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Dicevamo che la limitatezza della conoscenza umana si riflette nel
linguaggio: non possiamo esprimere quello che le cose sono nella misura
in cui non sappiamo completamente cosa sono. Oltre a ciò, una parola
spesso da rilievo originariamente a solo uno fra molti aspetti che offre
la realtà designata.
E può ocorrere che col passar del tempo questa realtà cambi, evolva
sostanzialmente fino a perdere la connessione con l'etimo della parola
che rimane la stessa.
Questo non ci lascia sbalorditi perché nell'uso quotidiano le parole
vanno perdendo trasparenza: noi diciamo insalata di riso (in Brasile
si parla anche della dolce "insalata di frutta"! - che in italiano
si dice "macedonia di frutta" - perché coinvolge mescolanza) e non
notiamo più che insalata viene da sale.
Dello stesso modo il barbiere oggigiorno quasi non fa più barbe ma
taglia i capelli; come anche la tintoria indica un negozio che provvede
alla smacchiatura, lavatura e stiratura di abiti dove quasi non si
tingono più tessuti; come il cameriere indica più chi serve a tavola
che chi è addetto alla pulizia delle camere; od anche il villano che
dal indicare l'abitante della compagna, il contadino, indica oggidî
la persona rozza, priva di garbo e cortesia; il chauffeur non riscalda
ma dirige la vettura; e neanche per sogno ci verrebbe per la testa
d'associare "capitale", somma di denaro che frutta interesse con
capo (dal lat. caput, capitis).
Se queste incompatibilità non ci causano stranezza, è perché il
linguaggio si è tornato opaco per noi.
E cosî diciamo collare, collaretto, collarino, torcicollo,
capocollo, a rompi-collo (precipitosamente), il rompicollo
(persona sconsiderata), scollare, scarpa scollata (che lascia
scoperto il collo del piede), e non ci accorgiamo che derivano da
collo (perciò l'espressione "portare un bambino in collo"[6]
sembra incomprensibile di primo acchito).
Queste considerazioni sono preliminari importanti allo studio della
gratitudine e delle varie formulazioni che essa riceve nelle diverse
lingue.
Tommaso d'Aquino insegna che la gratitudine è una realtà umana
complessa (e perciò sussegue che la sua espressione verbale sia in
ogni lingua frammentaria: questo o quel aspettogancio è accentuato):
"La gratitudine si compone di diversi gradi. Il primo consiste nel
riconoscere (ut recognoscat) il beneficio ricevuto; il secondo
consiste in lodare e render grazie (ut gratias agat); il terzo
consiste in retribuire d'accordo con le possibilità e secondo le
circostanze più opportune di tempo e luogo" (II-II, 107,
2, c).
Questo insegnamento, apparentemente cosî semplice, può essere
rincontrato nei diversi modi con cui le diverse lingue si valgono per
ringraziare: ognuna accentuando un aspetto della multiforme realtà
della gratitudine.
Alcune lingue esprimono la gratitudine prendendola nel primo livello:
esprimendo più nitidamente la riconoscenza di chi ha ricevuto la
grazia. Per di più riconoscenza (come reconnaissance in francese)
è proprio un sinonimo di gratitudine.
In questo senso è estremamente interessante verificare l'etimologia:
nella saggezza della lingua inglese to thank (ringraziare) e to think
(pensare) sono nella sua origine, e non per caso, la stessa parola.
Al definire l'etimologia di thank l'Oxford English Dictionary è
chiaro: "The primary sense was therefore thought"[7]. E nello
stesso modo in tedesco danken (ringraziare) è originariamente denken
(pensare).
Tutto questo è insomma molto comprensibile, poi come tutti sanno,
solo si sente veramente grato chi pensa nel favore che ha ricevuto come
tale.
Solo è grato chi pensa, pondera, considera la liberalità del
benefattore. Quando questo non ocorre, viene il giustissimo
rammarico: "Che mancanza di considerazione!"[8].
Perciò S. Tommaso - facendo notare che il massimo negativo è la
negazione del grado infimo positivo (l'ultima a destra di chi sale è
la prima a sinistra di chi scende...) - afferma che la mancanza di
riconoscenza, l'ignorare, è la suprema ingratitudine[9]: "il
malato che non si rende conto del morbo, non si vuol curare"[10].
L'espressione araba di ringraziamento, shukran, shukran jazylan, si
trova direttamente nel secondo livello: quello di lode del benefattore
e del beneficio ricevuto.
Già la formulazione latina per gratitudine, gratias ago, che si è
proiettata nel italiano grazie, nel castigliano (gracias) e nel
francese (merci, mercè)[11] è relativamente complessa. S.
Tommaso dice (I-II, 110, 1) che il suo nucleo, grazia,
comporta tre dimensioni:
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1) ottenere grazia, entrare nelle grazie, nei favori, nell'amore
di qualcuno che dunque ci fa qualque beneficio;
2) grazia indica anche un dono, qualcosa di non dovuto,
gratuitamente dato, senza merito da parte del beneficiario;
3) la retribuzione, "fare grazie" (render grazie) da parte del
beneficiario.
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Nel trattato De Malo (9,1) si aggiunge un quarto significato di
gratias agere: quello di lode; chi considera che il bene ricevuto
procede da un altro e che deve essere lodato.
Nel ampio quadro che abbiamo mostrato in vista - quello delle
espressioni di gratitudine in inglese, tedesco, francese,
castigliano, italiano, latino ed arabo - rissalta il carattere
profondissimo della forma portoghese: "obrigado".
La formulazione portoghese, cosî incantevole e singolare, è
l'unica a trovarsi chiaramente nel più profondo livello di gratitudine
di cui parla S. Tommaso, il terzo (che naturalmente racchiude in
sé i due anteriori): quello del vincolo (ob-ligatus), del
obbligo, del dovere di retribuire.
Possiamo adesso analizzare la ricchezza che racchiude in sé anche la
forma giapponese per ringraziamento: Arigatô.
Questa rimette ai seguenti significati primitivi: "l'esistenza è
difficile", "è difficile vivere", "rarità", "eccellenza
(eccellenza della rarità)". I due ultimi sensi sopra riferiti sono
comprensibili: in un mondo in cui la tendenza generale è quella
d'ognuno pensare a sé e, se tanto, i rapporti umani si regolano per
la stretta e fredda giustizia, "l'eccellenza" e la "rarità" si
fanno notare come caratteristiche del favore.
Ma "difficoltà d'esistere" e "difficoltà di vivere", a prima
vista niente hanno a che vedere col ringraziamento. Tuttavia S.
Tommaso insegna che la gratitudine deve - per lo meno nell'intenzione
- superare il favore ricevuto. E che ci sono debiti per natura
insaldabili: d'un uomo in relazione ad un altro suo benefattore, e
sopratutto in relazione a Dio: "Che cosa renderò al Signore -
dice il Sal 115 - per quanto mi ha dato?".
In queste situazioni di debito impagabile - cosî frequenti alla
sensibilità di chi è giusto - l'uomo riconoscente si sente in
imbarazzo e fa tutto quello che è alla sua portata (quidquid
potest), tendendo a spandersi in un excessum che si sa
insufficiente[12] (cfr. III, 85, 3 ad 2).
Arigatô si riferisce cosî al terzo grado di gratitudine,
significando la coscienza di quanto difficile diviene l'esistenza (dal
momento in che si è ricevuto tale favore immeritato, e perciò si è
rimasti nel dovere di retribuire, sempre impossibile di
compiere...).
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