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Il 7 marzo 1277 venivano condannate dal vescovo di Parigi,
Stefano Tempier, 219 proposizioni. L'atto, che avrà lunga
eco negli anni successivi, sembra concludere um lungo dramma maturatosi
col laborioso ingresso della speculazione aristotelica nel mondo
cristiano occidentale, ingresso e progressivo incedere invano ritardato
dalle condanne, dalle ammonizioni ecclesiastiche, dalla lotta serrata
che da parte dei pensatori francescani, da parte tomista, per taluni
aspetti, si era condotta. La condanna fu ampia e severa. Numerose
dottrine che mettono capo ad Aristotele, Avicenna, Averroè,
direttamente o indirettamente, tramite Boezio di Dacia, Sigieri di
Brabante, vengono condannate, e il quadro che le proposizioni
condannate ci presentano sarebbe più istruttivo per noi se fossero
conosciute le opere e gli autori tutti, oggetto di condanna.[1].
Degne di interesse le singole proposizioni, degno di interesse
sopratutto lo spirito che anima la condanna. Si aveva l'impressione
che non si trattasse soltanto di una lotta puramente dottrinale su
problemi indubbiamente importanti ma che non uscissero dalla sfera
della cultura. Sembra che siamo di fronte a due concezioni della
vita: la vita cristiana da un lato, sostenuta del sacrificio della
croce, alimentata dalla speranza in una vita futura; la vita pagana,
dall'altro, là quale, dopo um lungo aggirarsi nelle tenebre,
finalmente esce alla luce del sole, decisa a misurarsi ancora una volta
con l'antica avversaria. Il dissensi tra teolog:i e maestri delle
facoltà delle arti avranno potuto alimentare la lotta, le beghe tra i
vari ordini religiosi, col clero secolare, avranno anche portato della
legna da ardere, ma sarebbe uno sminuire il significato della condanna
ridurla ad un clamoroso dissenso in seno alla vita universitaria
parigina.
Nè toglie valore alla condanna il fatto che le proposizioni
condannate sono anonime, che sembrano raccolte in fretta, prive come
sono di un ordine sistematico, ricche di ripetizioni, mentre qua e là
sembrano riecheggiare punti controversi tra i dottori, qualcuno dei
quali, come Enrico di Gand. pur essendo parte in causa, siede tra i
giudici. Nè questo valore è sminuito dal fatto che alcune
proposizione condannate si riferiscono a Tommaso d'Aquino —condanna
tolta successivamente, come gli storici si premurano di
sottolineare—, poichè non si intendeva di certo colpire l'avversario
dell'averroismo ma, eventualmente, il pensatore il quale, volendo
utilizzare quanto più era possibile del pensiero aristotelico, poteva
aver fatto dei passi incauti nel campo avversario. Ma questo, ed
altri problemi simili, costituiscono delle questioni di dettaglio.
Che la condanna di Stefano Tempier abbia una portata locale, come le
analoghe condanne di Roberto Kilwardby, di Giovanni Pecham, sarà
anche vero, come sarà anche vero questo, che molte proposizioni
condannate potevano anche non esserlo, trattandosi di problemi discussi
e discutibili. Ma come si potevano calmare i timori dei teo1ogi sulla
pericolose ripercussioni in campo teologico di dottrine filosofiche,
quando le posizioni filosofiche sostenute dai teologi che ispirarono
la condanna venivano giudicate egualmente pericolose dai teologi di
parte avversa? Tutto sommato, per tutti quei problemi che sono stati
abbandonati agli nomini come oggetto di discussione..., le
discussioni sorte a proposito di questa ed altre successive e non meno
gravi, anzi pià gravi e dolorose condanne, ammoniscono ad agire con
spirito di moderazione e prudenza, per dirla con F. Van
Steenberghen.
Non interessano le questioni di dettaglio, interessa tener presente la
portata storica della condanna, rispetto al passato, rispetto
all'immediato futuro, interessa tener presente lo stato d'animo che
la ispirò. Il Gilson ha acutamente caratterizzato questo stato
d'animo: sembra che i teologi si siano trovati di fronte ad un
tentativo di rivincita dell'antico paganesimo sulla verità del
Vangelo. Questa impressione mi sembra fundata non soltanto
sull’esame di alcune proposizioni condannate, ma la si potrebbe
giustificare a lungo riandando alla parte sostenuta da qualche pensatore
francescano, san Bonaventura, nelle lotte precedenti contro
l’'averroismo quando questo movimento fece il suo ingresso trionfale
tra i maestri delle arti dopo il 1266. La convinzione di san
Bonaventura era la seguente: gli errori di cui l'averroismo e pregno
annullano la vita cristiana. Ho analizzato altrove questo pensiero,
non escludo di dover tornare un giorno più ampiamente sull
'argomento, qui accenno alle affermazioni bonaventuriane. Gli
artisti sostengono il valore sommo e l'autonomia della scienza
filosofica, ammettono l'eternità del mondo, il fatalismo,
l'unicità dell'intelletto. San Bonaventura sostiene: «Claritas
scientiae philosophicae est magna secundum opinionem hominum
mundialium; parva tamen est in comparatione ad claritatem scientiae
christianae»; «Philosophica scientia via est ad alias scientias;
sed qui ibi vult stare cadit in tenebras»; «Multi philosophi, dum
se voluerunt dividere a tenebris erroris, magnis erroribus se
immiscuerunt; dicentes enim, se esse sapientes, stulti facti sunt;
superbientes de sua scientia, luciferiani facti». Nessuna
sufficienza viene riconosciuta alla filosofia, anzi viene additato il
pericolo che l'uomo chiuda volontariamente gli occhi alla verità. La
filosofia separata è un atto di orgoglio, è l'affermazione della
sullicienza accordata alla natura umana, alla creatura. Un
paganesimo così rigoroso neppure tra i pagani veniva ammesso.
Nè minor vigore ha la sua critica agli altri errori prima accennati.
“Tres sunt errores cavendi in scientiis, qui sacram Scripturam et
fidem christianam et omnem sapientiain exterminant; quorum unus est
contra causam essendi, alius contra rationem intelligendi; et tertius
contra ordinem vivendi. Error contra causam essendi est de aeternitate
mundi, ut ponere mundum aeternum. Error contra rationem
intelligendi est de necessitate fatali, sicut ponere, quod omnia
eveniunt de necessitate. Tertins est de unitate intellectus humani,
sicut ponere, quod unus est intellectus in omnibus... Primus error
destruit causam essendi...; secundus error... evacuat liberum
arbitrium et meritum et praemium...; tertius error est pessimus,
qui comprehendit utrumque... Quod iste intellectus sit unus in
omnibus, istud est contra radicem distinctionis et individuationis,
quia in diversis intellectus habet esse distinctum: ergo habet
principia suae essentiae propria et distincta et indîviduantia...;
Secunduni errorem secundum nihil est de libero arbitrio, nihil valet
crux Christi. Secundum tertium non est differentia in merito et
praemio, si una est anima Christi et Judae proditoris. Totum est
haereticum”[2]
San Bonaventura è convinto della assoluta erroneità della
posizione degli artisti, degli averroisti, si diffondé anche nel
rintracciare la genesi prima degli errori, genesi che egli pone nella
negazione aristotelica della dottrina dell’essemplarismo. In fondo
Aristotele viene ad essere responsabile degli errori degli artisti,
degli averroisti. Un Aristotele, questi, che indubbiamente è
diverso dall'Aristotele tanto benignamente presentato, interpretato
da san Tommaso, secondo la massima di esporre la autorità
benignamente, piamente, interpretazione la quale, talora,
sostittuiva un pensiero con un altro, forzava i testi in maniera da far
dive non quello che l'autore, originariamente, aveva voluto dire, ma
quello che il critico aveva interesse a sostenere. Sarà un
Aristotele più vicino alla storia, quello bonaventuriano, anche se
l'autorità di cui gode Aristotele presso i compagni di fede induce
frate Bonaventuva ad adoperare delle espressioni le quali, lette
attentamente, confermano le accuse nell'atto stesso che sembrano
scusare Aristotele.[3]
Ora lo stato d'animo di coloro che stesero la condanna è quello che
viene delineato nelle varie collationes bonaventuriane. La vita
cristiana è distrutta se trionfa il naturalismo arabo.
