LA CONDANNA DI STEFANO TEMPIER E LA “DECLARATIO” DI RAIMONDO LULLO

GIULIO BONAFEDE

Palermo (Italia)

Estudios Lulianos IV(1960)21-44


LA CONDANNA DI STEFANO TEMPIER E LA "DECLARATIO" DI RAIMONDO LULLO

Il 7 marzo 1277 venivano condannate dal vescovo di Parigi, Stefa­no Tempier, 219 proposizioni. L'atto, che avrà lunga eco negli anni successivi, sembra concludere um lungo dramma maturatosi col labo­rioso ingresso della speculazione aristotelica nel mondo cristiano occidentale, ingresso e progressivo incedere invano ritardato dalle condanne, dalle ammonizioni ecclesiastiche, dalla lotta serrata che da parte dei pensatori francescani, da parte tomista, per taluni aspetti, si era condotta. La condanna fu ampia e severa. Numerose dottrine che mettono capo ad Aristotele, Avicenna, Averroè, direttamente o indirettamente, tramite Boezio di Dacia, Sigieri di Brabante, vengono condannate, e il quadro che le proposizioni condannate ci presentano sarebbe più istruttivo per noi se fossero conosciute le opere e gli autori tutti, oggetto di condanna.[1].

Degne di interesse le singole proposizioni, degno di interesse sopratutto lo spirito che anima la condanna. Si aveva l'impressione che non si trattasse soltanto di una lotta puramente dottrinale su pro­blemi indubbiamente importanti ma che non uscissero dalla sfera della cultura. Sembra che siamo di fronte a due concezioni della vita: la vita cristiana da un lato, sostenuta del sacrificio della croce, alimentata dalla speranza in una vita futura; la vita pagana, dall'altro, là quale, dopo um lungo aggirarsi nelle tenebre, finalmente esce alla luce del sole, decisa a misurarsi ancora una volta con l'antica avversaria. Il dissensi tra teolog:i e maestri delle facoltà delle arti avranno potuto alimentare la lotta, le beghe tra i vari ordini religiosi, col clero secolare, avranno anche portato della legna da ardere, ma sarebbe uno sminuire il significato della condanna ridurla ad un clamoroso dissenso in seno alla vita universitaria parigina.

Nè toglie valore alla condanna il fatto che le proposizioni con­dannate sono anonime, che sembrano raccolte in fretta, prive come sono di un ordine sistematico, ricche di ripetizioni, mentre qua e là sembrano riecheggiare punti controversi tra i dottori, qualcuno dei quali, come Enrico di Gand. pur essendo parte in causa, siede tra i giudici. Nè questo valore è sminuito dal fatto che alcune proposizione condannate si riferiscono a Tommaso d'Aquino —condanna tolta suc­cessivamente, come gli storici si premurano di sottolineare—, poichè non si intendeva di certo colpire l'avversario dell'averroismo ma, eventualmente, il pensatore il quale, volendo utilizzare quanto più era possibile del pensiero aristotelico, poteva aver fatto dei passi incauti nel campo avversario. Ma questo, ed altri problemi simili, costituiscono delle questioni di dettaglio. Che la condanna di Stefano Tempier abbia una portata locale, come le analoghe condanne di Roberto Kilwardby, di Giovanni Pecham, sarà anche vero, come sarà anche vero questo, che molte proposizioni condannate potevano anche non esserlo, trattandosi di problemi discussi e discutibili. Ma come si potevano calmare i timori dei teo1ogi sulla pericolose riper­cussioni in campo teologico di dottrine filosofiche, quando le posizio­ni filosofiche sostenute dai teologi che ispirarono la condanna veniva­no giudicate egualmente pericolose dai teologi di parte avversa? Tutto sommato, per tutti quei problemi che sono stati abbandonati agli nomini come oggetto di discussione..., le discussioni sorte a proposito di questa ed altre successive e non meno gravi, anzi pià gravi e dolo­rose condanne, ammoniscono ad agire con spirito di moderazione e prudenza, per dirla con F. Van Steenberghen.

Non interessano le questioni di dettaglio, interessa tener presente la portata storica della condanna, rispetto al passato, rispetto all'im­mediato futuro, interessa tener presente lo stato d'animo che la ispirò. Il Gilson ha acutamente caratterizzato questo stato d'animo: sembra che i teologi si siano trovati di fronte ad un tentativo di rivincita dell'antico paganesimo sulla verità del Vangelo. Questa impressione mi sembra fundata non soltanto sull’esame di alcune proposizioni condannate, ma la si potrebbe giustificare a lungo riandando alla parte sostenuta da qualche pensatore francescano, san Bonaventura, nelle lotte precedenti contro l’'averroismo quando questo movimento fece il suo ingresso trionfale tra i maestri delle arti dopo il 1266. La con­vinzione di san Bonaventura era la seguente: gli errori di cui l'averroismo e pregno annullano la vita cristiana. Ho analizzato altrove questo pensiero, non escludo di dover tornare un giorno più ampiamente sull 'argomento, qui accenno alle affermazioni bonaventuriane. Gli artisti sostengono il valore sommo e l'autonomia della scienza filosofica, ammettono l'eternità del mondo, il fatalismo, l'unicità dell'intelletto. San Bonaventura sostiene: «Claritas scientiae philoso­phicae est magna secundum opinionem hominum mundialium; parva tamen est in comparatione ad claritatem scientiae christianae»; «Phi­losophica scientia via est ad alias scientias; sed qui ibi vult stare cadit in tenebras»; «Multi philosophi, dum se voluerunt dividere a tenebris erroris, magnis erroribus se immiscuerunt; dicentes enim, se esse sapientes, stulti facti sunt; superbientes de sua scientia, luciferiani facti». Nessuna sufficienza viene riconosciuta alla filosofia, anzi viene additato il pericolo che l'uomo chiuda volontariamente gli occhi alla verità. La filosofia separata è un atto di orgoglio, è l'affermazione della sullicienza accordata alla natura umana, alla creatura. Un paga­nesimo così rigoroso neppure tra i pagani veniva ammesso.

Nè minor vigore ha la sua critica agli altri errori prima accennati. “Tres sunt errores cavendi in scientiis, qui sacram Scripturam et fidem christianam et omnem sapientiain exterminant; quorum unus est contra causam essendi, alius contra rationem intelligendi; et tertius contra ordinem vivendi. Error contra causam essendi est de aeternitate mundi, ut ponere mundum aeternum. Error contra rationem intelli­gendi est de necessitate fatali, sicut ponere, quod omnia eveniunt de necessitate. Tertins est de unitate intellectus humani, sicut ponere, quod unus est intellectus in omnibus... Primus error destruit causam essendi...; secundus error... evacuat liberum arbitrium et meritum et praemium...; tertius error est pessimus, qui comprehendit utrumque... Quod iste intellectus sit unus in omnibus, istud est contra radicem distinctionis et individuationis, quia in diversis intellectus habet esse distinctum: ergo habet principia suae essentiae propria et distincta et indîviduantia...; Secunduni errorem secundum nihil est de libero ar­bitrio, nihil valet crux Christi. Secundum tertium non est differentia in merito et praemio, si una est anima Christi et Judae proditoris. Totum est haereticum”[2]

