Dio. La sua carità si estendeva a
tutti. Ingrandì l'ospedale con un guardaroba ed una dispensa per i
poveri ed è consuetudine, ancora oggi, che la Congregazione
Betlemita segua questa tradizione. Gli abiti che gli davano, se
avevano bisogno di essere accomodati, egli stesso li rammendava e li
rimetteva in ordine poiché diceva che si doveva dare sempre con
dignità.
Coloro che per qualche motivo non potevano andare a chiedergli aiuto
direttamente venivano soccorsi là dove abitavano, così faceva con i
prigionieri nelle carceri, con gli schiavi e con gli infermi negli
ospedali.
L'amore che nutriva verso Dio era tanto grande che gli dava la forza
di soffrire qualsiasi pena o dolore con rassegnazione e pace. Quando
gli chiedevano come facesse a resistere tanto, diceva:
- «Se alcuni uomini patiscono prigionie e fatiche perché sono
debitori verso altri, perché non dovrei patire io uguali pene se sono
tanto debitore verso Dio?».
Se alcune persone gli chiedevano elemosine o qualsiasi altra carità,
supplicandolo per la loro vita o per qualsiasi altro motivo temporale,
le congedava senza soccorrele, dicendo:
- «Andate fratelli, voi non sapete chiedere!»
Se poi domandavano in nome di Dio, egli immediatamente prestava loro
attenzione facendoli riflettere che quella era la maniera giusta di
chiedere.
Raccontano che una volta mentre si recava a fare la sua solita visita
agli infermi dell'ospedale per portare loro un po' di «atol», cioè
una bevanda particolare che considerava un ottimo alimento per i
convalescenti, si fermò prima in una ricca casa dove vi era un
malato. Arrivò frattanto la domestica di una distinta signora del
vicinato a chiedere un po' di atol per la sua padrona, anch'ella
delicata di salute, ma la servetta, che era giovane e civetta, invece
di fare la sua richiesta correttamente e con umiltà, con un sorriso
sfacciato e maliziosamente lo chiese «per amore del suo bel viso».
Pietro trovò la richiesta tanto irrispettosa, che alzò la mano e le
diede uno schiaffo, dicendole che non era quello il modo di chiedere,
perché le richieste dovevano farsi per amore di Dio. Le diede
tuttavia I'atol per la sua padrona, avvertendola che si ricordasse
che sul suo volto portava impresso il segno indicatore che l'amore
verso Dio doveva essere l'unico motivo delle sue richieste.
Sulla pentola di atol si raccontano molte cose, dicono che quella
bevanda bastasse per tutti i malati e che sembrava non avesse mai
fine...
Era una pentola di terracotta, di quelle che da sempre usano le
indigene e la gente di campagna per cucinare, non aveva nulla di
particolare ma con essa si ripeteva costantemente il miracolo della
moltiplicazione dei viveri ed accadevano altri fatti meravigliosi.
Una volta mentre Pietro andava per la strada con la sua pentola sulla
spalla, essendo le strade selciate e forse egli un po' stanco,
inciampò e la pentola rotolò al suolo... tuttavia, come
raccontarono gli abitanti stupiti, la pentola di terracotta non si
ruppe né si sparse in terra una sola goccia di atol.
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