L'interpretazione del Gilson è quindi storicamente esatta. Viene
anche giustificata dall'esame delle proposizioni condannate, da quelle
condannate nel 1270, da quelle condannate nel 1277, condanna
che riassume e completa la precedente. Quando c'è dei pensatori
che sostengono tesi come queste: «Quod non est excellentior status,
quam vacare philosophiae» (prop. 40); «Quod sapientes mundi
sunt pililosophi tantum» (prop. 154); «Quod nihil est
credendum, nisi per se notum, vel ex per se notis possit declarari»
(prop. 37); queste affermazioni manifestano un esplicito
razionalismo. L'atteggiamento dell'averroista parigino che
sostiene essere vere le sue affermazioni secondo la filosofla, anche se
non sono tali secondo la fede, atteggiamento da cui scaturità la
cossì detta dottrina della doppia verità, sembra impallidire di
fronte alle audaci affermazioni di questi razionalisti. E se questi
errori si inquadrano con altri, di diversa natura, ma non meno gravi,
sia che si riferiscano a Dio, alla sua conoscenza (per es. questo:
«Quod Deus non cognoscit alia a se» , (prop. 3), o alla sua
azione creativa (per es. questo: «Quod ab uno primo agente non
potest esse multitudo effectuum», (prop. 44); o anche
quest'altro: «Quod primum non potest aliud a se producere; quia
omnis differentia, quae est inter agens et factum, est per
materiam», (prop. 55); si riferiscano alI'uomo, alla
struttura della sua potenza intellettiva (per es. questo: «Quod
intellectus non est forma corporis, nisi sicut nauta navis, nec est
perfectio essentialis hominis», prop. 7; o anche quest' altro:
«Quod substantia animae est aetema; et quod intellectus agens et
possibilis sunt aeterni», prop. 109), o alla operazione della
sua intelligenza (per es. questo: «Quod anima intellectiva
cognoscendo se cognoscit omnia. Species enim omnium rerum sunt sibi
concreatae. Sed haec cognitio non debetur intellectui nostro,
secundum quod nostrum est, sed secundum quod est intellectus
agens», prop. 115), o all'agire della sua volontà (per es.
questo: «Quod voluntas nostra subiacet potestati corporum
coelestium», prop.162);... se questi errori, dico, li
guardiamo nel loro insieme, allora trova nuova conferma il senso di
pericolo che i teologi, vigili custodi della verità, ebbero per la
vita cristiana. Ripeto, non è mia intenzione sopravalutare la
portata del decreto, ma cercare di inficiarlo per qualche problema di
dettaglio come se fosse scaturito dalla passione partigiana di un
partito, mi sembra troppo. Ci si dimostra uomini di parte nell'atto
stesso in cui, per amor di giustizia, si accusa altri di
partigianeria.
Si poteve restare impassibili di fronte agli errori precedenti? Non
pare neppure, penso, di fronte ad affermazioni come queste: «Quod
lex christiana impedit addiscere» (pro. 175) affermazioni propria
di un iluminista, o anche quest'altra: «Quod fabulae et falsa sunt
in lege christiana, sicut in aliis» (prop. 174), di cui
conseguenza è quest'altra: «Quod sermones theologi fundati sunt in
fabulis» (prop. 152). Queste tesi, siano esse frutto di
insegnamento pubblico o clandestino, si desumano da accenni più o
meno sapientemente velati, da forme di vita realmente vissute, non
urtavano soltanto la suscettibilità del teologo nei riguardi
dell'artista, non colpivano soltanto la teologia di ispirazione
francescana, ma la teologia senz'altro. In una concezione della
realtà in cui la teologia era considerata regina delle scienze, in cui
la teologia si considerava fondata sulla parola rivelata,
l'affermazione che le discussioni dei teologi erano frottole, doveva
singolarmente aprive gli occhi sulla evoluzione dei tempi. Ogni
interpretazione attenuata dell'aristotelismo non poteva non essere
respinta, il tentataivo di distinguere tra i pvincipii
dell'aristotelismo e le conseguenze che ne avevano tratte o Aristotele
stesso o gli arabi in genere o gli attuali maestri, doveva essere
repinto come uma ingenuità. L'asprezza della lotta condotta da parte
francescana, se la si vuole apprezzare nel suo giusto valore, deve
essere considerata alla luce di queste affermazioni. Il naturalismo
aristotelico mostra qui il suo volto, chi intende cristianizzare
Aristote1e, rischia di farsi pagano.
Non c’è ordine nelle proposizioni condannate, c'è anche delle
ripetizioni, variazioni dello stesso motivo. Indubbiamente. Le
opere di più artefici non sempre riescono perfette come le opere di un
solo artefice, sopratutto quando coloro che agiscono non si prefiggono
di fare delle opere d'arte. Si trattava qui di perseguire l'errore,
errore che si annidava velandosi sotto espressioni diverse, in opere
diverse, forse anche dedotto, talora, da vivaci discussioni. Si
colpisce l'espressione errata in se stessa, non ci si preoccupa se
essa è implicitamente condannata in un’altra simile. Sarà stata
anche colpa della fretta, nessuna difficoltà a concederlo, con cui,
così affermano, la lista delle proposizione condannate fu compilata.
Ma che in questo lungo elenco ci siano dei capisaldi che illuminano le
singole proposizioni condannate e danno quindi unità al decreto,
questo è pur vero, una unità quale è compatibile dall'esame stesso
degli errori, delle proposizioni sospette, esame rivolto ora a singole
opere, a determinati autori (sembra, oltre ad un Andrea il
Cappellano, Sigieri, Boezio), ora invece sembra riferito ad un
movimento complesso più che ad una singola persona, una volta che
alcune proposizioni si annullano a vicenda e quindi non possono essere
state sostenute da uno stesso autore.