San Bonaventura è convinto della assoluta erroneità della posizio­ne degli artisti, degli averroisti, si diffondé anche nel rintracciare la genesi prima degli errori, genesi che egli pone nella negazione aristo­telica della dottrina dell’essemplarismo. In fondo Aristotele viene ad essere responsabile degli errori degli artisti, degli averroisti. Un Aris­totele, questi, che indubbiamente è diverso dall'Aristotele tanto benignamente presentato, interpretato da san Tommaso, secondo la massima di esporre la autorità benignamente, piamente, interpreta­zione la quale, talora, sostittuiva un pensiero con un altro, forzava i testi in maniera da far dive non quello che l'autore, originariamente, aveva voluto dire, ma quello che il critico aveva interesse a sostenere. Sarà un Aristotele più vicino alla storia, quello bonaventuriano, anche se l'autorità di cui gode Aristotele presso i compagni di fede induce frate Bonaventuva ad adoperare delle espressioni le quali, lette atten­tamente, confermano le accuse nell'atto stesso che sembrano scusare Aristotele.[3]

Ora lo stato d'animo di coloro che stesero la condanna è quello che viene delineato nelle varie collationes bonaventuriane. La vita cristiana è distrutta se trionfa il naturalismo arabo. L'interpretazione del Gilson è quindi storicamente esatta. Viene anche giustificata dall'esame delle proposizioni condannate, da quelle condannate nel 1270, da quelle condannate nel 1277, condanna che riassume e com­pleta la precedente. Quando c'è dei pensatori che sostengono tesi come queste: «Quod non est excellentior status, quam vacare philo­sophiae» (prop. 40); «Quod sapientes mundi sunt pililosophi tantum» (prop. 154); «Quod nihil est credendum, nisi per se notum, vel ex per se notis possit declarari» (prop. 37); queste affermazioni manifes­tano un esplicito razionalismo. L'atteggiamento dell'averroista pari­gino che sostiene essere vere le sue affermazioni secondo la filosofla, anche se non sono tali secondo la fede, atteggiamento da cui scaturità la cossì detta dottrina della doppia verità, sembra impallidire di fronte alle audaci affermazioni di questi razionalisti. E se questi errori si inquadrano con altri, di diversa natura, ma non meno gravi, sia che si riferiscano a Dio, alla sua conoscenza (per es. questo: «Quod Deus non cognoscit alia a se» , (prop. 3), o alla sua azione creativa (per es. questo: «Quod ab uno primo agente non potest esse multitudo effec­tuum», (prop. 44); o anche quest'altro: «Quod primum non potest aliud a se producere; quia omnis differentia, quae est inter agens et factum, est per materiam», (prop. 55); si riferiscano alI'uomo, alla struttura della sua potenza intellettiva (per es. questo: «Quod intel­lectus non est forma corporis, nisi sicut nauta navis, nec est perfectio essentialis hominis», prop. 7; o anche quest' altro: «Quod substantia animae est aetema; et quod intellectus agens et possibilis sunt aeterni», prop. 109), o alla operazione della sua intelligenza (per es. ques­to: «Quod anima intellectiva cognoscendo se cognoscit omnia. Species enim omnium rerum sunt sibi concreatae. Sed haec cognitio non debetur intellectui nostro, secundum quod nostrum est, sed se­cundum quod est intellectus agens», prop. 115), o all'agire della sua volontà (per es. questo: «Quod voluntas nostra subiacet potestati corporum coelestium», prop.162);... se questi errori, dico, li guar­diamo nel loro insieme, allora trova nuova conferma il senso di peri­colo che i teologi, vigili custodi della verità, ebbero per la vita cristiana. Ripeto, non è mia intenzione sopravalutare la portata del decreto, ma cercare di inficiarlo per qualche problema di dettaglio come se fosse scaturito dalla passione partigiana di un partito, mi sembra troppo. Ci si dimostra uomini di parte nell'atto stesso in cui, per amor di giustizia, si accusa altri di partigianeria.

Si poteve restare impassibili di fronte agli errori precedenti? Non pare neppure, penso, di fronte ad affermazioni come queste: «Quod lex christiana impedit addiscere» (pro. 175) affermazioni propria di un iluminista, o anche quest'altra: «Quod fabulae et falsa sunt in lege christiana, sicut in aliis» (prop. 174), di cui conseguenza è quest'altra: «Quod sermones theologi fundati sunt in fabulis» (prop. 152). Queste tesi, siano esse frutto di insegnamento pubblico o clan­destino, si desumano da accenni più o meno sapientemente velati, da forme di vita realmente vissute, non urtavano soltanto la suscetti­bilità del teologo nei riguardi dell'artista, non colpivano soltanto la teologia di ispirazione francescana, ma la teologia senz'altro. In una concezione della realtà in cui la teologia era considerata regina delle scienze, in cui la teologia si considerava fondata sulla parola rivelata, l'affermazione che le discussioni dei teologi erano frottole, doveva singolarmente aprive gli occhi sulla evoluzione dei tempi. Ogni inter­pretazione attenuata dell'aristotelismo non poteva non essere respin­ta, il tentataivo di distinguere tra i pvincipii dell'aristotelismo e le conseguenze che ne avevano tratte o Aristotele stesso o gli arabi in genere o gli attuali maestri, doveva essere repinto come uma ingenuità. L'asprezza della lotta condotta da parte francescana, se la si vuole apprezzare nel suo giusto valore, deve essere considerata alla luce di queste affermazioni. Il naturalismo aristotelico mostra qui il suo volto, chi intende cristianizzare Aristote1e, rischia di farsi pagano.

Non c’è ordine nelle proposizioni condannate, c'è anche delle ri­petizioni, variazioni dello stesso motivo. Indubbiamente. Le opere di più artefici non sempre riescono perfette come le opere di un solo artefice, sopratutto quando coloro che agiscono non si prefiggono di fare delle opere d'arte. Si trattava qui di perseguire l'errore, errore che si annidava velandosi sotto espressioni diverse, in opere diverse, forse anche dedotto, talora, da vivaci discussioni. Si colpisce l'espressione errata in se stessa, non ci si preoccupa se essa è implicitamente condannata in un’altra simile. Sarà stata anche colpa della fretta, nessuna difficoltà a concederlo, con cui, così affermano, la lista delle proposizione condannate fu compilata. Ma che in questo lungo elenco ci siano dei capisaldi che illuminano le singole proposi­zioni condannate e danno quindi unità al decreto, questo è pur vero, una unità quale è compatibile dall'esame stesso degli errori, delle proposizioni sospette, esame rivolto ora a singole opere, a determi­nati autori (sembra, oltre ad un Andrea il Cappellano, Sigieri, Boe­zio), ora invece sembra riferito ad un movimento complesso più che ad una singola persona, una volta che alcune proposizioni si annulla­no a vicenda e quindi non possono essere state sostenute da uno stes­so autore.