Questi capisaldi sono costituiti dalla lotta contro il determinismo
della volontà, determinismo che assume varie forme sostenuto come è
da pensatori arabi e da pensatori cristiani, affermando gli uni che
l'atto del volere è deteminato dalle influenze celesti o dalla natura
del giudizio della ragione o dalla forza dell'oggetto
desiderato..., affermazioni le quali concordano almeno in questo,
nel disconocere la libertà della volontà, il suo potere di
autodeterminarsi, pur essendo diversissime le ragioni degli uni e degli
altri. E nessuna meraviglia che i pensatori arabi negassero la
libeasrtà nell'uomo quando questa viene disconosciuta in Dio. In
Dio coincidono realtà, intelligibilità, necessità: per questo il
mondo è etemo, Dio non può non produrlo, e non può produrlo che
quale esso è. Da Dio, che è uno, emana un solo effetto a lui
simile, la molteplicità degli effeti richiede una molteplicità di
cuase concatenate l'una con l'altra. «Quod effectus immediatus a
primo debet esse unus tantum et simillimus primo» (prop. 64);
«Quod ab uno primo agente non potest esse multitudo effectuum»
(prop. 44); «Quod primum principium non potest esse causa
diversorum factorum hic inferius, nisi mediantibus causis eo quod
nullum trasmutans diversimode trasmutat, nisi trasmutatum» (prop.
43); «Quod Deum necesse est facere, quidquid immediate fit ab
ipso» (prop. 20). Il determinismo arabo imprigiona in una
stretta mortale l'uomo perchè la stessa catena stringe la natura tutta
e il suo principio. Possiamo ancora meraviglirarci se i pensatore
francescani affermano che nulla di comune c’è tra il Dio che
liberamente opera, che salva, che redime, e la causa prima altrui?
La vita cristiana è distrutta, affermano, e non può non essere
così. Non c'è posto per la libertà dell'atto creativo, non c'è
posto per l'incarnazione, per un piano provvidenziale. E come se
questi errori non bastassero, ecco negare valore alla persona, ecco
togliere all'uomo l'individualità dell'atto dell'intendere, del
volere, con la dottrina della unicità dell'intellctto. Aveva ben
visto san Bonaventura lo stretto nesso che univa tutti gli errori della
filosofia araba. L'utilizzazione di qualche aspetto di questa
specuIazione, di qualche particolare dottrina non poteva avveenire
mantenendo immutati i suoi principii, i suoi schemi, ma spezzando
tutto il suo organismo. Àverroè, Avicenna, Aristotele nello
sfondo del quadro ideologico, nella vita poi la celebrazione della
attività filosofica come la più alta delle attività umane dal punto
de vista speculativo, mentre nella vita pratica, giustificata la.
mortalità dell’anima, la necessità e irresponsabilità dell’agire
umano, si poteva giustificare ogni valore ed ogni disvalore. Accanto
alla affermazione della virtù umana; naturaIisticamente concepita:
«Quod non sunt possibiles aliae virtutes, nisi acquisitae, vel
innatae» (prop. 177); «Quod omne bonum, quod homini possibile
est, consistit in virtutibus intellectualibus» (prop. 144),
attività che sembra trovare il suo fastigio nello studio della massima
disciplina, la filosofia: «Quod non est excellentior status quam
vacare philosophiae» (prop. 40), c'è l'affermazione esplicita
della negazione della virtù cristiana: «Quod felicitas habetur in
ista vita, et non in alia» (prop. 176), il disprezzo della
fede: «Quod de fide non est curandum, si dicatur aliquid esse
haereticum, quia est contra fidem» (prop. 16) , della
preghiera: «Quod non est orandum» (prop 180), delle virtù
cristiane, tra cui l'umiltà: «Quod humilitas, prout quis non
ostendat ea quae habet, sed vilipendit et humiliat se, non est
virtus» (prop. 171).
Nessuna meraviglia per queste deduzioni e forse anche per delle
deduzioni più esplicite. La ragioine umana è luce a se stessa, non
ha bisogno di una luce superiore, ha in sè la sua forma definitiva.
Per questo il filosofo è luce a se stesso, e non c'è problema su
cui non si pronunzia di diritto: «Quod nulla quaestio est
disputabilis per rationem, quam philosophus non debeat disputaare et
determinare, quia rationes accipiuntur a rebus. Philosophia autem
omnes res habet considerare secundum diversas sui partes» (prop.
145), per questo la teologia in nulla illumina la mente: «Quod
nihil plus scitur propter scire theologiam» (prop. 153). E dire
che non senza fondamento, se la storia della filosofia ci ha dato
qualche insegnamento, non senza fondamento, dico, mi sembra essere
questa conclusione: gli errori filosofici fondamentali possono
ricondursi ad errore teologici, non bne si è sentito della mente umana
perchè non bene si è pensato della mente divina. Ma di tutto questa
neppure il sospetto nella mentalità di alcuni maestri delle arti o,
comunque, degli autori delle affermazioni che commentiamo. Sembra
si possa avanzare questo sospetto: non è una ragione teoretica a
condurli a queste affermazioni. Si vive una vita, la quale, sempre,
se ne abbia o no consapevolezza, realizza una forma di morale, se ne
tenta La morale naturalistica è li a giustificare questa forma de
vita., l’abbia o no ispirata. Ma, sia che la giustifichi, sia che
la ispiri, essa ha manifestata la sua vera natura, non può più
nascondere il suo volto.
Non si nega quindi che c'è della disorganicità nella enumerazione
delle tesi, e bene ha fatto il p. Mandonnet a tentarne una
esposizione organica, esposizione che ne agevola l'esame, non si nega
neanche che c'è ripetizioni, cose che si possono diversamente
spiegare, o perchè parecchi furono i revisori e ciascuno aveva un
determinato gruppo di opere, o perchè si tendeva, si aveva interesse
a denunziare le proposizioni giudicate erronee in se stesse,
indipendentemente dal fatto che fossero simili o identiche ad altre
proposizioni egualmente condannate. Tutto questo riguarda sempre
questioni di dettaglio, di tecnica.m Ma il problema che non deve
trascurarsi è quello fondamentale: le concezioni erronee furono
denunziate non per spirito di parte, per livore di alcuni maestri
contro altri maestri, ma principalmente per questo, perchè negavano
un complesso di verità fondamentali per la vita cristiana. Questa la
mia impressione.
La Declaratio del Lullo o Liber contra errores Boetii et Sigeri,
scritta nel 1297, ha una duplice importanza. Da un lato ci
presenta il pensiero del Lullo su numerosi problemi una volta che, per
combattere quelli che egli giudica errori, espone la soluzione che
giudica vera; dall'altro ci presenta alcuni problemi i quali hanno una
importanza metodologica notevolissima, problemi che costituiscono i
capisaldi di tutto il suo argomentare. La soluzione dei problemi
particolari, anche quando presenta delle analogie con la soluzione
altrui degli stessi problemi, assume nel Lullo un particolare aspetto
proprio in grazia di quei problemi metodologiciche costituiscono
l’ossatura di tutta la dimostrazione. Il chiarimento di tale aspetto
del pensiero del Lullu à allora necessario, tanto più che lo stesso
autore premette all'esame delle singole proposizioni condannate
l’enunciazione del suo metodo di indagine, l'affermazione di alcune
verità programmatiche, verità mai smentite, verità confermate nelle
indagini successive, verità assunte come criteno per valutare la
soluzione di tanta parte della sua problematica.
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1) Che rapporto pone il Lullo tra le potenze conoscitive? quale è
il loro valore?
2) Che rapporto pone tra fede e ragione? quale significato hanno le
sue ragioni necessarie?
3) Che rapporto pone tra le dignità divine? quale è la loro
funzione nelle soluzioni dei problemi più ardui della speculazione
del Lullo?