Questi capisaldi sono costituiti dalla lotta contro il determinismo della volontà, determinismo che assume varie forme sostenuto come è da pensatori arabi e da pensatori cristiani, affermando gli uni che l'atto del volere è deteminato dalle influenze celesti o dalla natura del giudizio della ragione o dalla forza dell'oggetto desiderato..., af­fermazioni le quali concordano almeno in questo, nel disconocere la libertà della volontà, il suo potere di autodeterminarsi, pur essendo diversissime le ragioni degli uni e degli altri. E nessuna meraviglia che i pensatori arabi negassero la libeasrtà nell'uomo quando questa viene disconosciuta in Dio. In Dio coincidono realtà, intelligibilità, necessità: per questo il mondo è etemo, Dio non può non produrlo, e non può produrlo che quale esso è. Da Dio, che è uno, emana un solo effetto a lui simile, la molteplicità degli effeti richiede una molteplicità di cuase concatenate l'una con l'altra. «Quod effectus immediatus a primo debet esse unus tantum et simillimus primo» (prop. 64); «Quod ab uno primo agente non potest esse multitudo ef­fectuum» (prop. 44); «Quod primum principium non potest esse cau­sa diversorum factorum hic inferius, nisi mediantibus causis eo quod nullum trasmutans diversimode trasmutat, nisi trasmutatum» (prop. 43); «Quod Deum necesse est facere, quidquid immediate fit ab ipso» (prop. 20). Il determinismo arabo imprigiona in una stretta mortale l'uomo perchè la stessa catena stringe la natura tutta e il suo principio. Possiamo ancora meraviglirarci se i pensatore francescani affermano che nulla di comune c’è tra il Dio che liberamente opera, che salva, che redime, e la causa prima altrui? La vita cristiana è distrut­ta, affermano, e non può non essere così. Non c'è posto per la libertà dell'atto creativo, non c'è posto per l'incarnazione, per un piano provvidenziale. E come se questi errori non bastassero, ecco negare valore alla persona, ecco togliere all'uomo l'individualità dell'atto dell'intendere, del volere, con la dottrina della unicità dell'intellctto. Aveva ben visto san Bonaventura lo stretto nesso che univa tutti gli errori della filosofia araba. L'utilizzazione di qualche aspetto di ques­ta specuIazione, di qualche particolare dottrina non poteva avveenire mantenendo immutati i suoi principii, i suoi schemi, ma spezzando tutto il suo organismo. Àverroè, Avicenna, Aristotele nello sfondo del quadro ideologico, nella vita poi la celebrazione della attività filosofica come la più alta delle attività umane dal punto de vista speculativo, mentre nella vita pratica, giustificata la. mortalità dell’anima, la necessità e irresponsabilità dell’agire umano, si poteva giustificare ogni valore ed ogni disvalore. Accanto alla affermazione della virtù umana; naturaIisticamente concepita: «Quod non sunt possibiles aliae virtutes, nisi acquisitae, vel innatae» (prop. 177); «Quod omne bonum, quod homini possibile est, consistit in virtutibus intellectua­libus» (prop. 144), attività che sembra trovare il suo fastigio nello studio della massima disciplina, la filosofia: «Quod non est excellen­tior status quam vacare philosophiae» (prop. 40), c'è l'affermazione esplicita della negazione della virtù cristiana: «Quod felicitas habetur in ista vita, et non in alia» (prop. 176), il disprezzo della fede: «Quod de fide non est curandum, si dicatur aliquid esse haereticum, quia est contra fidem» (prop. 16) , della preghiera: «Quod non est orandum» (prop 180), delle virtù cristiane, tra cui l'umiltà: «Quod humilitas, prout quis non ostendat ea quae habet, sed vilipendit et humiliat se, non est virtus» (prop. 171).

Nessuna meraviglia per queste deduzioni e forse anche per delle deduzioni più esplicite. La ragioine umana è luce a se stessa, non ha bisogno di una luce superiore, ha in sè la sua forma definitiva. Per questo il filosofo è luce a se stesso, e non c'è problema su cui non si pronunzia di diritto: «Quod nulla quaestio est disputabilis per ratio­nem, quam philosophus non debeat disputaare et determinare, quia rationes accipiuntur a rebus. Philosophia autem omnes res habet considerare secundum diversas sui partes» (prop. 145), per questo la teologia in nulla illumina la mente: «Quod nihil plus scitur propter scire theologiam» (prop. 153). E dire che non senza fondamento, se la storia della filosofia ci ha dato qualche insegnamento, non senza fondamento, dico, mi sembra essere questa conclusione: gli errori fi­losofici fondamentali possono ricondursi ad errore teologici, non bne si è sentito della mente umana perchè non bene si è pensato della mente divina. Ma di tutto questa neppure il sospetto nella mentalità di alcuni maestri delle arti o, comunque, degli autori delle afferma­zioni che commentiamo. Sembra si possa avanzare questo sospetto: non è una ragione teoretica a condurli a queste affermazioni. Si vive una vita, la quale, sempre, se ne abbia o no consapevolezza, realizza una forma di morale, se ne tenta La morale na­turalistica è li a giustificare questa forma de vita., l’abbia o no ispirata. Ma, sia che la giustifichi, sia che la ispiri, essa ha manifestata la sua vera natura, non può più nascondere il suo volto.

Non si nega quindi che c'è della disorganicità nella enumerazione delle tesi, e bene ha fatto il p. Mandonnet a tentarne una esposizione organica, esposizione che ne agevola l'esame, non si nega neanche che c'è ripetizioni, cose che si possono diversamente spiegare, o per­chè parecchi furono i revisori e ciascuno aveva un determinato gruppo di opere, o perchè si tendeva, si aveva interesse a denunziare le pro­posizioni giudicate erronee in se stesse, indipendentemente dal fatto che fossero simili o identiche ad altre proposizioni egualmente con­dannate. Tutto questo riguarda sempre questioni di dettaglio, di tec­nica.m Ma il problema che non deve trascurarsi è quello fondamentale: le concezioni erronee furono denunziate non per spirito di parte, per livore di alcuni maestri contro altri maestri, ma principalmente per questo, perchè negavano un complesso di verità fondamentali per la vita cristiana. Questa la mia impressione.

* * *

La Declaratio del Lullo o Liber contra errores Boetii et Sigeri, scritta nel 1297, ha una duplice importanza. Da un lato ci presenta il pensiero del Lullo su numerosi problemi una volta che, per com­battere quelli che egli giudica errori, espone la soluzione che giudica vera; dall'altro ci presenta alcuni problemi i quali hanno una impor­tanza metodologica notevolissima, problemi che costituiscono i capi­saldi di tutto il suo argomentare. La soluzione dei problemi particolari, anche quando presenta delle analogie con la soluzione altrui degli stessi problemi, assume nel Lullo un particolare aspetto proprio in grazia di quei problemi metodologiciche costituiscono l’ossatura di tutta la dimostrazione. Il chiarimento di tale aspetto del pensiero del Lullu à allora necessario, tanto più che lo stesso autore premette all'esame delle singole proposizioni condannate l’enunciazione del suo metodo di indagine, l'affermazione di alcune verità programmatiche, verità mai smentite, verità confermate nelle indagini successi­ve, verità assunte come criteno per valutare la soluzione di tanta parte della sua problematica.

1) Che rapporto pone il Lullo tra le potenze conoscitive? quale è il loro valore?

2) Che rapporto pone tra fede e ragione? quale significato hanno le sue ragioni necessarie?

3) Che rapporto pone tra le dignità divine? quale è la loro fun­zione nelle soluzioni dei problemi più ardui della speculazione del Lullo?

La stessa realtà è oggeto di più potenze conoscitive: senso, immaginazione, intelletto, la differ-enza tra queste potenze dipende dal grado minore o maggiore di penetrzazione della essenza di questa stessa realtà. L’immaginazione trascende il senso, l’intelletto trascende il senso e l’immaginazione, comprendendo ciascuna potenza quel­l'aspetto della realtà che la potenza inferiore coglie e oltrepassandolo. C'è anche di più. Non soltanto l'immaginazione oltrepassa il senso, e l'intelletto oltrepassa l'immaginazione, ma lo stesso intelletto tra­scende se stesso, in quanto ha consapevolezza di non esaurire la realtà. Ma quest’ultimo passaggio richiede un aiuto superiore, quello della la grazia divina. Nella dimostrazione, quindi, chi si ferma al portato del senso o della immaginazione, non è in grado di cogliere il vero, ma neppure lo coglie colui il quale considera l’intelligenza umana comecriterio assoluto del vero stesso È la dimostrazione «de punc­tis transcendentibus», o «de excessu quem alia potentiarum hominis habet supra aliam, aut aliquando supra se ipsam»,[4] che il nostro pensatore utilizza, dimostrazione la quale ha legami strettissimi col secondo dei due problemi: fede e ragione, o teologia e filosofia. «Est et alius modus punctorum trascendentium, videlicet cum intellectus mediante gratia dei supra se ipsum transcendit et in se ipso veritatem primae causae et eius operationem attingit, quam tamen in se ipso, videlicet in sua natura, intelligere non potest».[5]

Siamo così al secondo dei duee problemi del Lullo. Scopo della sua speculazione è, ancora una volta, l'intelligenza delle verità della fede, nia questa intelligenza è condizionata dalla adesione alla fede, dalla precedenza della fede stessa. Qualunque sia il valore delle di­mostrazioni lulliane, la fede resta sempre um presupposto dell’intendere, e l’antico motto di Isaia: nisi credideritis non intelligetis, ancora una volta à l’insegna della sua speculazione. «Adhuc dico tibi, quod fides est necessaria ad intelligendum veritates dei, quoniam in prin­cipio in quo intellectus ipsas investigat, supponit per fidem, quod ipsas aattingere possit et invenire non sicut comprehendens, sed sicut apprehendens, et hoc intellectus facere non posset, si se habitu fldei in principio investigationis non indueret iuvante tamen gratia dei».[6]

La ricerca della verità è opera di pura ragione per l'averroista, è opera della ragione sostenuta dalla fede per il filosofo cristiano, ma se delle verità della fede se ne occupa la teologia, è chiaro che la speculazione filosofica dipenderà dalla teologia come l'effetto dipen­dc dalla causa. La teologia effettivamente viene considerata da Lullo come «domina philosophiae, mater atque speculum in quo intellectus humanus summam virtutem, nobilitatem, veritatem, bonitatem, po­testatem, sapientiam et ceteras dignitates primae causae cognoscit at­que operationem quam ipsa habet in se et in effectu suo, videlicet in mundo et in omnibus partibus eius».[7] Ora si noti: in quanto ai occupa della parola divina e ci indica il nostro fine ultimo, la teologia è superiore alla scienza filosofica, la quale si occupa degli effetti, ma la supera anche per questo, che la stessa scienza delle cose naturali richiede la conoscenza di verità superiori che l'intelletto, da sè, non può conoscere. Il filosofo credente potrà allora acquistare una cono­scenza delle verità naturali più sicura mediante l’aiuto della fede «Idcirco dicit quidam sapiens, quod ingrediens ad scientiam philoso­phiae per habitum fidei potest in breviori tempore esse philosophus et habere magnum intellectum quam ille qui ingreditur ad ipsam sine habitu fidei»[8]. La conoscenza dell'effetto richiede la conoscenza della causa, l'errore filosofico dipendi da un errore teologico.

Precede la fede, i è detto. Il pensatore credente, l'apologista, non si limita a credere, non invita a cambiare una fede per un' altra fede, si sforza di acquistare l’inteligenza delle verità della fede. Questo ascendere che l'intelletto fa sopra se stesso è constantemente sostenuto dalla fede stessa in modo che questa viene cosiderata come linfa que alimenta il ragionamento, la luce che lo illumina, il pun­to di riferimento cui fare appello tutte le volte che il ragionamento si smarrisce. E che cosa vuole intendere la ragione? Certo le verità stes­se a cui crede, ma questa intelligenza, anche se vuole essere rigorosa tanto da affermare che ricerca ragioni necessarie delle stesse verità di fede, in fondo limita la portata delle sue affermazioni notanto che delle verità divine non è possibile una dimostrazione «per causas», o «propter quid», e neppure una «demonstratio palpailis sicut de rebus sensualibus»; tuttavia questa dimostrazione è tale da abbattere le obiezioni degli avversari, mentre essa non viene scalfita dalle loro obiezioni, traendo tutta la sua forza razionale da quel complesso di verità che la fede comunica all'intelletto. Il problema delle «rationes necessaria» non ha senso alcuno per il nostro pensatore se si toglie all'intelletto il sostegno della fede, l'essere, il nostro intelletto, ele­vato su un piano superiore proprio per l'atto di fede che offre delle verità da credere prima, da intendere poi intelligenza che si riferisce più alla esistenza che alla essenza delle stesse verità. Questa forza dimostrativa il ragionamento umano la trae non soltanto dall'atto di fede in quanto tale, atto di fede considerato come uno strumento perchè l'atto stesso dell'intelligenza si esplichi, ma anche dalla luce superiore che le stesse verità divine manifestano all'intelletto. La ra­zionalità maggiore, la divina, illumina la razionalità minore, la luce infinita potenzia la luce finita.

Questa illuminazione, questo potenziamento che la razionalità fi­nita riceve, pur avendo ricevuti stimoli, sollecitazioni dalla tradizione anselmiana e vittorina, si concreta in un atteggiamento tipicamente lulliano. Comunque le verità oggetto di dimostrazione si riferiscano a Dio in se stesso considerato o nei suoi rapporti con le creature, esse mettono capo ad un problema il quale, anche se il Lullo ricevette suggestioni da dottrine precedenti, viene formulato e applicato in maniera caratteristica nella sua speculazione in modo da costituire un tema ricco di applicazioni sorprendenti. Siamo così pervenuti al terzo problema metodologico del Lullo, quello delle dignità divine le quali danno luogo ad una tipica domstrazione, quella detta «per aequiparantiam».