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La stessa realtà è oggeto di più potenze conoscitive: senso,
immaginazione, intelletto, la differ-enza tra queste potenze dipende
dal grado minore o maggiore di penetrzazione della essenza di questa
stessa realtà. L’immaginazione trascende il senso, l’intelletto
trascende il senso e l’immaginazione, comprendendo ciascuna potenza
quell'aspetto della realtà che la potenza inferiore coglie e
oltrepassandolo. C'è anche di più. Non soltanto l'immaginazione
oltrepassa il senso, e l'intelletto oltrepassa l'immaginazione, ma
lo stesso intelletto trascende se stesso, in quanto ha consapevolezza
di non esaurire la realtà. Ma quest’ultimo passaggio richiede un
aiuto superiore, quello della la grazia divina. Nella dimostrazione,
quindi, chi si ferma al portato del senso o della immaginazione, non
è in grado di cogliere il vero, ma neppure lo coglie colui il quale
considera l’intelligenza umana comecriterio assoluto del vero stesso È
la dimostrazione «de punctis transcendentibus», o «de excessu quem
alia potentiarum hominis habet supra aliam, aut aliquando supra se
ipsam»,[4] che il nostro pensatore utilizza, dimostrazione la
quale ha legami strettissimi col secondo dei due problemi: fede e
ragione, o teologia e filosofia. «Est et alius modus punctorum
trascendentium, videlicet cum intellectus mediante gratia dei supra se
ipsum transcendit et in se ipso veritatem primae causae et eius
operationem attingit, quam tamen in se ipso, videlicet in sua natura,
intelligere non potest».[5]
Siamo così al secondo dei duee problemi del Lullo. Scopo della sua
speculazione è, ancora una volta, l'intelligenza delle verità della
fede, nia questa intelligenza è condizionata dalla adesione alla
fede, dalla precedenza della fede stessa. Qualunque sia il valore
delle dimostrazioni lulliane, la fede resta sempre um presupposto
dell’intendere, e l’antico motto di Isaia: nisi credideritis non
intelligetis, ancora una volta à l’insegna della sua speculazione.
«Adhuc dico tibi, quod fides est necessaria ad intelligendum
veritates dei, quoniam in principio in quo intellectus ipsas
investigat, supponit per fidem, quod ipsas aattingere possit et
invenire non sicut comprehendens, sed sicut apprehendens, et hoc
intellectus facere non posset, si se habitu fldei in principio
investigationis non indueret iuvante tamen gratia dei».[6]
La ricerca della verità è opera di pura ragione per l'averroista,
è opera della ragione sostenuta dalla fede per il filosofo cristiano,
ma se delle verità della fede se ne occupa la teologia, è chiaro che
la speculazione filosofica dipenderà dalla teologia come l'effetto
dipendc dalla causa. La teologia effettivamente viene considerata da
Lullo come «domina philosophiae, mater atque speculum in quo
intellectus humanus summam virtutem, nobilitatem, veritatem,
bonitatem, potestatem, sapientiam et ceteras dignitates primae
causae cognoscit atque operationem quam ipsa habet in se et in effectu
suo, videlicet in mundo et in omnibus partibus eius».[7] Ora si
noti: in quanto ai occupa della parola divina e ci indica il nostro
fine ultimo, la teologia è superiore alla scienza filosofica, la
quale si occupa degli effetti, ma la supera anche per questo, che la
stessa scienza delle cose naturali richiede la conoscenza di verità
superiori che l'intelletto, da sè, non può conoscere. Il filosofo
credente potrà allora acquistare una conoscenza delle verità
naturali più sicura mediante l’aiuto della fede «Idcirco dicit
quidam sapiens, quod ingrediens ad scientiam philosophiae per habitum
fidei potest in breviori tempore esse philosophus et habere magnum
intellectum quam ille qui ingreditur ad ipsam sine habitu
fidei»[8]. La conoscenza dell'effetto richiede la conoscenza
della causa, l'errore filosofico dipendi da un errore teologico.
Precede la fede, i è detto. Il pensatore credente, l'apologista,
non si limita a credere, non invita a cambiare una fede per un' altra
fede, si sforza di acquistare l’inteligenza delle verità della fede.
Questo ascendere che l'intelletto fa sopra se stesso è constantemente
sostenuto dalla fede stessa in modo che questa viene cosiderata come
linfa que alimenta il ragionamento, la luce che lo illumina, il
punto di riferimento cui fare appello tutte le volte che il
ragionamento si smarrisce. E che cosa vuole intendere la ragione?
Certo le verità stesse a cui crede, ma questa intelligenza, anche
se vuole essere rigorosa tanto da affermare che ricerca ragioni
necessarie delle stesse verità di fede, in fondo limita la portata
delle sue affermazioni notanto che delle verità divine non è possibile
una dimostrazione «per causas», o «propter quid», e neppure una
«demonstratio palpailis sicut de rebus sensualibus»; tuttavia questa
dimostrazione è tale da abbattere le obiezioni degli avversari, mentre
essa non viene scalfita dalle loro obiezioni, traendo tutta la sua
forza razionale da quel complesso di verità che la fede comunica
all'intelletto. Il problema delle «rationes necessaria» non ha
senso alcuno per il nostro pensatore se si toglie all'intelletto il
sostegno della fede, l'essere, il nostro intelletto, elevato su un
piano superiore proprio per l'atto di fede che offre delle verità da
credere prima, da intendere poi intelligenza che si riferisce più alla
esistenza che alla essenza delle stesse verità. Questa forza
dimostrativa il ragionamento umano la trae non soltanto dall'atto di
fede in quanto tale, atto di fede considerato come uno strumento
perchè l'atto stesso dell'intelligenza si esplichi, ma anche dalla
luce superiore che le stesse verità divine manifestano
all'intelletto. La razionalità maggiore, la divina, illumina la
razionalità minore, la luce infinita potenzia la luce finita.
Questa illuminazione, questo potenziamento che la razionalità
finita riceve, pur avendo ricevuti stimoli, sollecitazioni dalla
tradizione anselmiana e vittorina, si concreta in un atteggiamento
tipicamente lulliano. Comunque le verità oggetto di dimostrazione si
riferiscano a Dio in se stesso considerato o nei suoi rapporti con le
creature, esse mettono capo ad un problema il quale, anche se il
Lullo ricevette suggestioni da dottrine precedenti, viene formulato e
applicato in maniera caratteristica nella sua speculazione in modo da
costituire un tema ricco di applicazioni sorprendenti. Siamo così
pervenuti al terzo problema metodologico del Lullo, quello delle
dignità divine le quali danno luogo ad una tipica domstrazione, quella
detta «per aequiparantiam».