Torniamo ancora una volta al rapporti tra le potenze conoscitive,­tra filosofia e teologia. Il Lullo è convinto che l’intelletto è superiore al senso e alla immaginazion, che questa nostra potenza conoscitiva sai suscettibile di costruire una scienza superiore e più vera una volta che pûo accogliere in sè delle forme superiori, spirituali, divine. Quanto più elevato è l'oggetto che riceviamo, di cui è suscettibile la nostra potenza conoscitiva, più elevata e pià vera è la scienza che noi costruiamo. C’è quindi un procedere ordinato nel nostro conoscere. Per gli oggetti, sensibili, presenti, è sufficiente il senso e l'intelletto, anche se più elevata è la funzione dell'intelletto una volta che il senso, per es. l'udito, si limita a cogliere il suono delle parole pronunziate, mentre l'intelletto ne coglie il significato spirituale; per gli og­getti assenti o, comunque, non reali, l'immaginazione presta il suo aiuto all'intelletto, per le realtà spirituali invece l'intelletto non può essere aiutato dalle potenze inferiori perchè l'intelligibilità, la spiritualità non viene in modo alcuno colta da esse. L 'agostinismo peren­ne si manifesta nel Lullo ancora uma volta: non tutta la nostra cono­scenza è attinta dal senso, l'empirismo radicale è battuto. Il che non significa negare l'utilità del senso anche per la costruzione di una scienza superiore, non implica disconoscere la sua strumentalità per lo sviluppo della nostra spiritualità, per la nostra elevazione. Se il mondo tutto è uno specchio della trinità creatrice, lo comprendiamo con l'intelletto, tuttavia l'occasione, lo stimolo, lo strumento di questa conoscenza è il senso.

L'intelletto è apperto all'intelligibile, allo spirituale, l'esperienza della fede offre all’intelletto nuova materia di conoscenza, nuovi metodi di dimostrazione. La filosofia separata mostra qui tutta la sua deficienza. Traendo dal senso, dalla immaginazione tutta la materia della sua conoscenza, ignora tutto un mondo superiore di conoscenza. C'è di più, la stessa conoscenza delle cose sensibile, ignorandosi la natura della, risce imperfetta, mentre la conoscenza della causa chiarisce la natura degli effetti. La teologia non solo manifesta la sua superiorità sulla filosofia, ma possiamo dire che è proprio la rivelazione che salva l’intelletto nel suo stesso esercizio. «Subiectum philosophiae est relatio causae et effectus, scilicet quod philosophus debet mvestigare per effectum causam et per causam effectum; et in­vestigatio quae fit per catisam verior et nobilior est quam investigatio quae fit per effectum. Verumtamen altior gradus investigationis est et nobilior ille qui fit per theologiam, theologo considerante deum simpliciter secundum se; scilicet operationem suam intrinsecam, quam deus habet in se ipso ratione suae bonitatis, magnitudinis, aeternitatis, potestatis, sapientiae, voluntatis, virtutis, veritatis, gloriae et perfectionis. Et sic considerando theologus considerat rationes infinitas, et per consequens actus infinitos; et de tali materia tibi dicere potero de do plura et alta, et de aeternitate, si tu vis per fidem supponere in principio, sine qua suppositione intelligere alta de deo non potes... Unde cum in altiori gradu consistat consideratio theolo­giae quam consideratio philosophiae, debent quaestiones theologiae per rationes disputari sive naturales sive supra cursum naturalem miraculose, et per auctoritates sanctorum, attingentes per fidem verita­tes et secreta de deo et de sua operatione, quam habet intrinsece et extrinsece immediate, deo scilicet agente in effectu suo immediate»[9].

Ora è proprio la teologia che ci illumina sul problema delle digni­tà divine, ossia sul problema della vera natura di Dio, sulle sue ope­razioni, sugli stessi effetti di queste dignità. La mente si orienta in un mondo in cui il dover essere del suo ragionamento, cioè il suo ar­gomentare per rationes necessarias, poggia tutto non soltanto sulla verità del suo oggetto, ma sulla necessità intrinseca che la verità di questo oggeto manifesta. C'è una vita intimsa in questo oggetto, c'è dei rapporti, delle relazioni che hanno una loro necessità, un loro dover essere, e il ragionamento umano allora è nel vero quando comprende questa necessità, quando coglie questi rapporti nel loro dover essere, quando sa che non è possibile che la cosa sia diversa­mente.

Quali sono dunque queste dignità divine? quali rapporti il Lullo pone tra di esse? quale luce esse diffondono nella soluzione dei più ardui problemi? E poi ancora: riguardano esse la vita estrinseca o an­che la vita intriseca di Dio? Qualt è la via per cui la mente le sco­pre? Nella dimostrazione la mente si serve soltanto di queste dignità o fa appello ad altri principii?

Le dignità divine costituiscono gli attributi divini, le perfezioni divine. Appunto perchè tali non possono considerarsi dei semplici concetti umani sforniti di oggettività, di verità, hanno invece il mas­simo di valore, di verità, uma volta che a Dio si possono attribuire soltanto qualità che designano perfezioni positive e in sommo grado. Che la mente ne tenti una enumerazione e parta anche dalla conside­razione delle cose sensibili, andando così dagli effeti alla causa col procedimento induttivo o ascensus intellectus, non deve trarci in inganno. Il fatto che una perfezione, limitata, c’è nell’effeto, implica che la stessa perfezione, illimitata, ci sai nella causa, illimitata, infinita quindi, in tutta la sua pienezza, ma questo significa che le perfezioni divine bisogna ammerterle in Dio non soltanto per spiegare la molteplicità e diversità delle cose create —è la dimostrazione propria dei giudei, dei saraceni, degli antichi filosofi, questa, come il Lullo riconosce—, ma anche per spiegare la vita intima di Dio, quella vita intima che il filosofo ignora, mentre il teologo, o il filosofo che dimostra nella luce della teologia, ben conosce. L'assurdità della posi­zione di coloro che pongono le dignità in Dio solo per spiegare la vita ad extra, appare manifesta con queste altre considerazioni. Le dignità sono qualche cosa di reale in Dio, si identificano tra di loro, si iden­tificano con Dio. Ammettere quindi che queste dignità siano in Dio in quanto Dio há uma attività estrinseca, significherebbe, in fondo, negare uma vna vera pirmalità a Dio rispetto alle sue creature, una volta ché la vita divina sarebbe condizionata dalla vita delle stesse creature, senza dire di altre contraddizioni in cui la mente cadrebbe, per es. questa, essendo Dio infinito, dovrebbe creare creature infinite, cosa che neppure loro ammettono.

La verità è invece questa, che le dignità divine sono dei valori as­soluti, delle perfezioni che designano la stessa vita divina, la stessa natura divina, sai nella sua vita intrinseca sia nella sua vita estrinse­ca, la seconda condizionata dalla prima. In quanto ragioni reali sono dotate di attività, così la bontà è raggionedi ciò che è bene, la grandezza di ciò che è grande, l'eternità di ciò che è eterno, ecc. Se non fossero dotate di attività, dovremmo ammettere che esse sarebbero oziose. La dimostrazione della trinità divina, per es., viene dal Lullo sostenuta in base alla attività di queste ragioni, nuovo argomento che le dignità non si riferiscono soltanto alla attività ad. extra di Dio, ma anche, e principalmente, alla vita divina stessa.[10].