Torniamo ancora una volta al rapporti tra le potenze conoscitive,tra
filosofia e teologia. Il Lullo è convinto che l’intelletto è
superiore al senso e alla immaginazion, che questa nostra potenza
conoscitiva sai suscettibile di costruire una scienza superiore e più
vera una volta che pûo accogliere in sè delle forme superiori,
spirituali, divine. Quanto più elevato è l'oggetto che riceviamo,
di cui è suscettibile la nostra potenza conoscitiva, più elevata e
pià vera è la scienza che noi costruiamo. C’è quindi un procedere
ordinato nel nostro conoscere. Per gli oggetti, sensibili,
presenti, è sufficiente il senso e l'intelletto, anche se più
elevata è la funzione dell'intelletto una volta che il senso, per
es. l'udito, si limita a cogliere il suono delle parole pronunziate,
mentre l'intelletto ne coglie il significato spirituale; per gli
oggetti assenti o, comunque, non reali, l'immaginazione presta il
suo aiuto all'intelletto, per le realtà spirituali invece
l'intelletto non può essere aiutato dalle potenze inferiori perchè
l'intelligibilità, la spiritualità non viene in modo alcuno colta da
esse. L 'agostinismo perenne si manifesta nel Lullo ancora uma
volta: non tutta la nostra conoscenza è attinta dal senso,
l'empirismo radicale è battuto. Il che non significa negare
l'utilità del senso anche per la costruzione di una scienza
superiore, non implica disconoscere la sua strumentalità per lo
sviluppo della nostra spiritualità, per la nostra elevazione. Se il
mondo tutto è uno specchio della trinità creatrice, lo comprendiamo
con l'intelletto, tuttavia l'occasione, lo stimolo, lo strumento di
questa conoscenza è il senso.
L'intelletto è apperto all'intelligibile, allo spirituale,
l'esperienza della fede offre all’intelletto nuova materia di
conoscenza, nuovi metodi di dimostrazione. La filosofia separata
mostra qui tutta la sua deficienza. Traendo dal senso, dalla
immaginazione tutta la materia della sua conoscenza, ignora tutto un
mondo superiore di conoscenza. C'è di più, la stessa conoscenza
delle cose sensibile, ignorandosi la natura della, risce imperfetta,
mentre la conoscenza della causa chiarisce la natura degli effetti. La
teologia non solo manifesta la sua superiorità sulla filosofia, ma
possiamo dire che è proprio la rivelazione che salva l’intelletto nel
suo stesso esercizio. «Subiectum philosophiae est relatio causae et
effectus, scilicet quod philosophus debet mvestigare per effectum
causam et per causam effectum; et investigatio quae fit per catisam
verior et nobilior est quam investigatio quae fit per effectum.
Verumtamen altior gradus investigationis est et nobilior ille qui fit
per theologiam, theologo considerante deum simpliciter secundum se;
scilicet operationem suam intrinsecam, quam deus habet in se ipso
ratione suae bonitatis, magnitudinis, aeternitatis, potestatis,
sapientiae, voluntatis, virtutis, veritatis, gloriae et
perfectionis. Et sic considerando theologus considerat rationes
infinitas, et per consequens actus infinitos; et de tali materia tibi
dicere potero de do plura et alta, et de aeternitate, si tu vis per
fidem supponere in principio, sine qua suppositione intelligere alta de
deo non potes... Unde cum in altiori gradu consistat consideratio
theologiae quam consideratio philosophiae, debent quaestiones
theologiae per rationes disputari sive naturales sive supra cursum
naturalem miraculose, et per auctoritates sanctorum, attingentes per
fidem veritates et secreta de deo et de sua operatione, quam habet
intrinsece et extrinsece immediate, deo scilicet agente in effectu suo
immediate»[9].
Ora è proprio la teologia che ci illumina sul problema delle
dignità divine, ossia sul problema della vera natura di Dio, sulle
sue operazioni, sugli stessi effetti di queste dignità. La mente
si orienta in un mondo in cui il dover essere del suo ragionamento,
cioè il suo argomentare per rationes necessarias, poggia tutto non
soltanto sulla verità del suo oggetto, ma sulla necessità intrinseca
che la verità di questo oggeto manifesta. C'è una vita intimsa in
questo oggetto, c'è dei rapporti, delle relazioni che hanno una loro
necessità, un loro dover essere, e il ragionamento umano allora è
nel vero quando comprende questa necessità, quando coglie questi
rapporti nel loro dover essere, quando sa che non è possibile che la
cosa sia diversamente.
Quali sono dunque queste dignità divine? quali rapporti il Lullo
pone tra di esse? quale luce esse diffondono nella soluzione dei più
ardui problemi? E poi ancora: riguardano esse la vita estrinseca o
anche la vita intriseca di Dio? Qualt è la via per cui la mente le
scopre? Nella dimostrazione la mente si serve soltanto di queste
dignità o fa appello ad altri principii?
Le dignità divine costituiscono gli attributi divini, le perfezioni
divine. Appunto perchè tali non possono considerarsi dei semplici
concetti umani sforniti di oggettività, di verità, hanno invece il
massimo di valore, di verità, uma volta che a Dio si possono
attribuire soltanto qualità che designano perfezioni positive e in
sommo grado. Che la mente ne tenti una enumerazione e parta anche
dalla considerazione delle cose sensibili, andando così dagli effeti
alla causa col procedimento induttivo o ascensus intellectus, non deve
trarci in inganno. Il fatto che una perfezione, limitata, c’è
nell’effeto, implica che la stessa perfezione, illimitata, ci sai
nella causa, illimitata, infinita quindi, in tutta la sua pienezza,
ma questo significa che le perfezioni divine bisogna ammerterle in Dio
non soltanto per spiegare la molteplicità e diversità delle cose
create —è la dimostrazione propria dei giudei, dei saraceni, degli
antichi filosofi, questa, come il Lullo riconosce—, ma anche per
spiegare la vita intima di Dio, quella vita intima che il filosofo
ignora, mentre il teologo, o il filosofo che dimostra nella luce della
teologia, ben conosce. L'assurdità della posizione di coloro che
pongono le dignità in Dio solo per spiegare la vita ad extra, appare
manifesta con queste altre considerazioni. Le dignità sono qualche
cosa di reale in Dio, si identificano tra di loro, si identificano
con Dio. Ammettere quindi che queste dignità siano in Dio in quanto
Dio há uma attività estrinseca, significherebbe, in fondo, negare
uma vna vera pirmalità a Dio rispetto alle sue creature, una volta
ché la vita divina sarebbe condizionata dalla vita delle stesse
creature, senza dire di altre contraddizioni in cui la mente cadrebbe,
per es. questa, essendo Dio infinito, dovrebbe creare creature
infinite, cosa che neppure loro ammettono.
La verità è invece questa, che le dignità divine sono dei valori
assoluti, delle perfezioni che designano la stessa vita divina, la
stessa natura divina, sai nella sua vita intrinseca sia nella sua vita
estrinseca, la seconda condizionata dalla prima. In quanto ragioni
reali sono dotate di attività, così la bontà è raggionedi ciò che
è bene, la grandezza di ciò che è grande, l'eternità di ciò che
è eterno, ecc. Se non fossero dotate di attività, dovremmo
ammettere che esse sarebbero oziose. La dimostrazione della trinità
divina, per es., viene dal Lullo sostenuta in base alla attività di
queste ragioni, nuovo argomento che le dignità non si riferiscono
soltanto alla attività ad. extra di Dio, ma anche, e
principalmente, alla vita divina stessa.[10].
Il Lullo, pur ammettendo che le dignità divine siano in numero
infinito, tenta uma enumerazione di quelle che gli sembrano le più
fondamentali: bontà, grandezza, eternità, potenza, sapienza,
volontà, virtù, verità, gloria, e poi ancora distinzione,
concordanza, principio, mezzo, fine, eguaglianza. Le analizza, le
giustifica, a noi interessa tener presente questo, che le dignità
sono reali da un lato, dall'altro lato esse si convertono, si
identificano l'una con l'altra in maniera tale che la grandezza, per
esempio, si identifica con la bontà, con la eterntà, e che tutte
quante si identificano con l'essenza divina stessa. «In ipso (deo)
dignitates sive proprietates antedictae sunt reales, ut per earum
realitatem remotae sint a non esse, et cum earum concordantia remotae
sint a contrarietate, sicut bonitas, quae cum concordantia
magnitudinis et aliarum remota est a parvitate. Item quod quaelibet
illarum dignitatum sive rationum sit in uno et in eodem numero cum
alia, sicut bonitas et magnitudo, quae insimul convertuntur, et hoc
necessario, ut in ipsis non cadat accidents, ita videlicet quod
bonitas sit magna per semet ipsam et magnitudo bona per semet ipsam, et
sic de aliis»[11]. Su questa eguaglianza delle dignità divine
Raimondo Lullo fonda la dimostrazione «per aequiparantiami», la
dimostrazione che poggia sulla assoluta eguaglianza delle dignità
divine in modo che 1'una è attuosa in maniera tale da non togliere
valore, primalità ad un altra dignità, a tutte le altre dignità.
La loro eguaglianza e la loro identità numerica costituiscono delle
verità che Lullo utilizza nella soluzione di alcune problemi per
risolvere obiezioni sottili.
La dottrina delle dignità divine si armonizza e completa con un'
altra dottrina, quella che ha per oggetto alcuni principii comuni:
concordanza, differenza, contrarietà, principio, mezzo, fine,
maggio- ranza, minoranza, eguaglianza, principii comuni i quali
regolano i rapporti tra le dignità divine nelle loro operazioni ad
intra e ad extra, regolano la vita stessa delle cose create, la loro
struttura. Dignità di vine, principii comuni: siamo al centro
stesso della mentalità del Lullo, siamo al punto forse più
caratteristico, personale, della sua speculazione, trovando esse
applicazione per risolvere i problemi che la mente studiosa si pone
rispetto alla vita intima di Dio, rispetto alle sue manifestazioni
esteriori rette da quella stessa legge, se così la si può chiamare,
che regola la vita stessa di Dio nella sua unità di essenza e
pluralità di persone. Se non ci fosse l'eguaglianza delle dignità
divine di«nità divme, se l’una potesse operare isolatamente dalle
altre, l'armonia della vita dîvina, l'armonia del creato sarebbe
perduta. Così la potenza, l'eternità, la grandezza, la bontà
divine..., non possono manifestarsi che in quanto l'una si
armonizza con l’altra. Ecco perchè viene escluso., per es., che
il creato sia infinito o sia eterno.
Le pagine introduttive che il Lullo scrive quasi come prefazione alla
sua Declaratio, hanno grande importanza perchè accennano alle ragioni
profonde della sua metadologia. Indubbiamente non sono sufficienti a
se stesse, presupponendo, per essere bene intese, altre dottrine e la
trattazione degli stessi problemi che il Lullo ha più estessamente
fatta, in maniera anche specifica, altrove. Tuttavia ha grande
importanza il notare la costanza con la quale i temi cari alla sua mente
ricorrono anche in questa opera che è insienie polemica e
apologetica, scritta in un periodo in cui —siamo nel 1.297—
l'averroismo non è ancor spento, e neppure è spenta l’ecco della
condanna di Stefano Tempier.
É a forma di dialogo quest'opera, un dialogo tra un Socrate, che
sostiene la parte del filosofo naturale, e Raimondo, che è il Lullo
stesso, il teologo pensoso. É un dialogo che ha molto di fittizio e
con un tîlosofo, per giunta, che molto facilmente concede. Per
giunta la trattazione, seguendo l’ordine delle proposizioni
condannate, non è esente da uno schematismo che ha molto di
artificioso e impedisce una trattazione organica dei problemi.
Tuttavia l'opera ha il suo valore documentando non solo quale
importanza a circa venti anni di distanza si attribuiva alla condanna di
Stefano Tempier, ma anche il pensiero del Lullo su molteplici
problemi, in particolare contro l'averroismo.
Abbiamo visto come l'averroismo venisse considerato nella scuola
francescana precedente e anche tra i pensatori che fioriscono in questo
periodo —per es. Olivi, Gonsalvo, Scoto—, come di distruttore
della vita cristiana. Lullo partecipa di questa mentalità.
L'averroista pone la filosofla come la scienza più alta, Lullo
considera tale la teologia, l'averroista nega l’immortalitâ
dell'anîma, Lullo pone la vera vita oltre la morte. Il vero è
questo, che il filosofo ignora la vita divina, ignora la vera realtà
umana.
Si tratta, per es., della struttura dell’intelletto, della natura
umana in genere. L’ averroista sostiene 1’unicità
dell’intelletto. Alcune proposizioni condannate sono quanto mai
esplicite: «Quod intellectus, quando vult induit corpus, et quando
non vult non induit corpus materiae» (prop. 8); «Quod
intellectus humanus non est actus corporis nisi sicut nauta navis, nec
perfectio essentialis hominis» (prop. 7); «Quod deus non posset
facere plures animas in numero» (prop. 27); «Quod intellectus
est unus numero omnium; licet enim ah hoc corpore separetur, non tamen
ab omni» (prop. 32); «Quod substantia animae est aeterna, et
quod intellectus agens et possibilis sunt aeterni» (prop. 109).
Lullo combatte questa posizione con ardore. L’averroismo,
ammettendo l’unicità dell’intelletto, distrugge l’uomo, il suo
intelletto «unicus » , «indivisibilis» , «spiritua1is»,
«incorruptibilis», «universalis» , «communis », viene ammesso
gratuitamente contro ogni più autentica affermazione, contro ogni più
certa, indubbia testimonianza della nostra coscienza. «Si tuus
intel1ectus, o Socrates, non esset actus tui corporis nec tua
perfectio essentialis, plura inconvenientia inde sequerentur,
videlicet quod tu non haberes proprium neque naturalem mtellectum cum
quo deum intelligeres, et idem esset de tua voluntate, quam neque
propriam neque naturalem haheres, cum qua deum amares... Adhuc dico
tibi, quod tua positio implicat, quod impossibilitas sit
possibilitas, quoniam tu intelligis, quod possibile est tibi, me et
alium intelligere et amare, et de hoc in te experientiam habes, et de
hoc etiam, quod tu libertatem habes ad intelligendum et amandum me et
alium, quod esset falsum et impossibile, si tu non haberes proprium
intellectum cum quo intelligere posses, et propriam voluntatem cum qua
posses amare»[12].