Il Lullo, pur ammettendo che le dignità divine siano in numero infinito, tenta uma enumerazione di quelle che gli sembrano le più fondamentali: bontà, grandezza, eternità, potenza, sapienza, volontà, virtù, verità, gloria, e poi ancora distinzione, concordanza, principio, mezzo, fine, eguaglianza. Le analizza, le giustifica, a noi interessa tener presente questo, che le dignità sono reali da un lato, dall'altro lato esse si convertono, si identificano l'una con l'altra in maniera tale che la grandezza, per esempio, si identifica con la bontà, con la eterntà, e che tutte quante si identificano con l'essenza divina stessa. «In ipso (deo) dignitates sive proprietates antedictae sunt reales, ut per earum realitatem remotae sint a non esse, et cum earum concor­dantia remotae sint a contrarietate, sicut bonitas, quae cum concor­dantia magnitudinis et aliarum remota est a parvitate. Item quod quaelibet illarum dignitatum sive rationum sit in uno et in eodem numero cum alia, sicut bonitas et magnitudo, quae insimul conver­tuntur, et hoc necessario, ut in ipsis non cadat accidents, ita videlicet quod bonitas sit magna per semet ipsam et magnitudo bona per semet ipsam, et sic de aliis»[11]. Su questa eguaglianza delle dignità divine Raimondo Lullo fonda la dimostrazione «per aequiparantiami», la dimostrazione che poggia sulla assoluta eguaglianza delle dignità divine in modo che 1'una è attuosa in maniera tale da non togliere valore, primalità ad un altra dignità, a tutte le altre dignità. La loro egua­glianza e la loro identità numerica costituiscono delle verità che Lullo utilizza nella soluzione di alcune problemi per risolvere obiezioni sottili.

La dottrina delle dignità divine si armonizza e completa con un' altra dottrina, quella che ha per oggetto alcuni principii comuni: concordanza, differenza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggio- ranza, minoranza, eguaglianza, principii comuni i quali regolano i rapporti tra le dignità divine nelle loro operazioni ad intra e ad extra, regolano la vita stessa delle cose create, la loro struttura. Dignità di vine, principii comuni: siamo al centro stesso della mentalità del Lullo, siamo al punto forse più caratteristico, personale, della sua speculazione, trovando esse applicazione per risolvere i problemi che la mente studiosa si pone rispetto alla vita intima di Dio, rispetto alle sue manifestazioni esteriori rette da quella stessa legge, se così la si può chiamare, che regola la vita stessa di Dio nella sua unità di es­senza e pluralità di persone. Se non ci fosse l'eguaglianza delle dignità divine di«ni­tà divme, se l’una potesse operare isolatamente dalle altre, l'armonia della vita dîvina, l'armonia del creato sarebbe perduta. Così la po­tenza, l'eternità, la grandezza, la bontà divine..., non possono mani­festarsi che in quanto l'una si armonizza con l’altra. Ecco perchè viene escluso., per es., che il creato sia infinito o sia eterno.

* * *

Le pagine introduttive che il Lullo scrive quasi come prefazione alla sua Declaratio, hanno grande importanza perchè accennano alle ragioni profonde della sua metadologia. Indubbiamente non sono sufficienti a se stesse, presupponendo, per essere bene intese, altre dottrine e la trattazione degli stessi problemi che il Lullo ha più estessamente fatta, in maniera anche specifica, altrove. Tuttavia ha grande importanza il notare la costanza con la quale i temi cari alla sua mente ricorrono anche in questa opera che è insienie polemica e apo­logetica, scritta in un periodo in cui —siamo nel 1.297— l'averroismo non è ancor spento, e neppure è spenta l’ecco della condanna di Ste­fano Tempier.

É a forma di dialogo quest'opera, un dialogo tra un Socrate, che sostiene la parte del filosofo naturale, e Raimondo, che è il Lullo stesso, il teologo pensoso. É un dialogo che ha molto di fittizio e con un tîlosofo, per giunta, che molto facilmente concede. Per giunta la trattazione, seguendo l’ordine delle proposizioni condannate, non è esente da uno schematismo che ha molto di artificioso e impedisce una trattazione organica dei problemi. Tuttavia l'opera ha il suo va­lore documentando non solo quale importanza a circa venti anni di distanza si attribuiva alla condanna di Stefano Tempier, ma anche il pensiero del Lullo su molteplici problemi, in particolare contro l'averroismo.

Abbiamo visto come l'averroismo venisse considerato nella scuola francescana precedente e anche tra i pensatori che fioriscono in questo periodo —per es. Olivi, Gonsalvo, Scoto—, come di distruttore della vita cristiana. Lullo partecipa di questa mentalità. L'averroista pone la filosofla come la scienza più alta, Lullo considera tale la teologia, l'averroista nega l’immortalitâ dell'anîma, Lullo pone la vera vita ol­tre la morte. Il vero è questo, che il filosofo ignora la vita divina, ignora la vera realtà umana.

Si tratta, per es., della struttura dell’intelletto, della natura umana in genere. L’ averroista sostiene 1’unicità dell’intelletto. Alcune pro­posizioni condannate sono quanto mai esplicite: «Quod intellectus, quando vult induit corpus, et quando non vult non induit corpus materiae» (prop. 8); «Quod intellectus humanus non est actus corporis nisi sicut nauta navis, nec perfectio essentialis hominis» (prop. 7); «Quod deus non posset facere plures animas in numero» (prop. 27); «Quod intellectus est unus numero omnium; licet enim ah hoc corpore separetur, non tamen ab omni» (prop. 32); «Quod substantia animae est aeterna, et quod intellectus agens et possibilis sunt aeterni» (prop. 109). Lullo combatte questa posizione con ardore. L’aver­roismo, ammettendo l’unicità dell’intelletto, distrugge l’uomo, il suo intelletto «unicus » , «indivisibilis» , «spiritua1is», «incorruptibilis», «universalis» , «communis », viene ammesso gratuitamente contro ogni più autentica affermazione, contro ogni più certa, indubbia testimo­nianza della nostra coscienza. «Si tuus intel1ectus, o Socrates, non esset actus tui corporis nec tua perfectio essentialis, plura inconve­nientia inde sequerentur, videlicet quod tu non haberes proprium neque naturalem mtellectum cum quo deum intelligeres, et idem es­set de tua voluntate, quam neque propriam neque naturalem haheres, cum qua deum amares... Adhuc dico tibi, quod tua positio implicat, quod impossibilitas sit possibilitas, quoniam tu intelligis, quod possi­bile est tibi, me et alium intelligere et amare, et de hoc in te experientiam habes, et de hoc etiam, quod tu libertatem habes ad intelligendum et amandum me et alium, quod esset falsum et impossibile, si tu non haberes proprium intellectum cum quo intelligere posses, et propriam voluntatem cum qua posses amare»[12].