L’appello all’esperienza intima, così sistematicamente utilizzata
dall’Olivi, viene tesoregiata dal Lullo. Ha fatto appello a questa
esperienza per rispondere al settimo argomento degli averroisti, ad
essa fa appello per confutare un altro loro errore, il trentaduesimo,
che afferma essere necessario porre l’intelletto unico altrimenti non
potremmo conoscere le verità o proposizioni «generalia». Il
Lullo osserva, incidentalmente, che questa conoscenza potrebbe essere
raggiunta dal nostro intelletto particolare per una capacità ad esso
donata da Dio, ma questa osservazone cede il posto di fronte alla
testimonianza della nostra coscienza: gli atti di pensare, ricordare,
amare, vo1ere..., sono personali, individuali. «Si ita esset,
sicut tu dicis, multa inconvenientia sequerentur, sicut homo, qui se
intelligentem non intelligeret, sed intellectus cum homine intelligeret
tanquam cum organo. Hoc etiam posset dici de voluntate hominis, quae
una esset in omnibus hominibus, et sic de memoria hominum, quod est
inconveniens et impossibile et contra experientiam quam habes, quia tu
scis, quod libertatem habes intelligendi unum aut alium; et sic de
amare et recolere. Sequitur ergo, quod proprium habes intellectum,
propriam voluntatem et propriam memoriam, quae sunt potentiae tuae
animae, quae est uma pars tui ipsius, et de ipsis agis ad placitum;
sed si esset, sicut tu dicis, ita quod esses instrumentum
intellectus, et sic de voluntate et memoria, esset tuus intellectus
sicut artifex, qui utitur suo instrumento ad placitum, et tu libere
non intelligeres, recoleres et amares istum vel illum, quod est
falsum, et de hoc experientiam habemus»[13].
L’unicità dell’intelletto distrugge la persona umana, la
trasforma, lo aveva fatto notare anche san Tommaso, da soggetto
conoscente in oggetto conosciuto. Il Lullo aggiunge,
francescanamente, che l’unicità dell' intelletto si trarrebbe
dietro anche la mortalità dell’ anima, inconcepibile senza la
molteplicità e indîvidualità dell’ intelletto, mortalità la
quale sminuirebbe lo scopo stesso della creazione dell’uomo perchè,
se scopo della vita è di amare Dio, lo ameremmo durante la vita
terrena ma non per l’eternità. Alla grandezza della intelligibilità
e amabilità divina non risponderebbe un atto adeguato di conoscere e
amare da parte della creatura razionale. «Si intellectus esset unus
in omnibus hominibus, resurrectio esset impossibilis, cum non posset
esse, nisi essent plures intellectus; sed nos probavimus..., quod
erit resurrectio, cum deus sit magis intelligibilis in maiori duratione
et actu intelligendi quam in minori, et hoc, quia sua intelligibilitas
est magna et non parva; sed si non esset alia vita, deus ageret contra
suam maiorem intelligibilitatem et maiorem actum intelligendi, in
quantum nollet alliam vitam esse, et sic esset contra se ipsum, quod
est impossibilis»[14].
Pensare il contrario implica mettere in contrasto la causa e
l’effetto, in fondo pensare male della causa, cioè di Dio, in
quanto a Dio risalirebbe il disordine riscontrato nell’effetto.
Questo problemia appena accennato si chiarisce con la dottrina delle
dignità divine. Lo stesso rapporto che l’intelletto unico, il
divino, ha verso l’intelletto umano, lo hanno la bontà, la
grandezza verso ciò' che è grande, buono. Come in noi conscerebbe
l’intelletto unico, egualmente la bontà opererebbe in noi. Ma
questo è contro la nostra esperienza, sappiamo infatti di operare il
male, sappiamo di avere in noi la volontà con la quale aderiamo o
rifuggiamo dal peccare. «Adhuc dico tibi, quod si esset unus
intellectus generalis, esset una bonitas spiritualis generalis, et
idem de magnitudini generali, et sic de aliis, cum divina bonitas, et
sic de aliis, aequaliter se habeant ad effectum sicut divinus
intellectus. Et si in omnibus hominbus esset una generalis bonitas
spiritualis sicut unus generalis intellectus, bonitas generalis
faceret quemlibet hominem facere bonum, sicut intellectus faceret
quemlibet hominem intelligere, et sic de magnitudine, duratione etc.
Unde sequeretur, quod nullus homo libertatem faciendi bonum, magnum
etc. haberet, sed esset instrumentum sive organum motum ad bonum etc.
Et si homo facit mialum, est motus sic ad malum ab extrinseca
generali malitia sicut, quando facit bonum, est motus a generali
bonitate; et sic nullus homo libertatem habet resistendi peccato, quod
est falsum et impossibile et contra experientiam quam de libertate
habemus. Et quia per experientiam habemus, quod homo habet libertatem
peccandi, significatum est quod tua ratio inanis est et nulla»
[15]
L'averroismo distrugge l’uomo con la dottrina della unicità dell’
intelletto, spezza la sua vita in due tronconi con la dottrina della
doppia verità, vanifica d’altra parte la rivelazione col primato che
assegna alla filosofia. Nessuna meraviglia se non ha sentito bene
dell’ uomo una volta che non ha bene sentito di Dio. Il bando dato
alla teologia ha avuto come conseguenza una serie di errori che si
riferiscono all’uomo, si riferiscono a Dio. In particulare Lullo
dimostra che gli errori averroistici su Dio dipendono dalla sconoscenza
della vita divina. L’errore, anzi gli errori che si riferiscono alla
creazione, quale viene ammessa dagli averroisti, ne sono un documento
evidente.
Che cosa pensa il filosofo aristotelizzante su Dio, sulla derivazione
delle cose? Senza neppure tentare di ridurre ad unità di sistema le
molteplici tesi che il Lullo esamina, soffermandoci su alcune di esse
tra le più caratteristiche, diciamo che questo pensatore (uno o piû
nella storia, non importa a noi in questo momento la paternità delle
singole dottrine) afferma che in Dio non c’è una vita intima —la
vita trinitaria— («Quod Deus non est trinu et unus, quoniam
trinitas non stat cum summa simplicitate» (prop. 1); «Quod Deus
non potest generare sibi similem. Quod enim generatur, ab aliquo
habet principium, a quo dependet. Et, quod in Deo generare non
esset signum perfectionis» (prop. 2); nè una conoscenza delle
cose diverse da lui, soggette come esse sono alla mutazione («Quod
deus non cognoscit alia a se» (prop. 3); nè libertà nell’atto
creativo («Quod Deum necesse est facere, quidquid immediate fit ab
ipso» (prop. 53); «Quod Deus est aeternus in agendo et
movendo, sicut in essendo; aliter ab alio determineretur, quod esset
prius» (prop. 51); nè possibilità di tutto poter produrre
direttamente o creare diversamente di come ha creato o crea («Quod
Deus non potest esse causa novi facti, nec potest aliquid de novo
producere» (prop. 48); «Quod prima causa non potest plures
mundos facere» (prop. 34); «Quod ab uno primo agente non potest
esse multitudo effectum» (pvop. 44); «Quod mundus est
aetemus..., et quia est a potentia dei infinita, et impossibile est
novatione esse in effectu sine inovatione in causa» (prop.
87)...
Lullo combatte l’ eternità del mondo, nega la neccessità nell’
atto creativo, respinge ogni sorta di determinismo. La creazione è
un atto di sovrana liberalità divina, è una espansione del bene, è
una manifestazione contingente che poteva essere diversa di come è,
che potrebbe ancora manifestarsi in forme nuove, addirittura in una
pluralità di mondi, se così volesse. Il creato è assolutamente
contingente. E come è contingente, cosi è temporale. Le polemiche
prò o contro la temporalità della creazione avevano suscitato lotte
infinite. Il Lullo prende posizione contro l’eternità della
creazione ma la molteplicità degli argomenti che nella scuola
francescana precedente venivano arrecati, assumono in Lullo una nota
personale perchè il problema viene chiarito nella luce della dottrina
delle dignità divine. I filosofi hanno errato perchè hanno ignorato
tale dottrina.
Infatti hanno in primo luogo negato una vita intima a Dio, ed essendo
assurdo porre un Dio ozioso, hanno creduto poter così giustificare
l’eternità della creazione. Il filosofo dimostra così di non
essersi saputo elevare al vero concetto della divinità, ignora cioè
che in Dio c’è una potenza attiva sempre in atto, mai oziosa,
rispetto al potere, all’ intelletto, alla volontà. «Tu non
consideras operationem intrinsecam, quam deus habet in se, qui habet
potentiam activam, ut suae rationes magnae existant per agere,
scilicet per magnum actum infinitum, sicut divina potestas, quae habet
posse infinitum de se ipsa, et de sua bonitate, magnitudine,
aeternitate etc. Et sic de divino intellectu, qui habet intelligere
infinitum intelligendo infinitam bonitatem et infinitum bonificare, et
infinitam magnitudinem et infinitum magnificare, et infinitam
aeternitatem et infinitum aeternare, et infinitam potestatem et
infinitum posse, et idem de divina voluntate, et hoc in divinis de
neccessitate, ut Deus de suis rationibus non sit simpliciter
otiosus. Sequitur ergo, quod deus habet potentiam activam existendo
et agendo ab aeterno et in aeterno et per infintatem, ut dictum
est»[16].
La creazione è una espansione di una vita la quale ha la propria
attualità, la propria prfezione intrinseca, e questa espansione trova
la sua radice non nella indigenza divina, ma nella ricchezza divina, e
trova il suo limite nella finitezza delle realtà create che non possono
accogliere in sè la pienezza della perfezioni divine, e trova ancor la
propira armonia nella eguaglianza delle dignità divine. Infatti
queste non sono oziose nè rispéto alla vita intima di Dio nè
rispetto alla sua vita estrinseca, ma il loro operare trova la
perfezione nel rapporto che lega le dignità divine tra di loro e
rispetto all’ essenza divina nella quale tutte si identificano. I
problemi della finitezza della creazione e della temporalità della
creazione stessa vengono infatti giustificati facendo appello alla
dottrina della «aequiparantia».
Le divine dignità operano in modo che l’una armonizza la propria
operazione con l’operazione dell’altra, quindi non ha senso affermare
che la potenza divina può più rispetto alla eternità che rispetto
alla bontà. Se la bontà non può comunicarsi infinitamente, neppure
l’eternità può communicarsi eternamente, altrimenti mancherebbe la
concordia, l’eguaglianza tra le dignità divine, la stessa essenza
divina, in cui tutte si identificano, sarebbe in lotta com se
estessa, la potenza divina, fondamento delle altre dignità, avrebbe
meno potere di qualcuna di esse. Cossa assurda. «Modus productionis
de non esse in esse... est totus suspensus et sustentatus in divinis
rationibus et in identitate numeri ipsarum»: questa è la legge
sovrana della creazione. Se noi ammettiamo l’eternità del mondo,
l’armonia tra le divine dignità viene eliminata, ma la disarmonia
posta nella causa creatrice creerebbe uma disarmonia anche
nell’effetto. Ora l’effetto, finito respetto alla bontà, alla
grandezza, come protrebbe ricevere l’eternità? «Adhuc dico tibi,
quod divina potestas plus in effectu non potest ratione aeternitatis,
quam ratione sui ipsius, sicut divina bonitas, quae plus bonificare
non potest quoad aeternitatem quam quoad se ipsam, et sic magnitudine,
sapientia, voluntate, virtute, veritate, gloria et perfectione.
Sed si mundus sit aeternus, potest esse aeternus per divinam
aeternitatem, prout esse aeternus per divinam potestatem, cum sine
divina potestate divina aeternitas causare non posset aerternitatem
mundi. Sequitur ergo, si mundus est aeternus, quod divina potestas
plus potest quoad aeternitatem quam quoad se ipsam, etiam quoad divinam
bonitatem, magnitudinem, etc.; et hoc, quia communicat se
aeternitati, ut causare possit infinitam durationem. Sed potestas non
posset in effectu influere respectu suae ipsius simpliciter infinitam
possificationem, cum mundus ipsam recipere non posset. Potest ergo
potestas, si mundus sit aeternus, quoad alienam rationem plus quam
quoad suam propriam, quod est impossibile, sicut est impossibile,
quod intellectus plus possit intelligere quoad voluntatem quam quoad se
ipsum et e converso»[17].
Il problema della temporalità della creazione, visto nella luce della
dimostrazione «per aequiparantiam divinarum rationum», acquista uma
forza insospettata. È uma dimostrazione la quale à propria della
ragione sostenuta dalla fede, illuminata da uma superiore conoscenza
della natura divina, dimostrazione la quale non perde per questo nulla
del suo rigore dimostrativo, della necessità razionale che piega el
nostro assenso. La filosofia separata, ancora uma volta, manifesta
la sua insufficienza. Gli antichi filosofi conobbero la dimostrazione
propter quid —dalla causa all’effetto— e quia —dall’effetto alla
causa—, ma non si elevarono alla dimostrazione che poggia sulla
«equiparantia» delle ragioni divine. Ecco la causa dei loro errori
sul problema della creazione. «Praeterea non sufficeret humano
intellectui intelligere deum esse et suas rationes praedîctas, nisi
intelligeret actus intrinsecos in divino esse, ita videlicet, quod
quaelibet ratio habeat in ipso esse actum suum, ut non sit otiosa,
sicut iam praedictum est, sicut bonificare, quod est actus
bonitatis, et magnificare actus magnitudinis, et aeternare actus
aeternitatis, et sic de aliis. Et quia in deo omnes rationes sunt
idem numero, earum actus sunt idem numero, sicut bonificare,
magnificare etc., quae sunt idem numero, et sic sunt rationes per
actus realiter, et omnes se habent ad plures actus in illo esse communi
sive essentia sive natura quae est deus, et plures actus sunt generare
et spirare in divinis personis. Et sic haec omnia sunt necessaria ad
cognoscendum deum esse simpliciter per se ipsum, et in se ipso est
ens completum et purus actus bonus, infinitus et aeternus etc. Sed ad
talem cognitionem philosophi antiqui non pervenerunt, quia de deo non
consideraverunt nisi propter quid et quia secundum relationem causae
et effectus, non secundum quod in deo est aequiparantia per
bonitatem, infinitatem magnitudinis et aeternitatis etc. »[18]
L’attività filosofico-teologica nel Lullo non era fine a se
stessa. La conoscenza del vero aveva come scopo di accrescere la
stessa fede, punto di partenza della indagine, la diffusione sua. La
sua apologia si fondava sulla vita vissuta nella luce della verità, ma
non rinunziava alla forza della ragione per confutare l’altrui errore.
Non potrà l’opera del Lullo giovare anche oggi? L’elemento
affettivo e l’elemento razionale erano in lui intimamente solidali,
questa pienezza di vita potrà giovare per dar forza alle esigenze del
nostro cuore, alle ragioni della nostra ragione. L'agostinismo
francescano ha suscitato sempre adesioni per la profonda umanità della
sua speculazione, Lullo aggiunge di suo una vita eroica perchè
consacrata al servizio del suo ideale, spesa per la sua realizzazione.
Il fascino che la sua figura esercita potrà non poco giovare anche a
fare apprezzare le sue idee.
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