L’appello all’esperienza intima, così sistematicamente utilizzata dall’Olivi, viene tesoregiata dal Lullo. Ha fatto appello a questa esperienza per rispondere al settimo argomento degli averroisti, ad essa fa appello per confutare un altro loro errore, il trentaduesimo, che afferma essere necessario porre l’intelletto unico altrimenti non po­tremmo conoscere le verità o proposizioni «generalia». Il Lullo osserva, incidentalmente, che questa conoscenza potrebbe essere raggiunta dal nostro intelletto particolare per una capacità ad esso donata da Dio, ma questa osservazone cede il posto di fronte alla testimonianza della nostra coscienza: gli atti di pensare, ricordare, amare, vo1ere..., sono personali, individuali. «Si ita esset, sicut tu dicis, multa inconvenientia sequerentur, sicut homo, qui se intelligentem non intelligeret, sed intellectus cum homine intelligeret tanquam cum organo. Hoc etiam posset dici de voluntate hominis, quae una esset in omnibus hominibus, et sic de memoria hominum, quod est inconveniens et impossibile et contra experientiam quam habes, quia tu scis, quod libertatem habes intelligendi unum aut alium; et sic de amare et recolere. Sequitur ergo, quod proprium habes intellectum, propriam voluntatem et propriam memoriam, quae sunt potentiae tuae animae, quae est uma pars tui ipsius, et de ipsis agis ad placitum; sed si esset, sicut tu dicis, ita quod esses instrumentum intellectus, et sic de voluntate et memoria, esset tuus intellectus sicut artifex, qui utitur suo instrumento ad placitum, et tu libere non intelligeres, recoleres et amares istum vel illum, quod est falsum, et de hoc experientiam ha­bemus»[13].

L’unicità dell’intelletto distrugge la persona umana, la trasforma, lo aveva fatto notare anche san Tommaso, da soggetto conoscente in oggetto conosciuto. Il Lullo aggiunge, francescanamente, che l’unici­tà dell' intelletto si trarrebbe dietro anche la mortalità dell’ anima, inconcepibile senza la molteplicità e indîvidualità dell’ intelletto, mor­talità la quale sminuirebbe lo scopo stesso della creazione dell’uomo perchè, se scopo della vita è di amare Dio, lo ameremmo durante la vita terrena ma non per l’eternità. Alla grandezza della intelligibilità e amabilità divina non risponderebbe un atto adeguato di conoscere e amare da parte della creatura razionale. «Si intellectus esset unus in omnibus hominibus, resurrectio esset impossibilis, cum non posset esse, nisi essent plures intellectus; sed nos probavimus..., quod erit resurrectio, cum deus sit magis intelligibilis in maiori duratione et actu intelligendi quam in minori, et hoc, quia sua intelligibilitas est magna et non parva; sed si non esset alia vita, deus ageret contra suam maiorem intelligibilitatem et maiorem actum intelligendi, in quantum nollet alliam vitam esse, et sic esset contra se ipsum, quod est impossibilis»[14].

Pensare il contrario implica mettere in contrasto la causa e l’effetto, in fondo pensare male della causa, cioè di Dio, in quanto a Dio risalirebbe il disordine riscontrato nell’effetto. Questo problemia appena accennato si chiarisce con la dottrina delle dignità divine. Lo stesso rapporto che l’intelletto unico, il divino, ha verso l’intelletto umano, lo hanno la bontà, la grandezza verso ciò' che è grande, buono. Come in noi conscerebbe l’intelletto unico, egualmente la bontà opererebbe in noi. Ma questo è contro la nostra esperienza, sappiamo infatti di operare il male, sappiamo di avere in noi la volontà con la quale aderiamo o rifuggiamo dal peccare. «Adhuc dico tibi, quod si esset unus intellectus generalis, esset una bonitas spiritualis generalis, et idem de magnitudini generali, et sic de aliis, cum divina bonitas, et sic de aliis, aequaliter se habeant ad effectum sicut divinus intel­lectus. Et si in omnibus hominbus esset una generalis bonitas spiri­tualis sicut unus generalis intellectus, bonitas generalis faceret quem­libet hominem facere bonum, sicut intellectus faceret quemlibet hominem intelligere, et sic de magnitudine, duratione etc. Unde se­queretur, quod nullus homo libertatem faciendi bonum, magnum etc. haberet, sed esset instrumentum sive organum motum ad bonum etc. Et si homo facit mialum, est motus sic ad malum ab extrinseca gene­rali malitia sicut, quando facit bonum, est motus a generali bonitate; et sic nullus homo libertatem habet resistendi peccato, quod est falsum et impossibile et contra experientiam quam de libertate habemus. Et quia per experientiam habemus, quod homo habet libertatem peccandi, significatum est quod tua ratio inanis est et nulla» [15]

L'averroismo distrugge l’uomo con la dottrina della unicità del­l’ intelletto, spezza la sua vita in due tronconi con la dottrina della doppia verità, vanifica d’altra parte la rivelazione col primato che assegna alla filosofia. Nessuna meraviglia se non ha sentito bene dell’ uomo una volta che non ha bene sentito di Dio. Il bando dato alla teologia ha avuto come conseguenza una serie di errori che si riferi­scono all’uomo, si riferiscono a Dio. In particulare Lullo dimostra che gli errori averroistici su Dio dipendono dalla sconoscenza della vita divina. L’errore, anzi gli errori che si riferiscono alla creazione, quale viene ammessa dagli averroisti, ne sono un documento evidente.

Che cosa pensa il filosofo aristotelizzante su Dio, sulla derivazione delle cose? Senza neppure tentare di ridurre ad unità di sistema le molteplici tesi che il Lullo esamina, soffermandoci su alcune di esse tra le più caratteristiche, diciamo che questo pensatore (uno o piû nella storia, non importa a noi in questo momento la paternità delle singole dottrine) afferma che in Dio non c’è una vita intima —la vita trinitaria— («Quod Deus non est trinu et unus, quoniam trinitas non stat cum summa simplicitate» (prop. 1); «Quod Deus non potest ge­nerare sibi similem. Quod enim generatur, ab aliquo habet principium, a quo dependet. Et, quod in Deo generare non esset signum perfec­tionis» (prop. 2); nè una conoscenza delle cose diverse da lui, sogget­te come esse sono alla mutazione («Quod deus non cognoscit alia a se» (prop. 3); nè libertà nell’atto creativo («Quod Deum necesse est facere, quidquid immediate fit ab ipso» (prop. 53); «Quod Deus est aeternus in agendo et movendo, sicut in essendo; aliter ab alio determineretur, quod esset prius» (prop. 51); nè possibilità di tutto poter produrre direttamente o creare diversamente di come ha creato o crea («Quod Deus non potest esse causa novi facti, nec potest aliquid de novo producere» (prop. 48); «Quod prima causa non potest plures mundos facere» (prop. 34); «Quod ab uno primo agente non potest esse multitudo effectum» (pvop. 44); «Quod mundus est aetemus..., et quia est a potentia dei infinita, et impossibile est novatione esse in effectu sine inovatione in causa» (prop. 87)...

Lullo combatte l’ eternità del mondo, nega la neccessità nell’ atto creativo, respinge ogni sorta di determinismo. La creazione è un atto di sovrana liberalità divina, è una espansione del bene, è una mani­festazione contingente che poteva essere diversa di come è, che po­trebbe ancora manifestarsi in forme nuove, addirittura in una plura­lità di mondi, se così volesse. Il creato è assolutamente contingente. E come è contingente, cosi è temporale. Le polemiche prò o contro la temporalità della creazione avevano suscitato lotte infinite. Il Lullo prende posizione contro l’eternità della creazione ma la molteplicità degli argomenti che nella scuola francescana precedente venivano ar­recati, assumono in Lullo una nota personale perchè il problema viene chiarito nella luce della dottrina delle dignità divine. I filosofi hanno errato perchè hanno ignorato tale dottrina.

Infatti hanno in primo luogo negato una vita intima a Dio, ed essendo assurdo porre un Dio ozioso, hanno creduto poter così giu­stificare l’eternità della creazione. Il filosofo dimostra così di non es­sersi saputo elevare al vero concetto della divinità, ignora cioè che in Dio c’è una potenza attiva sempre in atto, mai oziosa, rispetto al potere, all’ intelletto, alla volontà. «Tu non consideras operationem intrinsecam, quam deus habet in se, qui habet potentiam activam, ut suae rationes magnae existant per agere, scilicet per magnum actum infinitum, sicut divina potestas, quae habet posse infinitum de se ipsa, et de sua bonitate, magnitudine, aeternitate etc. Et sic de divino intellectu, qui habet intelligere infinitum intelligendo infinitam bonitatem et infinitum bonificare, et infinitam magnitudinem et infinitum magnificare, et infinitam aeternitatem et infinitum aeternare, et infinitam potestatem et infinitum posse, et idem de divina voluntate, et hoc in divinis de neccessitate, ut Deus de suis rationibus non sit sim­pliciter otiosus. Sequitur ergo, quod deus habet potentiam activam existendo et agendo ab aeterno et in aeterno et per infintatem, ut dictum est»[16].

La creazione è una espansione di una vita la quale ha la propria attualità, la propria prfezione intrinseca, e questa espansione trova la sua radice non nella indigenza divina, ma nella ricchezza divina, e trova il suo limite nella finitezza delle realtà create che non possono accogliere in sè la pienezza della perfezioni divine, e trova ancor la propira armonia nella eguaglianza delle dignità divine. Infatti queste non sono oziose nè rispéto alla vita intima di Dio nè rispetto alla sua vita estrinseca, ma il loro operare trova la perfezione nel rapporto che lega le dignità divine tra di loro e rispetto all’ essenza divina nella quale tutte si identificano. I problemi della finitezza della creazione e della temporalità della creazione stessa vengono infatti giustificati fa­cendo appello alla dottrina della «aequiparantia».

Le divine dignità operano in modo che l’una armonizza la propria operazione con l’operazione dell’altra, quindi non ha senso affermare che la potenza divina può più rispetto alla eternità che rispetto alla bontà. Se la bontà non può comunicarsi infinitamente, neppure l’eternità può communicarsi eternamente, altrimenti mancherebbe la concordia, l’eguaglianza tra le dignità divine, la stessa essenza divina, in cui tutte si identificano, sarebbe in lotta com se estessa, la potenza divina, fondamento delle altre dignità, avrebbe meno potere di qualcuna di esse. Cossa assurda. «Modus productionis de non esse in esse... est totus suspensus et sustentatus in divinis rationibus et in identitate numeri ipsarum»: questa è la legge sovrana della creazione. Se noi ammettiamo l’eternità del mondo, l’armonia tra le divine dignità viene eliminata, ma la disarmonia posta nella causa creatrice creerebbe uma disarmonia anche nell’effetto. Ora l’effetto, finito respetto alla bontà, alla grandezza, come protrebbe ricevere l’eternità? «Adhuc dico tibi, quod divina potestas plus in effectu non potest ratione aeternitatis, quam ratione sui ipsius, sicut divina bonitas, quae plus bonificare non potest quoad aeternitatem quam quoad se ipsam, et sic magnitudine, sapientia, voluntate, virtute, veritate, gloria et perfectione. Sed si mundus sit aeternus, potest esse aeternus per divinam aeternitatem, prout esse aeternus per divinam potestatem, cum sine divina potestate divina aeternitas causare non posset aerternitatem mundi. Sequitur ergo, si mundus est aeternus, quod divina potestas plus potest quoad aeternitatem quam quoad se ipsam, etiam quoad divinam bonitatem, magnitudinem, etc.; et hoc, quia communicat se aeternitati, ut causare possit infinitam durationem. Sed potestas non posset in effectu influere respectu suae ipsius simpliciter infinitam possificationem, cum mundus ipsam recipere non posset. Potest ergo potestas, si mundus sit aeternus, quoad alienam rationem plus quam quoad suam propriam, quod est impossibile, sicut est impossibile, quod intellectus plus possit intelligere quoad voluntatem quam quoad se ipsum et e converso»[17].

Il problema della temporalità della creazione, visto nella luce della dimostrazione «per aequiparantiam divinarum rationum», acquista uma forza insospettata. È uma dimostrazione la quale à propria della ragione sostenuta dalla fede, illuminata da uma superiore conoscenza della natura divina, dimostrazione la quale non perde per questo nulla del suo rigore dimostrativo, della necessità razionale che piega el nostro assenso. La filosofia separata, ancora uma volta, manifesta la sua insufficienza. Gli antichi filosofi conobbero la dimostrazione propter quid —dalla causa all’effetto— e quia —dall’effetto alla causa—, ma non si elevarono alla dimostrazione che poggia sulla «equiparantia» delle ragioni divine. Ecco la causa dei loro errori sul problema della creazione. «Praeterea non sufficeret humano intellec­tui intelligere deum esse et suas rationes praedîctas, nisi intelligeret actus intrinsecos in divino esse, ita videlicet, quod quaelibet ratio habeat in ipso esse actum suum, ut non sit otiosa, sicut iam praedic­tum est, sicut bonificare, quod est actus bonitatis, et magnificare ac­tus magnitudinis, et aeternare actus aeternitatis, et sic de aliis. Et quia in deo omnes rationes sunt idem numero, earum actus sunt idem numero, sicut bonificare, magnificare etc., quae sunt idem nu­mero, et sic sunt rationes per actus realiter, et omnes se habent ad plures actus in illo esse communi sive essentia sive natura quae est deus, et plures actus sunt generare et spirare in divinis personis. Et sic haec omnia sunt necessaria ad cognoscendum deum esse simplici­ter per se ipsum, et in se ipso est ens completum et purus actus bonus, infinitus et aeternus etc. Sed ad talem cognitionem philosophi antiqui non pervenerunt, quia de deo non consideraverunt nisi prop­ter quid et quia secundum relationem causae et effectus, non secun­dum quod in deo est aequiparantia per bonitatem, infinitatem magni­tudinis et aeternitatis etc. »[18]

* * *

L’attività filosofico-teologica nel Lullo non era fine a se stessa. La conoscenza del vero aveva come scopo di accrescere la stessa fede, punto di partenza della indagine, la diffusione sua. La sua apologia si fondava sulla vita vissuta nella luce della verità, ma non rinunziava alla forza della ragione per confutare l’altrui errore. Non potrà l’opera del Lullo giovare anche oggi? L’elemento affettivo e l’elemento razionale erano in lui intimamente solidali, questa pienezza di vita potrà giovare per dar forza alle esigenze del nostro cuore, alle ragioni della nostra ragione. L'agostinismo francescano ha suscitato sempre adesioni per la profonda umanità della sua speculazione, Lullo aggiunge di suo una vita eroica perchè consacrata al servizio del suo ideale, spesa per la sua realizzazione. Il fascino che la sua figura esercita potrà non poco giovare anche a fare apprezzare le sue idee.